IL SOLCO DELL’ARATRO
Incontro nazionale PO e amici / Viareggio, 2-4 maggio 2003
“Il Signore ci riempia di tenerezza e di pietà
rendendoci desiderabile
anche la più povera delle salvezze”
(Sergio Quinzio)
Mi sento sempre in grossa difficoltà a raccontarmi.
Ho l’impressione di un’autoconferma, non sempre verificata dalla valutazione degli “altri”, amici, fratelli di fede o no.
1. Non ho la pretesa di avere un pensiero “unificante” tutte le scelte e cose fatte in questi anni. A meno che si intenda come “pensiero” lo sforzo costante, anche con tante ambiguità e incertezze, di essere fedele a una iniziale intuizione che mi fece decidere di entrare in fabbrica come scelta di condivisione, per essere “come gli altri”, senza nessuna pretesa pastorale, ma avviando, o riscoprendo, un cammino per cercare (forse incontrare) “il vero volto di Dio”, là dove lui si fa incontrare.
2. Queste, mi sembrano, le successive scadenze, in ambiti diversi, ma con una loro continuità, del “tempo opportuno” per cercare, farsi domande, raccogliere domande più che incontrare risposte e darne agli altri.
a. dal 1961 al 1974 in parrocchia, dalla quale vengo allontanato.
b. 1975-1988 entrata in fabbrica, in una grande fabbrica, nella condizione di lavoratore di impresa di appalto, quindi di maggiore precarietà e sfruttamento, fino al prepensionamento.
c. 1988-1995 presenza di accompagnamento prima a gruppi di profughi che rientravano dal Salvador, dall’Honduras nel bel mezzo di una lotta di liberazione. Poi in comunità in zona conflittiva e coinvolte con il Fronte di Liberazione che vivevano in costante riferimento alla storia dell’Esodo di Israele, uscito dalla schiavitù in Egitto e in cammino verso la Terra Promessa, la terra “della promessa”, una terra sempre promessa da coltivare e abitare nella giustizia così che desse cibo per tutti.
d. oggi, un impegno di vicinanza agli stranieri immigrati e dentro una piccola parrocchia, aiutando un amico parroco.
3. Ma che significa dire “Volto di Dio”?
Non è forse un volto sfuggente, appena intravisto e subito svanito?
Si può vedere il volto di Dio? “Allo spezzare il pane gli occhi appesantiti dei discepoli si aprirono e lo riconobbero, ma Lui sparì dalla loro vista” (Lc 24,31).
Alla richiesta di Mosè: “Mostrami il tuo volto”, il Signore rispose: “Tu non potrai vedere il mio volto, perché nessuno può vedermi e restare vivo… quando passerà la mia gloria, io ti porrò nella cavità di una rupe e ti coprirò con la mano fino a che sarò passato e poi toglierò la mano e VEDRAI LE MIE SPALLE, MA IL MIO VOLTO NON LO SI PUÒ VEDERE” (Es. 33,18-33).
Come questa ricerca si esprime nel nostro vivere?
Forse è un altro modo di dire “cercare salvezza” dentro una storia drammatica, angosciata, degli uomini e delle donne di oggi, in questo tempo nostro in cui sono più forti le ombre di morte che le luci del mattino di Pasqua. “Mostraci il Tuo volto, Signore, e noi saremo salvi”. “Fa splendere il tuo volto su di noi e saremo salvi”, è una invocazione molto frequente nei salmi. Volto di Dio = salvezza.
4. Ma in cosa consiste la salvezza promessa da Dio? Quali le promesse fatte da Dio al suo Popolo che grida? (Es. 3,7-10).
Le promesse non riguardano l’anima e lo spirito, ma la carne e la terra. Un filo rosso percorre sia il primo che il secondo testamento, da Abramo a Mosè e l’Esodo, i Profeti e le Parole e i Gesti di Gesù fino a Rom. 8,19-26 e l’Apocalisse.
Alle origini cristiane non c’è nessuna contrapposizione tra anima e corpo, spirito e materia. Alla “carne” è promessa la vita senza fine. La morte, scrive Paolo, è l’ultimo nemico di Dio (1 Cor. 15,26). Ap. 2 1,1 e 2 Pt 3,13, annunciano “cieli nuovi e terra nuova dove avrà stabile dimora la giustizia”.
5. Allora, cercare il volto di Dio, cercare la salvezza, cercare la giustizia, sono nomi diversi dello stesso nostro essere dentro la storia umana.
Ma con quale “pensiero”?
Due testi di D. Bonhöffer mi sembrano illuminanti.
a. Lettera del 18 Luglio 1944 a E. Bethge: «I cristiani stanno vicino a Dio nella sua sofferenza, questo distingue i cristiani dai pagani. “Non potete vegliare con me un’ora?” chiede Gesù nel Getzemani.
Questo è il rovesciamento di tutto ciò che l’uomo religioso si aspetta da Dio. L’uomo è chiamato a condividere la sofferenza di Dio soffrendo in rapporto al mondo senza Dio. Deve perciò vivere effettivamente nel mondo senza Dio, e non deve tentare di occultare, di trasfigurare religiosamente, in qualche modo, tale esser senza Dio del mondo. Deve vivere mondanamente e appunto così prende parte alla sofferenza di Dio; l’uomo “può” vivere mondanamente, cioè liberato dai falsi legami, e dagli intralci religiosi.
Essere cristiani non significa essere religiosi in un determinato modo, fare qualcosa di se stessi (un peccatore, un penitente o un santo), in base a una certa metodica, ma significa ESSERE UOMINI; Cristo crea in noi non un tipo di Uomo, ma un Uomo.
Non è l’atto religioso a fare il cristiano, ma il prendere parte alla sofferenza di Dio nella vita del mondo. Questa è la “METANOIA» (Vd. anche il seguito delle lettere, Resistenza e Resa pag. 441).
b. Lettera a Bethge del 21 Luglio 1944: «Negli ultimi anni ho imparato a conoscere e a comprendere sempre più la profondità dell’essere al di qua del cristianesimo: il cristiano non è un Homo Religiosus, ma un uomo semplicemente così come Gesù a differenza certo di Giovanni Battista era uomo… E intendo essere al di qua pieno di disciplina (fedeltà dico io) nel quale è sempre presente la conoscenza della morte e della resurrezione … Sono riconoscente di aver avuto la possibilità di capire questo e so che l’ho potuto capire solo percorrendo la strada che a suo tempo ho imboccato… (di nuovo la fedeltà). Per questo penso con riconoscenza e in pace alle cose passate e a quelle presenti». (R. e R. pag. 446)
Mi sembra che questo pensiero di B. meglio di tante mie parole esprima bene il mio, il nostro cammino di ricerca, di purificazione, per arrivare a una “fede essenziale”, per essere uomini del cammino, dell’andare instancabile, incontenibile e non gli uomini della fissità, delle risposte, delle definizioni (che sono recinti): i sovrani, i sommi sacerdoti e gli Scribi.
6. Resta, comunque la tragica domanda: “ma questa salvezza promessa da Dio, quando si compirà?”, che richiama l’altra domanda, molto misteriosa di Gesù: “quando il Figlio dell’uomo verrà, troverà la fede sulla terra?” (Lc. 18,8).
Voglio riportare alcuni pensieri di S. Quinzio, perché mi sembrano esprimere con intensità la condizione di chi vive, abita la permanente tragica situazione, oggi ancor più angosciante, di sofferenza dell’umanità, il lamento che chiede giustizia e vive l’attesa dell’aprirsi della salvezza intravista, sperata, con molta nostalgia.
Dal libro “Dalla gola del leone” Ed. Adelphi.
• Adesso, dopo 2000 anni quale salvezza ha ancora senso, che sia compimento di quella speranza?
Ma una salvezza tanto poco distinguibile dal fallimento, come possiamo ancora sperarla, volerla, crederla? (pag. 70).
• “Non si deve concepire il Regno come il luogo della risposta che viene data, quanto come il luogo che la domanda consegna. La risposta cioè è contigua alla nostra domanda. La risposta risponde alla nostra domanda, sta in fondo alla nostra domanda, al nostro grido” (pag. 66).
• “Volere la salvezza della “carne” è aprire sterminate domande… la salvezza della carne e nella carne è una salvezza difficile, paradossale, incredibile, proprio perché è la vera salvezza promessa dal Signore” (pag 76).
• “Sì, io veramente credo e so che ormai solo una linea sottilissima, forse inesistente, divide la fede dalla non fede, dalla disperazione del senza Dio. Del resto ateismo e disperazione sono interni all’orizzonte cristiano, nascono da lì. La fede cristiana è debitrice di una risposta a questi abissi moderni, che non sia una falsa risposta riduttiva, e la risposta cristiana è sempre la croce, consiste nell’inglobarli nella Kenosi divina… la linea tra fede e non fede è inesistente se Dio perde definitivamente la sua guerra e io penso che questo possa accadere, penso infatti che tutto sia affidato ormai alla nostra miserabilissima capacità di non abbandonare Dio (Vd . Bonnhöffer), di non dimenticare l’agonizzante, di invocare per Dio che è morto sulla croce, salvezza, gloria e potenza (Ap. 19, 1) (Pag 76-77).
Se il Signore è stato fatto peccato (2 Cor 5,21) questo resta per sempre, anche nel Regno. Come la Resurrezione non cancella le piaghe dell’Agnello che l’Apocalisse mostra finalmente salito sul trono (ap. 5,6), così non cancella l’essere fatto peccato.
Il farsi uomo di Dio dura per sempre, e farsi uomo è “assumere il peccato, la condizione di miseria del peccatore” (pag. 77).
E come chiusura, una invocazione: “Il Signore ci riempia di tenerezza e di pietà rendendoci desiderabile anche la più povera delle salvezze” (pag. 71).
7. Paolo de Benedetti, in una sua riflessione sulla preghiera ebraica afferma che una forma di preghiera che nel cristianesimo praticamente non c’è, è la “lite con Dio”, la “lotta con Dio”.
Esempi:
– Abramo che discute con Dio prima della distruzione di Sodoma e Gomorra.
– Giobbe che sfida Dio a comparire davanti a un giudice per proclamare la Sua integrità.
– Giacobbe che lotta con Dio per una notte intera, ne riceve la benedizione, all’alba, ma restando leso e zoppicante.
De Benedetti ricorda che, a riguardo di questa lotta con Dio, Calvino dice che è meglio uscire a pezzi da questa lotta che starsene tranquilli nella vita quotidiana.
Di nuovo l’atteggiamento che apre alla fede e che si esprime nella preghiere: domandare, chiedere conto, interrogare, giudicare (nella radice del termine ebraico corrispondente a preghiera, c’è anche il senso di “giudicare”).
Elie Wiesel nel suo testo “la Notte” al capitolo 5 riporta la cerimonia della fine e inizio anno nel campo di sterminio di Auschwitz.
“L’officiante iniziò: sia benedetto il nome dell’Eterno!” ma perché benedirlo?
Tutte le mie fibre si rivoltavano. Per aver fatto bruciare migliaia di bambini nelle fosse? Per aver fatto funzionare sei crematori giorno e notte, anche di sabato e nei giorni di festa? Per aver creato nella sua grande potenza Auschwitz, Birkenau, Buna e tante altre fabbriche di morte?
Come avrei potuto dirgli: “Benedetto tu sia, o Signore, re dell’Universo, che ci hai eletto fra i popoli per venir torturati giorno e notte, per vedere i nostri padri, le nostre madri, i nostri fratelli finire al crematorio?
Sia lodato il tuo santo nome, tu che ci hai scelto per essere sgozzati sul tuo altare?
Tutta la terra e l’universo appartengono a Dio, diceva l’officiante con voce potente e affranta. Si fermava ogni istante, come se non avesse la forza di ritrovare sotto le parole il loro contenuto… E io, il mistico di una volta, non imploravo più. Non ero più capace di gemere.
Mi sentivo, al contrario, molto forte. Ero io l’accusatore, e l’accusato, Dio.
I miei occhi si erano aperti, ed ero solo al mondo, terribilmente solo, senza Dio, senza uomini, senza amore né pietà.
Non ero nient’altro che cenere, ma mi sentivo più forte di quell’Onnipotente al quale avevo legato la mia vita così a lungo. In mezzo a quella riunione di preghiera ero come un osservatore straniero”. (La notte, pag. 69-70).