“IL VANGELO NEL TEMPO:
SENSO DI UNA VITA”
Incontro nazionale PO / Viareggio, 28-30 aprile 2000

Intervento a nome dei PO del Piemonte

 

È un titolo decisamente poco felice, ma … chi infelicemente lo formulò fu il sottoscritto; quindi mi sento in dovere di chiarire.
La nostra vita di PO si inserisce in un movimento di respiro ecclesiale: contrastati, talora rifiutati, considerati “perduti” rispetto alla vita “pastorale” cui saremmo stati chiamati, siamo stati, bene o male elementi di provocazione.
D’altra parte, fin dai suoi inizi la vita del PO è apparsa soprattutto in dimensione missionaria: era già esplicito nelle espressioni con cui i domenicani Bernard Rouzet e Albert Bouche descrivevano i motivi della loro scelta operaia già nel 1934: “La nostra intenzione prioritaria è quella di consacrarci, secondo lo spirito dell’Ordine, all’apostolato integrale tra le masse operaie e nello stesso tempo alla soluzione dei problemi vitali che sorgono dall’evoluzione di queste masse, nella società di oggi” (cit. da F. Leprieur, Quand Rome condamne, Plon-Cerf, Paris, 1989).
Nella lettera pastorale “Il prete nella città”, (1949), il card. Suhard scriveva: l’impegno del “prete missionario” — è un pleonasmo che sarà scusato dalla povertà del nostro linguaggio — è legato alle attuali condizioni storiche e, talora, a necessità locali … Ne risentirà il suo compito: non consisterà in primo luogo nel battezzare degli individui, ma, secondo una formula spesso ripetuta, nello “impiantare la chiesa” nelle masse, in ogni ambito di vita umana” (cit. da M. D. Chenu, L’Evangile dans le temps , Cerf. Paris, 1964, p. 278).
Nello stesso volume p. Chenu cita dall’omelia tenuta dallo stes­so Suhard in Nôtre Dame in occasione del suo 50° anniversario di or­dinazione: “Non devo andare lontano per cercare l’oggetto delle mie meditazioni. È sempre lo stesso: c’è un muro che separa la Chiesa dalla massa. Bisogna abbattere ad ogni costo questo muro, per resti­tuire a Cristo le masse che l’hanno perso. Per questo sono stato fe­lice di affidare la Missione di Parigi ad alcuni dei nostri preti, pionieri di avanguardia…”. E il p. Chenu commenta: “i PO hanno abbattuto il muro” (id. p. 684).
La tensione tra “pastorale” e “missione” non è difficile da evidenziare, quando per “pastorale” si intende essenzialmente un’azione di “recupero” o di “innovazione” tendente a “riportare” alla “vita di chiesa” coloro che si sono allontanati … Mentre la missione com­porta l’uscita dalle forme prestabilite per privilegiare la testimo­nianza della fede, perché la chiesa “nasca” all’interno delle diver­se realtà umane.
La tensione può anche, per le cause più svariate, trasformarsi in diffidenza e ostilità, dal momento che viene a rimettere in discussione non soltanto il modo di vivere di qualche prete, ma la teologia stessa, e non solo la teologia del sacerdozio. Non è un caso che, anche all’interno delle “chiese stabilite” negli stessi anni si facciano sempre più vivaci le discussioni, le riflessioni sulla teologia del laicato, sulla “autonomia dei laici” nel loro impegno politico e sociale, ecc… E, a caratterizzare tutto, l’accento posto sulla “Chiesa in stato di missione”.
Si fa fatica, oltre il resto, ad ammettere che “dopo 2.000 anni di cristianesimo” proprio i paesi che hanno “evangelizzato il mondo” debbano essere riconosciuti come “terra di missione”.
Fa pure parte della nostra esperienza il tentativo di “recuperarci” a forme di pastorale ordinaria, invitandoci eventualmente a “mettere a frutto” in questa prospettiva la nostra esperienza: una specie di invito a rientrare nelle fila.
D’altra parte molti di noi hanno abbinato sempre vita operaia e partecipazione a forme di pastorale ordinaria e per molti questa partecipazione si è accentuata con il pensionamento.

 

1. LA NOSTRA VITA DI PO


L’abbiamo voluta intendere come “sequela del Signore Gesù” riferendoci soprattutto agli anni della sua “presenza silenziosa”, alla sua predicazione sempre radicata nella vita della povera gente, al suo “annullamento”: la sua rinuncia ad apparire nella potenza divina per assumere la debolezza umana e la “sconfitta storica” morendo in croce.

L’abbiamo voluta intendere non come una “esperienza” (un “far esperienza della condizione operaia”), ma come una precisa scelta di vita, caratterizzata da tre elementi:
 

1.a. La presenza, l’“esserci dentro”

“Saltare il muro” (per usare l’espressione di Suhard) per porre le condizioni che avrebbero dovuto condurre ad abbatterlo.
Ma il “muro” aveva dei suoi validi sostegni e i suoi sostenitori avevano le proprie “valide ragioni”:
• nella Chiesa molti consideravano il Movimento Operaio come un elemento pericoloso a causa dell’ideologia marxista, anche voci autorevoli, ma isolate, (ad es. Mons. Ancel) tentavano di operare le necessarie distinzioni, indicando nel Movimento Operaio “la partecipazione della classe operaia al progresso generale dell’umanità” (A. Ancel, Il movimento operaio, Alzani, Pinerolo, 1951 p. 9).
In un clima mondiale di “guerra fredda”, con i paesi del “socialismo reale” impegnati in massicce campagne contro ogni forma di vita religiosa (non solo cristiana, ma anche islamica: vedasi Albania), davano argomenti alle interessate confusioni tra movimento operaio, comunismo, ateismo di stato, ecc… Era troppo facile, per i sostenitori del liberismo capitalistico, sfruttare queste realtà per far credere che ogni partecipazione al mondo operaio e al suo movimento fosse contro la libertà, contro i valori spirituali, contro la fede, contro la religione…
• Nel mondo operaio, il risvolto della medaglia: l’identificazione chiesa – capitalismo; chiesa – conservatorismo; chiesa – realtà estranea, se non addirittura ostile rispetto alle proprie aspirazioni di liberazione e di costruzione di un mondo di liberi. Ciò faceva sì che le varie espressioni storiche del movimento operaio (sindacati e partiti operai) tendessero a considerare la chiesa come realtà estranea e ostile, da abbattere insieme al sistema di cui ai loro occhi appariva garante.
I primi a sperimentare la forza e il peso delle reciproche diffidenze furono i militanti cristiani che vollero impegnarsi nella lotta operaia: fu così che, in un primo momento, si formarono sindacati “confessionali” (la CFTC, per esempio), in continuo confronto critico nei confronti degli altri sindacati, fino al punto di venir accusati di voler rompere l’unità di classe, per favorire i padroni amici della chiesa… E non mancarono certo da parte padronale i tentativi di sfruttare la situazione a loro vantaggio, puntando impropriamente su altre “unitá” che avrebbero interessato più da vicino i credenti…
Questo pesò in misura non certo minore sulla vita del PO e sulla immagine che, nel 1954 e successivamente nel 1959, determinò il duro intervento del Card. Ottaviani prima e del Card. Pizzardo poi.
Mi permetto qui una lunga citazione di André Depierre, uno dei principali “riferimenti storici” per tutti i PO: “Dal testo del Card. Pizzardo si deriva una conclusione, con evidenza: se la condizione operaia è un ostacolo insuperabile per la fede, la castità, la carità, in breve a tutto ciò che costituisce la vita soprannaturale, l’immensa maggioranza degli uomini — cui questa condizione è imposta dalla necessità — è dunque destinata a restare sulla porta, esclusa per sempre da una vita di Chiesa… E le chiese delle città non potrebbero accogliere che professionisti o lavoratori indipendenti: nella vita operaia nessuna salvezza! In noi sono ancora i lavoratori che vengono colpiti da ostracismo… Un prete poteva tranquillamente essere coltivatore, scienziato, professore di matematica, finanziere, organizzatore sportivo, deputato, padrone, militare (e Dio sa quanti ve ne sono!) senza correre rischi per il suo sacerdozio. Ma non operaio!
Quale terribile offesa per gli operai, per la loro storia, la loro dignità, la loro resistenza, per la santità dei militanti, delle mamme, dei profeti e dei martiri della classe operaia!” (1972 v. Animazione Sociale 1973 tradotto).
 

1.b. La partecipazione

una presenza vera, viva e attenta porta necessariamente a partecipare non solo alle “condizioni di vita”, ma a tutto il complesso di elementi che costituiscono la realtà umana cui si vuol partecipare. Partecipare significa osservare, comprendere, assumere, condividere…
Siamo quindi giunti ad assumere, come nostra testimonianza specifica, due livelli d’impegno:
• con i militanti operai, l’impegno politico e sindacale, la lotta operaia;
• con gli operai credenti l’impegno nei confronti della Chiesa: contribuire alla sua liberazione dai condizionamenti e dai legami che la tenevano lontana rispetto al mondo operaio e al suo movimento (ricordiamo in questo senso l’intervento di Sirio Politi a Serramazzoni nell’incontro con Mons. Pagani: l’apologo dei “missionari” sbarcati da una nave da cui poi qualcuno si mette ad aprire il fuoco su quella popolazione ritenuta ostile…).
 

1. c. L’annuncio della fede

senza pretese di superiorità (e neppure di esclusività rispetto ad altre esperienze ecclesiali), nella povertà di una fede che anzitutto doveva interrogare noi stessi. “Andati per evangelizzare” siamo stati evangelizzati: fu un’impressione (e forse più che un’impressione) che in modi diversi tutti abbiamo avuto. Fino al punto, in alcuni casi, di rischiare di identificare lotta operaia ed evangelizzazione, con indebite confusioni e sacralizzazioni e con altrettanto indebiti riduzionismi nei confronti della fede.
Era un prezzo che dovevamo pagare per purificare la nostra fede e ritrovarne l’essenzialità: averlo pagato ci ha resi liberi nei confronti di ogni massimalismo, di ogni tentazione di nuovi integrismi. Ci ha aperto spazi di libertà nella chiesa come in classe operaia: sarebbe bene interrogarci su come li abbiamo vissuti. Ci siamo definiti “uomini di frontiera”: non certo per riaffermarla e rafforzarla: abbiamo davvero contribuito ad abbatterla?
Voler essere “coscienza critica” ci fa ritrovare non di rado “soli”, nella chiesa come in classe operaia, a “camminar cantando” sostenuti solo da una “fede povera”, senza garanzie istituzionali, senza puntelli esterni…

2. DOMANDE APERTE



Per andare più a fondo nella ricerca del “senso di una vita” mi pare necessario introdurre ulteriori domande di verifica: nella classe operaia come nella chiesa siamo rimasti realtà “povera”, quasi insignificante: ma davvero dobbiamo accettare di considerarci inutili o superflui? È accettabile la posizione di chi ci accusa di aver “impoverito” la figura del prete solo perché abbiamo privilegiato l’annuncio e la testimonianza della parola rispetto alla gestione di istituzioni ecclesiali e rispetto alla prevalente azione “sacramentale” che caratterizza la pastorale ordinaria? O non abbiamo piuttosto dato un aiuto non indifferente al rinnovamento della vita del prete, spingendo con più forza nella direzione della partecipazione e della condivi-sione? Le intuizioni, già accennate, del Card. Suhard e dei primi PO hanno storicamente dimostrato la loro vitalità.
A proporci ulteriori stimoli di riflessione è la stessa “classe operaia” e il suo “declino”: con il passare degli anni la classe operaia pare abbia smarrito il ruolo storico che le veniva attribuito; quasi non se ne parla più. Quale “coscienza di classe” ritroviamo oggi? Abbiamo scelto la classe operaia con la coscienza di partecipare alla vita e alla lotta di una classe portatrice di istanze “rivoluzionarie”, capaci di rinnovare radicalmente la vita delle società e dei singoli… Una “classe emergente” e liberante… Ma non tutto nella storia andò in quel senso e ora tutto si pone in termini rinnovati, diversi.
Quale significato può avere il PO in una situazione di marginalità, di impoverimento culturale, di perdita di valori che caratterizza oggi larghe frange di ciò che rimane della “classe operaia”?
Abbiamo scelto una comunità di destino e di vita con una classe che oggi appare “declinante”. Forse non è neppure così strano che, in tempi in cui la classe operaia non fa più notizia, anche il PO segua lo stesso destino. Ma, tutto sommato, personalmente non rimpiango affatto l’assedio giornalistico verificatosi a Serramazzoni, Frascati, ecc… Inoltre, mi pare di poter riproporre altre linee di riflessione: tutta la nostra storia deve essere letta nella prospettiva più ampia delle lotte di liberazione dei poveri che ancora si ripropongono.
In tempi di “globalizzazione”, anche la storia di chi resiste e lotta per la liberazione dalla povertà e dall’oppressione si sposta necessariamente a dimensioni di mondialità. E non mancano oggi segnali forti di resistenza contro il dominio dell’uomo sull’uomo “giustificato” maldestramente dal “neo-liberismo” come una esigenza della “globalizzazione” (tipica parola-cofanetto, adatta a contenere tutto e il contrario di tutto!).
La vita nascosta, spesso travagliata e contrastata del PO è stato e continua ad essere un momento, forse limitato, ma certamente significativo delle lotte di liberazione che in modi e forme diverse han sempre caratterizzato la storia dei poveri.
Siamo stati e siamo chiamati ad essere ancora “fermento nella pasta”, nella società globale come nella Chiesa universale, chiamata pur sempre ad essere chiesa povera, con i poveri e a servizio dei poveri, in un mondo in cui la schiavitù nei confronti del denaro e del potere assume dimensioni sempre più marcate. Una schiavitù morale e culturale, prima che “fisica” e materiale. Una schiavitù che si contrabbanda per “libertà”. Una schiavitù che fa pensare e fa dire da molti dei poveri di oggi che “hanno ragione loro”, che “è giusto che chi ha il potere economico comandi”, perché sono loro coloro “che ci sanno fare”… (non hanno proprio nulla da dirci in proposito i risultati elettorali?).
Il “senso di una vita”, allora, non è il senso solo della vita di “ieri”, ma il senso di una vita vissuta nell’oggi, con le energie di cui oggi ci troviamo a disporre, nella lotta con i poveri di oggi…
 

Sulle pietre della strada,
con i sandali del sogno
instancabilmente testardi,
come il Sangue e il Vento.

 Potranno stringerci tra mura,
ma noi passeremo…
Passeranno, facendo Storia,
Dio e il popolo…

(Pedro Casaldaliga)

Toni Revelli


 

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