Frammenti di vita raccontati dai PO
nel decimo anniversario della nostra rivista

 

Anche questa volta, nel percorrere le strade conosciute dei ricordi, mi rendo conto che per me, lo scrivere soltanto, è un limite. Il racconto dei fatti non basta! Il dire dovrebbe essere accompagnato dal canto, dalla danza, dall’espressione del viso, dal movimento del corpo, perché quel fatto è diventato col tempo una “rivelazione”.

Agosto ‘93. Ero in Bosnia. I combattimenti lungo la strada dell’ONU, avevano bloccato il convoglio di MIR-SADA, molto prima di Sarajevo.
Don Albino e gli altri preti che erano con noi decisero di dire la messa. Una donna del villaggio vicino aveva portato un pane, e con quello fu celebrata l’Eucarestia. Io mi ero seduto un po’ in disparte, su un piccolo dosso che dominava il grande prato dove ci eravamo accampati. Guardavo con meraviglia i miei amici preti tirar fuori dallo zaino i camici, le stole e le altre cose necessarie. A me non era venuto nemmeno in mente di portarle!
Stavo vivendo un periodo opaco, vischioso. Molti riferimenti venivano a mancare: la sconfitta del movimento operaio, alcune scelte che avevo fatto in quegli anni, l’imbarbarimento delle relazioni sociali e dei rapporti umani a cui assistevo in quartiere, la insensata ferocia della guerra in Bosnia e l’impotenza che ne derivava, mi pesavano addosso. Il “corpo e l’anima” erano rattristati.
All’improvviso le lacrime cominciarono a scorrere sul mio viso, incontrollate, senza ritegno. Era una emozione intensa, ma non violenta; come se qualcosa si fosse risvegliata dal profondo e dolcemente, ma con tenacia, venisse alla superficie.
Il ricordo di un altro momento di tanti anni prima fu immediato: il primo giorno che entrai in fabbrica. Arrivai al lavoro su di una “Vespina 50” e per la strada cantavo.
Ed allora capii. Il Dio della mia giovinezza mi era venuto di nuovo incontro. E mi era venuto incontro a modo suo, coi volti di quegli uomini, di quelle donne, di quei ragazzi e di quelle ragazze seduti sul prato. Così come in passato mi era venuto incontro coi volti degli uomini e delle donne che avevo conosciuto in fabbrica, nel quartiere, nelle lotte e nelle sconfitte di quegli anni. E i volti, le relazioni, i progetti costruiti insieme erano ancora più importanti delle scelte che li avevano permessi.
Il tesoro nascosto nel campo era venuto alla luce.
Così, ora so: sono io che devo aprire la strada, ma l’Amico è dietro di me e mi tiene la mano sulla spalla.

 

Renzo Fanfani


 

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