IL SOLCO DELL’ARATRO
Incontro nazionale PO e amici / Viareggio, 2-4 maggio 2003



Col passare degli anni, quando pensi di aver raggiunto ormai una sufficiente capacità al cambiamento, ti può succedere di scoprire dentro di te ancora rigidità e resistenze. Da quando ho compiuto i 60 anni è cominciata per me una nuova era, non facile da gestire: è scoppiata la precarietà!
Pensi di passare gli ultimi anni scivolando, senza troppi scossoni, verso la pensione, dopo 30 anni di fabbrica, e invece ti tocca:
• perdere il posto di lavoro;
• decidere lo scioglimento e la messa in liquidazione della cooperativa che ti dava lavoro;
• spedire le lettere di licenziamento a te e ai tuoi compagni e compagne di lavoro;
• mettere in vendita attrezzature e immobili, cioè sbaraccare ciò che a fatica si era messo in piedi a garanzia del posto di lavoro per tutti;
• entrare nelle liste di mobilità di riserva ed essere assegnato ai LSU come aiuto cantoniere.
Non era proprio il finale che mi sarei aspettato. Ma così si era deciso: “uno di loro” fino alla pensione.
E così continuo a resistere sulla piccola zolla di terra ostianese, stando radicato “nella compagnia” di cui ho cominciato a far parte quando ho deciso di entrare in fabbrica.

 

Ebbrezza della libertà

 
Vi dico che mi è stato molto salutare rivisitare ancora una volta la mia “parabola” di PO, tanto che oggi mi sembra di essere qui con voi a celebrare una “liberazione”.
Mi ricordo l’ebbrezza della libertà assaporata all’inizio di questo cammino: che energia si è sprigionata da quella scelta!
Quasi una violenza interiore mi aveva spinto, costretto, ad uscire dai sacri appartamenti, mettendomi sulla strada degli uomini per condividere, e imparare, il difficile mestiere del vivere.
Ho ripercorso tutti i nostri convegni/incontri a cui ho partecipato dal 1975: quali tensioni, speranze, rabbie, progetti!…
• Serramazzoni ’75: “Rendiamo conto della nostra fede: quale fede?”.
• Serramazzoni ’76: “Contro l’uso antioperaio delle fede”.
• Salsomaggiore ’77: “Gente di confine”.
• Viareggio ’79: “Credere e operare la giustizia”.
• Frascati ’81: “Tra disgregazione e speranza: vivere la fede nel quotidiano”.
• Sassone ’83: “Vita quotidiana e declino della progettualità: come uscire diversi dalla crisi”.
• Firenze ’86: “Civiltà tecnologica, sfruttamento, emarginazione: la fede interroga i progetti”.
• Salsomaggiore ’89: “PO qualche anno dopo”.
• Salsomaggiore ’92: “Dai diamanti non nasce niente… nella condizione operaia: vangelo o evangelizzazione”.
• Viareggio ’96: “Memoria per una prospettiva”.
• Viareggio ‘99: “Ama il tuo sogno se pur ti tormenta: passione della libertà obbligo della liberazione”.
• Viareggio 2000: “Il Vangelo nel tempo. Senso di una vita”.
• Viareggio 2002: “Forza e debolezza dell’ultimum nelle oppressioni della nostra storia”.
Non ne ho disertato alcuno.
L’appartenenza al gruppo/movimento PO si è dimostrata in questi anni, per me, come una “rete di protezione” che mi ha permesso di fare i miei “esercizi liberi” con sicurezza e serenità. E sento tuttora come un “comandamento” il non mancare ai nostri appuntamenti, nazionali e regionali.
 

La fedeltà paga sempre

 
La fedeltà paga sempre: ed è ciò che mi è appartenuto con continuità dal 1974 ad oggi. Non mi è mai passata per la mente l’idea di cambiare condizione di vita: questo è senz’altro dovuto, per me, alla radicalità iniziale di pormi subito nella condizione esistenziale di non poter tornare sui miei passi, lasciando che le acque sommergessero ogni via di fuga all’indietro.
Nel rivisitare la mia storia, col suo lungo intreccio di luci e ombre, di attese e speranze, di incontri e scontri, di passioni e rabbie, di gioie condivise, mi è apparsa ancor più evidente la forza di originalità e creatività che, anno dopo anno, si è sbloccata in me quale frutto di quella scelta che ha cambiato decisamente il percorso della mia vita.
E adesso come sto nella vita? Come sto reagendo alla drammaticità degli avvenimenti che succedono?
So che non posso chiamarmi fuori.
Ormai fuori dalla fabbrica, ma ancora costretto a faticare per raggiungere la pensione, so che non mi è concesso di arrendermi: devo mantenere lo stesso sguardo, lo stesso fiuto, la stessa passione per l’”uomo” e la “donna” che in questi anni hanno fatto parte della mia compagnia, se non voglio naufragare ma “traghettare in porto” la mia e la nostra vita.
So che devo fare i conti con la pesantezza degli anni, so che devo economicizzare bene le risorse fisiche logorate da 30 anni di fabbrica: il fiato ora è più corto e la ripresa ha bisogno di tempi più lunghi. Ma così è la vita, ed è così per tutti.
 
In questo tempo mi sono diventati molto familiari due pensieri.
Il primo è di Bonhöffer: “L’essenza dell’ottimismo non è guardare al dI là della situazione presente, ma è forza vitale, la forza di sperare quando gli altri si rassegnano, è la forza di tenere alta la testa quando sembra che tutto fallisca, la forza di sopportare gli insuccessi, una forza che non lascia mai il futuro agli avversari, ma lo rivendica per sé”. (Resistenza e resa).
Il secondo è di S. Agostino: “La speranza ha due figli, lo sdegno e il coraggio. Il primo serve a denunciare le ingiustizie nel mondo, il secondo a cambiarle”.
Sono due pensieri che esprimono chiaramente la prospettiva nella quale oriento i gesti e le parole con i quali cerco di esprimere quotidianamente la mia testimonianza/fede. Due esempi.
a. È evidente che la cooperativa Castello, nella quale ho lavorato fino all’autunno 2002, non ha saputo reggere alla dura legge del “mercato globale”, come ho descritto sull’ultimo numero della nostra rivista: abbiamo dovuto chiudere i battenti, ma non per questo ci siamo sentiti degli sconfitti; cioè siamo convinti che le motivazioni che ci hanno sostenuto per quasi 17 anni sono ancora vere: voglio dire che tra di noi non è passata la teoria che i perdenti sono anche coloro che hanno torto perché “non si adeguano al mondo che cambia!”.
b. Dal 1997, insieme con Roberto, sono entrato a far parte anche della “compagnia” di tre piccole comunità pastorali. Viviamo nella stessa casa il fine settimana; la gente mi chiama anche “don Gianni”; sono disponibile alla celebrazione dell’Eucaristia domenicale e di altri sacramenti (Battesimo, Matrimonio): visito in modo continuativo le famiglie; si è strutturato un programma annuale di incontri sulla “Parola”, tenuti da Roberto, aperti alla gente delle tre comunità; partecipo alla vita sociale della gente frequentando luoghi e iniziative da loro gestite; la casa è aperta a tutti per incontri e attività relative a problemi anche non strettamente religiosi, come: educazione alla pace, alla salvaguardia dell’ambiente, al confronto generazionale.
La familiarità reciproca si è molto approfondita: è nata una spontanea accoglienza.
I 40 Km che separano Ostiano — mio paese di residenza e di lavoro — da Canicossa sono come una cerniera che tiene uniti i due territori in cui sono dislocati i miei compagni di vita. Le condivisioni sono connotate da ritmi e gesti diversi: ma io sono sostenuto dalla stessa volontà di fedeltà, in me resta lo stesso impegno per la giustizia, la stessa passione/affettività per l’uomo.
 

Terminando

 
La copertina della nostra Rivista n° 35-36, che raccoglie gli atti dell’incontro di Viareggio ’96 “Memoria per una prospettiva”, riporta tre righe di canto gregoriano con il testo di Geremia 45: “Non cercare cose troppo grandi per te: come unico bottino ti do la tua vita”.
Ebbene, questo bottino è ancora nelle nostre mani. Abbiamo perciò l’obbligo di non ridurre il nostro impegno giocando al ribasso.
Lasciamo risuonare in noi le storie che ci racconteremo in questi giorni, le “affettività” quotidiane che ci scambieremo, le umanità di grosso spessore che ci siamo ritrovati: sarà allora più stimolante l’impegno a tracciare un cammino di fedeltà al nostro passato.

 

Gianni Alessandria


 

Share This