REINVENTARE LA VITA: TRA CONTINUITA’ E DISCONTINUITA’
Incontro nazionale PO / Bergamo / 28-30 aprile 2005



Mi piace questo verbo, esso fa parte della mia storia di artigiano. Il lavoro ha modellato anche il mio stile di vita. L’artigiano, come l’artista, non crea mai opere uguali. Ci sono artigiani che fanno sempre le stesse cose, o meglio si sono specializzati su alcuni prodotti e questo ha causato la mancanza di persone che sappiano fare molte cose, che abbiano contemporaneamente la capacità, per lo meno nel mio campo di falegname, sia di fare una porta, un mobile, aggiustare un cassetto, risistemare uno sportello. Le macchine fanno molto lavoro e spesse volte non si trova chi ti aggiusta un mobile perché si dice, non è conveniente, alla faccia dello spreco. Oggi non si aggiusta, si cambia.
Nel chiostro benedettino di Subiaco i capitelli delle colonne sono tutti diversi e credo anche in tutte le opere medievali e rinascimentali. È la nostra epoca che ha creato la produzione su vasta scala: da un pezzo ne escono migliaia identici. Non siamo più abituati agli originali, anzi chi è originale è visto in maniera strana. Un aneddoto racconta di un tizio che in un paese del Sud del mondo, vuole ordinare delle sedie da un artigiano. Chiede il prezzo e l’artigiano gli fa il prezzo di una sedia. Il cliente allora ne ordina dieci uguali. Al momento del ritiro, con sua meraviglia, deve pagare il doppio. Al che l’artigiano risponde: “Quando io faccio una sedia ci metto tutta la mia fantasia e creatività e il lavoro non mi pesa e non è tanto faticoso, ma dovendo ripetere per dieci volte lo stesso lavoro mi affatico di più e diventa più pesante. Per questo costa di più”.
A proposito di stampini il mondo contemporaneo è un grande maestro, tutto viene uniformato, dall’abbigliamento, all’economia, stili di vita, la lingua etc. Chi non entra negli schemi è considerato, si direbbe nel gergo del maestro falegname di Nazaret, una pecora smarrita e con il clima di paura e sospetto verrebbe considerato un disadattato sociale e spesso un criminale, terrorista. A proposito della pecora smarrita: per essa faccio il mio tifo. Essa è quella che ha avuto la forza di uscire dal recinto per esperimentare realtà diverse. In questa situazione ha avuto la fortuna di incontrare il buon Dio, che l’ha messa sulle spalle.
Il nostro è un mondo che concepisce la realtà in maniera bipolare: se uno non è bianco per forza deve essere nero. Se tu non la pensi come me sei il mio nemico: tertium non datur. Si dice che nelle torri dell’11 settembre, al momento della tragedia, gli impiegati si sono precipitati tutti verso gli ascensori, creando un intasamento incredibile con il blocco totale. Ogni giorno pigliavano quegli ascensori e le scale non erano minimamente considerate. Probabilmente molti si sarebbero salvati correndo giù dalle scale.
Abituati come siamo dentro certi schemi, che vanno bene per una situazione e realtà, difficilmente riusciamo a uscirne. Cambiando le situazioni di vita siamo presi dal panico e dalla paura, con il conseguente deperimento, noia e spesso qualcosa di peggio. Un appiattimento generale che crea una società conflittuale. Negli anni della nostra giovinezza si parlava della fantasia al potere. Questo è molto attuale, anche se la fantasia è legata soprattutto alla penuria. I nostri vecchi, in tempi di penuria, erano capaci di reinventare. Mia nonna preparava piatti gustosi combinando insieme le poche cose che giravano per la cucina, aggiungendovi qualche erba ed aroma a seconda delle poche risorse della dispensa.
La mia storia personale, iniziando dal lavoro è stata un continuo reinventare, adattandomi alle diverse situazioni nel corso degli anni, o meglio ho adattato il mio lavoro di falegname alle diverse situazioni della vita, dall’apprendimento presso qualche Geppetto di borgata, che mi ha dato i primi elementi del mestiere, alla scelta di mettermi in proprio perché stanco di costruire porte, finestre e sportelloni. Ho imparato da solo, a mie spese, con prove e sbagli, a costruire mobili di ogni tipo, a restaurare e a riparare.
Con ciò sono uscito dalla monotonia ed amo tantissimo il mio lavoro, che è anche poesia ed arte. La salute ha fatto qualche scherzo lungo gli anni, ma la fantasia mi è stata di nuovo una guida. Non potendo affrontare lavori di grossa dimensione mi sono buttato su piccole cose, sul restauro di mobili antichi, su piccoli mobiletti che non comportano sollevamento di grossi pesi e soprattutto in questi ultimi anni sull’intarsio, che mi dà una gioia immensa. Spero di continuare fino ai 65 anni per poter godere di quella misera pensione che mi spetta dopo 40 anni di contributi, non per smettere di lavorare ma per avere un minimo di sicurezza. Il lavoro ha influito sulla mia vita, sul modo di guardare, vedere e affrontare la realtà. Ogni situazione, anche la peggiore offre spiragli e vie d’uscita, non nel senso di averla scampata bene, ma offre orizzonti nuovi. È un accorgersi che ci sono lati nuovi perché la realtà è molteplice.
Nel 1334 c’è stato un assedio ad un castello della Germania. Per settimane e settimane. Gli assedianti aspettavano la resa da un momento all’altro. Gli abitanti del castello sarebbero morti di fame. Infatti a questi ultimi gli era rimasto solo un bue e un sacco di orzo. Anziché scegliere l’inedia, la morte o la resa, che fanno? Squartarono il bue, gli riempirono la pancia d’orzo e gettarono il tutto ai piedi delle mura del castello, sotto gli occhi dei nemici. Margaretha e i suoi si chiesero a quel punto che senso avesse continuare l’assedio se gli altri avevano tanto cibo da poterne distribuire agli assedianti, e decise così di levare le tende. Mi immagino le risate degli abitanti del castello.
Gandhi stesso associava la pratica della nonviolenza alla fantasia e diceva che uno schema non è mai definitivo. A situazioni nuove metodi nuovi che sappiano far fronte al problema o meglio al conflitto che viene spesso preso per qualcosa di negativo.
Il conflitto è una opportunità e la realtà stessa è conflittuale, che presenta molte facce: nel confronto nasce la maturazione.
Ho finito proprio in questi giorni il restauro di una vecchia credenza, che ogni generazione (penso tre o quattro) ha cercato di verniciare con i colori più strani, probabilmente per coprire le magagne precedenti e i buchi del tarlo che all’interno si mangiava tutto il legno.
Molto lavoro per togliere gli strati di vernice e il quadro che mi si affacciava era disastroso: un legno bersagliato da centinaia di buchi e per di più pieni di vernice bianca in contrasto col colore naturale del legno. Mi veniva la voglia di buttar via tutto e di bruciare visto che la stufa del laboratorio aveva bisogno ancora di legna secca. In quel modo avrei buttato via le giornate di lavoro per la sverniciatura e per le riparazioni più grosse. Avevo fatto anche dei conti: ne valeva la pena? Quanto sarebbe costato? Se si dovesse guardare alle ore e fare i calcoli probabilmente gli artigiani morirebbero di fame.
Sono uscito da quello schema, non ho pensato al tempo e alle ore e ho preso il tutto come una scommessa con me stesso: “gliela devo fare, devo ridare vita a questo mobile scheletrito”. Giorno per giorno con pazienza, ho liberato i buchi del tarlo dalla vernice, con un piccolo attrezzo, otturandoli uno per uno e rafforzando le parti deboli, sostituendo pezzi mancanti. Quando è arrivato il momento di ridare il colore originale e “accarezzare” il mobile con la gomma lacca, come facevano i nostri vecchi, per ridargli splendore, ho provato una gioia immensa, sensazioni indescrivibili. Mi sembrava di essere Ezechiele che vede le ossa e gli scheletri della terra riprendere vita e vigore.
È così tutte le volte che passo con la cera l’intarsio appena concluso. Quei piccoli pezzi insignificanti di legno acquistano il loro splendore e il loro significato.
Questo lavoro è la metafora della vita. Tutto sembra inutile, non ne vale la pena perderci tempo ed energia, perché non cambia nulla. È troppa la miseria e lo sfruttamento e noi ci sentiamo impotenti di fronte a quello che sta succedendo. Le sicurezze di questi anni, sudate a forza di lotte, stanno cadendo una per una.
Lo stato di precarietà genera preoccupazione e quello che più ci rattrista e ci rende inquieti è il destino di questo pianeta e di questa umanità.
Sul fronte dei credenti non c’è tanto da rallegrarsi. Sinceramente di fronte alla crisi della chiesa quasi ne godo perché una costruzione sta per crollare: non è questo il tipo di chiesa a cui abbiamo dedicato la nostra vita. Una struttura che ha fatto il suo tempo e non ha bisogno di essere buttata giù, da sola si sgretola e cade. C’è una crisi di preti, allarme da ogni parte, come se stesse crollando tutto, per cui bisogna correre ai ripari. “Quando vedrete apparire queste cose, levate il capo, perché la vostra liberazione è vicina”. Potremmo dire quando vedrete che tutto crolla, non abbiate paura, è il momento di ripensare, di creare forme nuove di ministero, di chiesa. La nostra vita di preti operai dimostra che un’altra chiesa è possibile.
E così tanti germi nuovi che nascono in tutto il mondo. Fa più rumore un albero che cade che una foresta che cresce.
Anche nell’inverno ci sono segni di primavera: possono essere nascosti, come le violette e le primule, però ci sono, anzi il loro profumo è più intenso.
Qualche anno fa sono andato in un istituto di suore per effettuare dei lavori di falegnameria. Mentre salivo per il viale con la cassetta dei ferri del mio mestiere, vedo un vecchio che cammina col bastone, curvo ma dignitoso. Credo avesse più di ottant’anni, forse più vicino ai novanta. Chiedo alla suora che mi accompagna chi è quell’anziano. Lei mi dice che è il cardinal Pavan. Nella mia memoria questo nome mi richiamò qualcosa di significativo. Infatti Pavan è colui che per conto di Giovanni XXXIII scrisse la “Pacem in terris”. Nessuno più si ricordava di lui. Mi avvicino e lo saluto. Lui con molta calma mi chiede: “Cosa fate voi e dove siete? Gli rispondo che sono un prete operaio e che sono lì per effettuare dei lavori. Mi guarda e mi dice “Tenete duro perché dovrà finire questa lunghissima notte”.
Dopo qualche anno è morto, ma so che negli ultimi anni della sua vita lassù sul colle non faceva altro che piantare alberi. I colli attorno a Ponte Galeria nella periferia di Roma sono tutti brulli, alcuni trasformati in discarica, su altri ci vanno a pascolare le pecore, altri sono pieni di sterpi e rovi. Eppure quel colle sta diventando una foresta. È bella l’immagine del vecchio che pianta alberi piccoli non per sé ma per chi verrà.
Anch’io ho piantato molti alberi. Mi piacevano quelli già un po’ cresciuti, volevo vedere il verde e l’ombra subito. Ma quanto lavoro e fatica per tenerli in piedi, per ripararli dal vento, dal freddo e dalla neve, perché essi si dovevano adattare al terreno. Ora ho smesso di piantare alberi grandi, mi piacciono quelli piccoli: qualche volta li semino o li raccolgo alti appena qualche centimetro per trapiantarli dove c’è spazio, oppure li libero dalle erbacce per farli lì dove sono da poco nati dai semi caduti dagli alberi: la gioia nel vederli crescere! Anzi crescono più in fretta perché non hanno bisogno di adattarsi. Sul posto si rafforzano e per essi ci vuole un po’ più di attenzione liberandoli dalle erbacce, ma meno fatica.
Reinventare la vita tra continuità e discontinuità per me è piantare alberi non solo nel senso materiale del termine, ma anche come metafora. È il momento dei piccoli segni, che vanno curati con amore, che collegati ad altri si rafforzano. È il momento di far crescere quei semi di questi anni, nati dalle nostre convinzioni e sofferenze, con una grande capacità di stupirci e di sognare ancora.
Se i nostri sogni rimangono personali, tali rimarranno sempre, ma se lo stesso sogno è fatto da tanti contemporaneamente può diventare realtà. Ne abbiamo viste tante in questi anni e ultimamente ci tocca vedere un Ratzinger che diventa papa, che non dobbiamo più meravigliarci di nulla. Qualche anno fa in un incontro nostro si diceva parafrasando una canzone: dai diamanti non nascono i fiori, ma è dal letame. È nel momento della debolezza che nasce la forza. Chissà!…
La continuità con le vecchie speranze e convinzioni: si è lavorato e si continua a lavorare manualmente per essere come gli altri, per guadagnare il pane con le proprie mani. È il momento della gratuità, soprattutto oggi che il ministero è riconosciuto come professione anche civilmente con le sovvenzioni che le regioni elargiscono per accaparrarsi il sostegno politico, rinunciando a un compito che è propriamente loro.
Da giovani si voleva una chiesa più povera che esercitasse il suo ministero con mezzi poveri. Oggi per noi è il momento di operare in piccoli progetti che sono alla portata delle persone, dove le persone non sono dei numeri o considerati utenti o clienti, ma uomini e donne con i loro volti, le loro sofferenze e storie. Molti di noi operano in ambiti di comunità parrocchiale: è il momento di usare la fantasia nel proporre un volto di chiesa comunità viva.
Sarebbe interessante che i preti operai facessero un incontro sul come vivono la parrocchia, potrebbe essere di stimolo anche per gli altri. Ci si meraviglia che non ci sono più preti operai nuovi: non ci sono manco preti classici! C’è una carenza che deve suscitare delle domande: forse è arrivato il tempo di un ministero altro, di una chiesa con forme di organizzazione diverse.
Lo Spirito non soffia solo quando c’è un conclave, per lo meno si crede, ma soffia anche in questi interrogativi e ci spinge verso il nuovo. I preti operai sono stati da cerniera, passaggio tra un ministero ad un altro che è in gestazione. Credo che i semi siano stati gettati. Quali frutti daranno? Non lo sappiamo. Siamo abituati per tradizione contadina a seminare e a raccogliere i frutti.
Ma in questo caso dobbiamo accontentarci di seminare, altri raccoglieranno, almeno così afferma Paolo di Tarso. È questo un ministero molteplice. Qualcuno prepara il terreno, qualcuno ara, qualcuno semina, qualcuno zappa e qualcuno raccoglie. Ognuno fa la sua parte nel miglior modo possibile.
Quando qualcuno mi chiede che cosa faccio all’eremo e che attività svolgo, io rispondo che all’eremo non si fa niente e che non si fanno attività, non si organizza niente, ma si vive, si sta, si ascolta, si contempla, si lavora, ci si riposa, si studia, si cammina, si mangia tranquillamente, si ama il silenzio e l’ascolto reciproco.
Ci si alza quando si fa giorno e si va a dormire quando fa notte, non si vede la televisione e si dà tutto lo spazio che si vuole a chi ha bisogno di parlare perché l’ascolto è terapeutico, si prega all’alba e al tramonto, si lavora manualmente ma non ci sono consegne urgenti, ci si stupisce della pioggia e del sole, della neve, del cuculo che accompagna la preghiera del mattino e della sera, del gatto selvatico che si fa vivo quando c’è qualcuno per ricordare che anche a lui spetta la sua parte, dei merli che se la raccontano al mattino presto e chissà che cosa si dicono. Si offre la possibilità di una biblioteca della pace che cerca di approfondire e di ricercare quello che gli serve.
Da questo appare chiaro che per me reinventare la vita significa vivere la vita, non fare, ma essere, stare. Essere consapevole che ogni momento è il momento.

Mario Signorelli


 

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