— ricordiamo
Roberto Sardelli

Roberto Sardelli, prete di periferia
Nato a Pontecorvo, nella bassa Ciociaria, nel 1935. Proveniente da una tipica famiglia meridionale terriera e di libero lavoro professionale, ricevette una severa educazione cattolica mai cedevole al bigottismo e all’esibizione del benessere, anzi attenta alla condizione degli ultimi. Ogni giorno, prima di sedersi a tavola per il pranzo veniva fatto recapitare a quattro famiglie povere del paese lo stesso pranzo, e non si cominciava a mangiare prima di essersi assicurati che tutti stessero facendo la stessa cosa.
Dopo una breve esperienza politica e lavorativa, nel 1960 è entrato in seminario, a Roma, dove è stato ordinato sacerdote nel 1965. Il seminario che ha frequentato era il Capranica, dove si formavano coloro che avrebbero fatto carriera ecclesiastica. In quel periodo c’era anche Ruini, Nicolino Barra e Isidoro ( questi due erano preti operai ). Durante i suoi studi filosofici e teologici ha avuto modo di incontrare Lorenzo Milani a Barbiana nel Mugello. Per un periodo soggiornò a Lione in Francia dove approfondì la conoscenza dei preti operai e lo studio di Teilhard de Chardin. Dopo un primo incarico parrocchiale ad Acilia passò alla parrocchia di san Policarpo come viceparroco, dove, tramite alcuni ragazzi chierichetti,venne a sapere che a cento metri alle spalle della chiesa parrocchiale, lungo gli archi dell’Acquedotto Felice, c’era un nutrito insediamento di baraccati. La realtà non gli era sconosciuta, ma trovarsela a pochi metri dal suo impegno pastorale lo spinse ad approfondire la conoscenza e i bisogni dei baraccati. Questi erano dei migranti provenienti dalle regioni più povere del Sud Italia, ( Sicilia, Calabria, Abruzzo, Basilicata ) che a causa del loro bassissimo salario non potevano permettersi di pagare l’affitto. Per alcuni giorni Roberto frequentò il borghetto e poi decise di fare una scelta radicale: andare a vivere con i baraccati.
Questa sua scelta era vista in contraddizione con il modo di vivere in parrocchia. Lui continuava a celebrare la messa in parrocchia ma hanno fatto di tutto per spostare l’orario, non alle 11,00 che precedentemente gli era stato assegnato e la chiesa era molto frequentata, ma alle 7,00, frequentata da poche persone. Dal dialogo col vescovo, raccontato nel suo libro “Vita di borgata”, emerge il carattere di Roberto, che non ha paura di dire quello che pensa:
“Appena qualche settimana dopo, il parroco mi invitò a celebrare la messa delle sette anziché quella delle undici: mi retrocedevano alla messa meno frequentata. Alla proposta del parroco risposi di no: o messa alle undici o niente. Quindi fu richiamato il vescovo che ci riunì nell’ufficio parrocchiale. Egli cominciò col dire: “Non possiamo ignorare che le tue prediche generano smarrimento. D’altra parte il parroco imposta l’unità pastorale e in parrocchia non possiamo avere più pastorali. Anch’io sono d’accordo con il parroco nell’offrirti di celebrare la messa delle sette”. Davanti a questa freddezza ritrovai la forza di dar fondo alle energie che avevo e risposi: “Domenica mi ha detto che tutti parlavano male di me. Poi ho sentito i baraccati. Adesso mi viene a dire che la gente è smarrita per le mie prediche. Non mi dirà che sono smarriti i baraccati! So, invece, chi può essere smarrito, e lei dovrebbe conoscerli bene, perché sembra il loro portavoce”.
– Questo non è del tutto esatto …
– E’ esattissimo, e adesso faccia parlare me: chi è che conta nelle sue scelte? Glielo dico io chi conta, sono i privilegiati del quartiere. E non può essere diversamente perché essi sono l’oggetto delle sue cure. Lei ne è il degno cappellano. Voi fate parte di quella storia bugiarda di cui le ho parlato l’altra sera. Volete cacciarmi dalla parrocchia? E allora siate chiari e non venite a farmi delle offerte che io non potrò mai accettare perché ci va di mezzo la dignità di un uomo.
Il vescovo, visibilmente innervosito interruppe:” Noi non vogliamo cacciarti dalla parrocchia. Tu sei libero di fare quello che vuoi, ma non si dica che ti abbiamo mandato via noi. Certo non si può stare in parrocchia a dispetto degli angeli!
Capii. Non potevo rimanere in parrocchia a dispetto del parroco … e suo. Risposi:”E’ inutile ricorrere a queste metafore per dirmi che mi cacciate dalla parrocchia. Voi siete i degni pastori di quella risma di parrocchiani che con il parroco mi hanno rinfacciato il piatto di minestra che vengo a mangiare qui a mezzogiorno e a sera. Venga tra i baraccati a dirmi quello che mi sta dicendo qui dentro. Ma ciò non lo farete mai perché siete governati dalla paura. Voi non siete i ministri del coraggio e del rischio. Voi non amate la luce, ma agite nel buio dei vostri templi. Voi siete i ministri de sospetto e non della franchezza”.
Le “case”, se così si possono chiamare, lungo gli archi dell’Acquedotto le cui mura, da una parte e dall’altra, offrivano un sicuro sostegno alla fragilità e provvisorietà delle altre. Davanti ad ogni baracca era stato ricavato un piccolo giardinetto per la coltivazione degli ortofrutticoli necessari per la famiglia. Spesso in questi piccoli spazi che, nelle loro dimensioni, riproducevano la loro cultura agricola, si organizzavano anche piccoli allevamenti di conigli e polli funzionali alla modesta e precaria economia domestica. Nello stesso spazio veniva scavato un pozzo nero per il sovrastante bagno. Sulla testa di tutti scorreva abbondante acqua che alimentava la zona di Piazza di Spagna, ma le donne dell’Acquedotto Felice, non potevano servirsene e ogni giorno andavano a fornirsene a una pubblica fontanella su via Lemonia con grossi secchi di plastica. Solo la baracca di Antonia poteva vantarsi di avere l’acqua in “casa”. Cosa era successo? Racconta lo stesso Roberto:
“Durante la nottata in cui un grande temporale che sembrava sollevare nel cielo le baracche come la santa casa di Loreto, un fulmine si abbatté sull’Acquedotto tanto forte da far tremare tutto il borghetto. Il fulmine provocò un’invisibile lesione alla sommità dell’Acquedotto e da qui fuoriusciva di tanto in tanto una goccia d’acqua che incanalandosi attraverso il tetto della baracca di Antonia le portava l’acqua in casa. Gli altri abitanti delle baracche si armarono quindi di uno scalpello pneumatico e forarono la cima dell’Acquedotto, vi introdussero un piccolo tubo di gomma e l’acqua arrivò così in tutte le baracche”.
Spesso d’inverno, quando i viottoli d’accesso al borghetto si riempivano di fango i medici si rifiutavano di venire a visitare i malati. Le malattie reumatiche erano comuni, e alcuni ragazzi portavano in tasca le pasticche di nisidina per lenire i dolori articolari. Il quartiere guardava gli abitanti delle baracche con ostilità e circospezione. Si arrivò al punto che una sera una ruspa chiuse l’unico viottolo che collegava il borghetto con via Lemonia e il resto del quartiere. Quando i baraccati si organizzarono con pala e piccone per rendere di nuovo agibile la strada furono accolti dagli insulti che piovevano dai palazzi circostanti.
La scuola
Don Roberto si informò in modo particolare della situazione dei ragazzi. Quasi tutti frequentavano la vicina scuola pubblica sia elementare che media, ma segnati dal disagio sociale, ne venivano anche emarginati. Molti rifluivano nelle classi differenziali che erano il grado più basso di scolarizzazione offerto: insegnanti scadenti e poveri di motivazione, classi ricavate in spazi ristretti e provvisori. La scuola non si faceva carico della condizione in cui i ragazzi vivevano. Lo svolgimento del programma era al centro del loro impegno. Se , ad esempio una ragazzina, alla fine dell’anno, compiuti i sei anni, non sapeva leggere, per lei c’era o la bocciatura o la classe differenziale. Per chi rimaneva indietro e non sapeva né leggere né scrivere c’era addirittura lo stigma del ritardo mentale a condannarlo ed emarginarlo. Altri, pochi, che tentavano l’accesso alla scuola secondaria, venivano esplicitamente invitati a uscirne dagli stessi professori e a cercarsi un lavoretto come garzoncello in qualche negozio di “vini e olii”. Per questi motivi la scuola diventava per i ragazzi un vero e proprio tormento al quale si assoggettavano fino a che potevano per poi abbandonare prematuramente gli studi, proprio a causa della discriminazione a cui erano sottoposti. I giovani della parrocchia, in quegli anni di risveglio sociale ( erano gli anni sessanta ), pensarono di organizzare un doposcuola, per colmare dal punto di vista nozionistico, i vuoti della scuola pubblica. Don Roberto si accorse subito che non era questo il tipo di intervento di cui il borghetto, nel suo insieme, aveva bisogno. I ragazzi dovevano essere motivati dall’avventura del sapere inteso come mezzo per il loro riscatto sociale e culturale. Lo spazio scolastico doveva essere il loro spazio comune, dove il rendersi coscienti della situazione di emarginazione in cui erano costretti a vivere, era la via per uscirne con dignità e a testa alta. Nacque così la Scuola 725, dal numero della baracca ( la baracca 725). Gli stessi ragazzi ne curavano la pulizia e il giardinetto antistante. Nella baracca 725 si restava fino alle ore 20 e d’inverno già alle 16 imbruniva.
“Il luogo dove viviamo è un inferno. L’acqua nessuno può averla in casa. La luce illumina solo un quarto dell’Acquedotto. Dove c’è la scuola si va avanti con il gas. L’umidità ci tiene compagnia per tutto l’inverno. Il caldo soffocante l’estate. I pozzi neri si trovano a pochi metri dalle nostre cosiddette abitazioni. Tutto il quartiere viene a scaricare ogni genere d’immondizie a 100 metri dalle baracche. Siamo in continuo pericolo di malattie. Quest’anno all’Acquedotto due bambini sono morti per malattie, come la broncopolmonite, che nelle baracche trovano l’ambiente più favorevole per svilupparsi”.
Non si aveva l’elettricità e si cominciò a farsi luce accendendo alcuni mozziconi di candela. Poi, preoccupati di migliorare la situazione, si passò all’uso dell’acetilene che alimentava una luce più chiara, ma disturbava la vista. Si pensò e si comprò un accumulatore, ma bisognava portarlo in officina per la ricarica molto spesso.
Alla fine ci si organizzò per un allaccio abusivo alla vicina cabina ACEA per cui furono denunciati. Quindi con maggiore tranquillità ci si poteva dedicare a quel lavoro didattico e pedagogico che superava, inglobandolo, il sapere nozionistico. Ogni giorno il giornale veniva portato in classe e si squadernava sotto gli occhi dei ragazzi la realtà di quegli anni: Avola, Battipaglia, il Vietnam, la Cina, il Nord-Est brasiliano, le lotte degli edili romani,dei metalmeccanici, la lotta per la casa, i temi dell’emarginazione che affliggevano gli stessi baraccati. I ragazzi conobbero anche le grandi figure di Gandhi e di Malcolm X ,Che Guevara e con essi anche la conoscenza della musica e del cinema diventarono tutti elementi che ci arricchivano e davano un’anima al processo formativo che coinvolgeva tutti e in questo senso cadeva la separazione tra cattedra e banchi, tutti sedevano seduti intorno ad un tavolo intenti a conoscere nei minimi particolari la realtà che ci circondava e in cui tutti, maestro ed alunni, vivevano.
La nascita della “Lettera a Sindaco” e il libro “Non tacere”
I ragazzi stessi, leggendo il giornale, sceglievano una notizia su cui desideravano discutere di più. Le riflessioni successivamente confluivano sul quindicinale “Scuola 725” che veniva battuto a macchina, ciclostilato e distribuito dai ragazzi stessi. Attualmente i numeri di questo giornale sono raccolti in quattro grossi volumi che riflettono la ricca varietà degli argomenti e la cronaca della vita del borghetto. il tempo delle riflessioni era frequentato da tutti, da bambini di 8 anni come da adolescenti di 15 . Certo, il lavoro era complesso, difficoltoso e severo; i tempi si raddoppiavano perché bisognava fare lo sforzo di volgarizzare al massimo l’argomento e renderlo attraente servendosi di un linguaggio narrativo e dialogante, passando per il disegno in cui i ragazzi cercavano di tradurre in immagine un concetto. Con questa metodologia si scrisse , durante 10 mesi, la Lettera al sindaco che allora era Darida, e il libro Non tacere. Per un anno intero don Roberto e i suoi ragazzi studiarono il libro di testo della scuola pubblica e allorché ne rilevarono l’estraneità dalla loro vita, decisero di scriverne uno da soli. Il libro suscitò grande scandalo nella città di Roma. Anche la Rai si interessò al fatto e ne ricavò un servizio giornalistico ( di cui si possono vedere stralci nel documentario Non Tacere di Fabio Grimaldi ). Anche il noto sociologo Franco Ferrarotti incontrò don Roberto e i ragazzi della scuola 725, nel suo lavoro di documentazione sulle periferie.
Nel 1972 esce una “Lettera ai cristiani di Roma” scritta da 13 preti sulla situazione dei baraccati in Roma, distribuita in tutte le parrocchie e pubblicata su “ Paese Sera” per intero. Dopo questa lettera don Roberto fu ricevuto da Paolo VI, il quale finanziò la costruzione di un quartiere per baraccati ad Acilia. Dopo lo sgombero della bidonville nel 1973 a don Roberto gli fu assegnato un appartamento ad Ostia insieme ad altri baraccati. Da allora si dedicò a lavori agricoli e giornalistici Fu responsabile per alcuni anni di ADISTA , insieme a Mario Brunelli ( altro prete operaio ). Dopo il 1975 è stato editorialista di Paese Sera, l’Unità e Liberazione oltre che collaboratore di molte riviste del mondo cattolico. I suoi interventi si focalizzavano su una riflessione critica dei costumi che si andavano sempre più radicando nella società italiana negli anni settanta, e che poi sarebbero diventati maggioritari in tutta la popolazione: il consumismo sfrenato, il declino dell’etica pubblica e della tensione utopica, l’intolleranza per il diverso e i più deboli. Don Roberto affrontò quei problemi che altri intellettuali facevano finta di non vedere, con l’eccezione di pochi ( tra cui va sicuramente menzionato Pier Paolo Pasolini). In seguito gli articoli sono virati verso un commento sulla politica che si andava velocemente verticalizzando riducendo così gli spazi della democrazia, e su una situazione ecclesiale post-conciliare tesa ad una pericolosa ricostantinizzazione della Chiesa. All’indomani del Convegno sui mali di Roma (1974) insieme ad altri cristiani di Roma, preoccupati della gestione del convegno stesso, convocò un incontro dal nome “Oltre il convegno” in cui si ribadiva la necessità di un rinnovamento strutturale dell’organizzazione ecclesiastica, la fine di una pastorale impostata sulla sacramentalizzazione di massa e un ritorno alla dimensione evangelica e resa credibile da una scelta dei padri della Chiesa, non solo votata alla beneficenza, ma portatori di diritti e proposte per la vita stessa della comunità pastorale.
La cura dei malati di Aids
Dal 1989 al 1998, oltre a continuare il lavoro come giardiniere, Roberto seguì negli ospedali la vicenda tragica dei malati di Aids. Anche qui come con la Scuola 725 cercò di dare valenza teologico-morale alla sofferenza del mondo che in quei primi anni della malattia era popolata dalle fasce più deboli della società : omosessuali e travestiti. Stando al fianco dei malati terminali, afflitti da questo terribile ( e allora incurabile ) male, arrivò alla conclusione che si dovevano rivedere totalmente le categorie teologico-morali che avevano creato ghettizzazioni ed esclusioni. Bisognava restituire agli ultimi il loro potere propositivo. Ma fu proprio questa convinzione a far sì che nessuna parrocchia romana lo invitasse a raccontare la sua esperienza di cura dei malati di Aids giacché era pensiero diffuso che questo terribile male fosse proprio solo di reietti della società che in fin dei conti “si erano andati a cercare loro stessi questo male” con il loro comportamento. Questa presenza vicino ai malati di AIDS iniziò con l’apertura di Villa Glori, e quasi contemporaneamente seguiva queste persone negli ospedali fino alla conclusione della loro vita.
Ci vorrebbe un libro intero per raccontare tutta la sua vita. Noi preti operai di Roma ci siamo trovati con Roberto da ’75 fino al 2002 . Ci trovavamo una volta al mese per confrontarci su temi del sociale e dell’ecclesiale. La sua presenza era per tutti un continuo stimolo. Egli non mancava mai. Come lavoro continuò a dedicare molto tempo a quello agricolo,alla potatura degli alberi , viti e ulivi , cura dei giardini, alla cultura degli ulivi che aveva a Pontecorvo . Un lavoro che pochi conoscono è stata la coltivazione-allevamento delle lumache, nata dalla formazione giovani in cerca di lavoro.( Uno dei suoi giovani ha fondato una cooperativa agricola ed è diventato assessore alla regione Lazio). Un’attività a cui ha dedicato tempo ed energie è stata la formazione dei giovani alla politica ed era in contatto con persone qualificate, architetti, amministratori. Negli anni che ha passato nella parrocchia di Mario Pasquale aveva molti incontri e riunioni con queste persone ed insieme progettavano una città diversa, vivibile.
Con l’elezione di Francesco, a vescovo di Roma, ha avuto un sussulto. Sperava in un cambiamento epocale ma è rimasto deluso. Attorno a Francesco c’era una struttura e un apparato che l’avrebbe compresso. Poco dopo l’elezione gli ha scritto una lettera che gli è stata fatta recapitare e dopo venti giorni il papa alle cinque del pomeriggio lo ha chiamato per telefono ringraziandolo . Sperava in un invito ad un incontro che gli offrisse la possibilità di approfondire le sue proposte , ma l’invito non ci fu. E questo lo ha rattristato molto. Lo si vede dallo scritto:
“Su un foglio, con il ritmo diretto del mio linguaggio a mò di preghiera, scrissi ciò che mi dettava l’impegno che mi aveva guidato lungo i cinquant’anni:
Francesco, liberati dalla casacca mediatica
dentro la quale ti hanno messo fin dall’inizio
e in cui ti sei collocato alla grande, con maestria.
Liberatene!
E’ una casacca ambigua
che ti accarezza, ma può tradirti.
Scavalca il cerchio magico della curia che
come una mantide dopo essersi nutrita di te
e averti corteggiato ti mozzerà il capo.
Non li vedi?
Si sono riuniti nottetempo ed hanno deciso:
tutto dovrà cambiare perché tutto resti come prima!
Francesco, liberati dalla casacca mediatica,
non cercare il virtuale, ma incontrati con il reale,
che è la ricchezza della chiesa:
essa è, non si esibisce,
ma è nascosta come il tesoro nascosto!
Come il più piccolo tra i semi!
Come una manata di lievito!
Questa è la strada che ti indico,
ma se tu decidi di non seguirla,
sappi che ti sarò sempre accanto.”
“Precedentemente un amico sacerdote mi avvertiva che avremmo dovuto preparaci per un eventuale incontro di lavoro con Francesco. Anch’io pensavo che non saremmo dovuti andare all’eventuale incontro solo per spiegare la prima lettera, ma per fargli delle proposte programmatiche. Era su questa base che si sarebbe potuto sviluppare un lavorio di consultazione e di coinvolgimento che avremmo portato avanti con lo stesso vescovo … La chiesa cominciava a pregustare lo stare seduta anziché essere in cammino. Chiesi aiuto al direttore di una grande e capillare organizzazione assistenziale, chiesi un appoggio logistico. Le porte erano state chiuse. Bisognava prendere atto che il dibattito ecclesiale, quaranta, cinquant’anni fa pronto a mobilitarsi, era stato ucciso.
Bisognava risuscitare il morto.
Era evidente che il sistema e il suo apparato esigevano collaborazione dalla base, a senso unico, ma non erano disponibili ad offrirne. La partecipazione era stata anatemizzata colpendo al cuore il “tendere a”. Eppure gli appunti non erano escludenti, facevano esplicito riferimento agli annunci del vescovo Francesco che noi dovevamo prepararci a tradurre in prassi pastorale.
Il corpo ecclesiale negli anni aveva subito notevoli dosi di morfina , e dormiva. Se n’era accarezzato il ventre e la mente s’era addormentata.
Molti delusi andavano via, afferrati dalla paura di andare avanti, si ritiravano delusi. Non mancarono gli errori, ma chi aveva il dovere di dire, allora sì, di non aver paura del movimento, ma della immobilità, non del ruscello che scorre e fa rumore, ma della palude, si fregò le mani.
La piazza si riempiva, ma solo per l’applauso. Per il re nudo non c’era più posto. La pavidità poteva ritornare a regnare tranquilla. Non si prendeva atto che gli stessi problemi suscitati dallo stesso Concilio erano rimasti tutti insoluti e allineati uno per uno sul tavolo del dibattito disertato, e il nodo si aggrovigliava sempre di più di anno in anno. La regula regulans non era il diritto e il bisogno dell’altro, ma il pensiero del vertice.
Particolarmente il clero più giovane non riusciva nemmeno più a capire l’urgenza del risveglio. Ministri del culto più che dell’amore si erano adagiati. La stessa ripetuta richiesta di preghiera del vescovo Francesco, indubbiamente consapevole dell’immensa fatica che si era addossato e delle opposizioni sorde e sempre più esplicite che si preparavano anche sotto i suoi occhi, cadeva nel vuoto. Questo mi impressionava sempre di più: è come se non si volesse sapere che il vescovo, prima o dopo, si sarebbe trovato davanti a delle difficoltà alimentate all’interno del suo stesso entourage e che queste difficoltà sarebbero aumentate nella misura in cui i suoi annunci si sarebbero tradotti in pratica.
Il giovane clero era inebetito e la causa era nella loro formazione che non andava oltre la celebrazione del culto, qualche impertinenza musicale, uno studio teologico e filosofico schematico, un aggiornamento delle tecnologie comunicative dove il virtuale prendeva il posto che spettava al reale e una vita comoda routinaria. Il vous étes ministres de l’inquiétude del cardinal Suhard era sconosciuto. La spettacolarizzazione invadeva la celebrazione liturgica. Francesco ripeteva “Uscite … uscite “, ma nessuno usciva, tutti abbarbicati alle loro sicurezze economiche e di status sociale, la povertà diventava disdicevole e l’otto per mille, che il nemico nottetempo aveva seminato, metteva radici.
Negli appunti chiedevo di approfondire la conoscenza di una situazione ecclesiale grave e stagnante. L’argomento pedofilia veniva a galla, ma l’argomento povertà, che peraltro stava molto a cuore a colui che non aveva dove posare il capo veniva ignorato e scompariva dall’agenda formativa dei seminari. La pedofilia oltre alla riprovazione morale è configurabile con un reato penale, ma il carrierismo, una delle piaghe della chiesa, oltre ad essere tollerata veniva onorata e, a promozione ottenuta, ammirata ed elogiata. La formazione sacerdotale è l’intera chiesa a doversene riappropriare, deve diventare un tema I care, e non restare nelle mani accentratrici della congregazione competente.
Ecco qui la seconda lettera che Roberto scrisse a Francesco, non avendo avuto risposta dalla prima. Essa esprime il suo carattere deciso e non usa peli sulla lingua per dire quello che pensa:
Caro vescovo Francesco,
ero presente all’incontro che hai avuto in san Giovanni in Laterano il 16 settembre con i sacerdoti romani. Ne sono uscito deluso. Ho letto la stessa delusione sul volto di altri miei confratelli. L’assemblea è stata mal organizzata e mal condotta da una regia d’apparato incapace di intercettare un grande bisogno di dialogo e non di celebrazioni autogratificatorie. Nella mia lettera precedente ti ho fatto delle proposte che riguardavano soprattutto un metodo di lavoro da mettere alla base del tuo servizio episcopale e tale da fornire a noi stessi uno strumento di lavoro il più oggettivo possibile. Nella citazione anonima che hai fatto alla mia lettera ho percepito il tuo desiderio sincero di entrare in dialogo con il presbiterio romano, e ne sono ammirato, ma, altresì, e con disappunto ho percepito il disegno diverso ed opposto della regia curiale preoccupata di non lasciare spazi all’eventuale dialogo libero e franco.
Tu hai compreso che il dialogo anche critico con coloro che sono alla base e da anni battono le vie delle periferie esistenziali è utile alla Chiesa quanto l’effusione dello Spirito di Dio, che soffia dove e quando vuole affidando agli ultimi ed ai piccoli un compito magistrale di cui oggi più che mai abbiamo bisogno. Certo, una simile impostazione chiede a te una maggiore presenza nella chiesa locale che il disegno di Dio ha affidato nelle tue mani.
Nulla di tutto questo è apparso nel tuo intervento; e gli stessi interventi di cinque parroci, debitamente e preventivamente designati, si sono mostrati episodici e frammentati.
Alla presente allego due fogli di appunti : il primo, “Appunti per un incontro”; è uno schema che diffonderò orizzontalmente e riguarda la formazione di un gruppo di lavoro sui temi della chiesa locale. Il secondo, “Schema di un intervento mancato all’incontro del 19 settembre 2013” è uno schema che avrei brevemente sviluppato, se mi fosse stata data la possibilità di intervenire durante l’incontro con te; ma la regia aveva previsto diversamente.
Questa è per me quella collaborazione, anche critica, da te ripetutamente evocata.
Io, ma vorrei dire noi vogliamo aiutarti, ma a te spetta compiere un passo verso di noi che ci troviamo come davanti a un portone di bronzo invalicabile.
Insieme possiamo abbatterlo. Da soli, né tu e né noi , riusciremo mai a farlo.
La franchezza con la quale mi rivolgo a te ( la lezione l’ho appresa dal Vangelo fin da bambino) è pari al rispetto e alla comprensione che ho per la tua generosa fatica e la tua schiettezza.
Noi, nei limiti delle nostre possibilità, continueremo a lavorare, ma vorremmo anche che ci si aprisse un tavolo di ascolto e di ricerca comune.
Il lavoro che ci tocca compier è grande e grandioso. Ne sono certo; non ci mancherà l’aiuto del popolo di Dio e la protezione dello Spirito.
In attesa ti abbraccio.
Don Roberto Sardelli.
A cura di
MARIO SIGNORELLI
e MARIO PASQUALE
(Alcuni di questi testi provengono dai libri che Roberto ha scritto: “Il neo di Francesco”, “Vita di borgata”, Ed. Kurumuny)
Gli amici ricordano…
Roberto Sardelli, prete di periferia
Ricordiamo Nato a Pontecorvo, nella bassa Ciociaria, nel 1935. Proveniente da una tipica...