Seminario sulle beatitudini / Verona 1988
interventi
Credo di essere uno dei pochi preti operai che non ha fatto esperienza di parrocchia e che ha incominciato a lavorare poche settimane dopo l’ordinazione, nel 1972; erano gli anni in cui il movimento dei preti operai faceva notizia.
Il cardinal Colombo con la sua lettera mi ha intimato di smettere con il lavoro, pena l’espulsione dalla diocesi di Milano, perché lui “aveva bisogno di preti, non di operai”.
Il lavoro manuale sembra non aver valore, ma se ti metti in sintonia con ciò che vale veramente ti dà una dimensione diversa della vita, mettendoti al passo degli ultimi per i quali è l’unico modo di sopravvivenza.
Ho vissuto e vivo il lavoro senza grandi motivazioni appariscenti, come una necessità sia per l’economia quotidiana sia per il ministero che risulta nella sua gratuità, dandomi la possibilità di parlare lo stesso linguaggio degli altri.
Ho una bottega artigiana da falegname insieme a due ragazzi che hanno imparato il mestiere con me. Mi dà delle soddisfazioni perché il legno è creativo e sono messo in condizione ottimale per allargare amicizie, che all’inizio sono dettate dalle commesse, ma che alla fine risultano molto proficue ai fini della testimonianza di vita.
Per più di 13 anni ho vissuto nell’estrema periferia di Roma, vista negli anni 70 come un aborto da parte delle amministrazioni, nonostante gli impegni iniziali della giunta di sinistra.
Le borgate erano costruite abusivamente, senza scuola, servizi primari, strade, mezzi pubblici; e i punti di aggregazione non entravano neppure nei sogni. La gente sacrificava il sabato, la domenica e le ferie annuali per costruire blocchetto su blocchetto la sua casa, costretta dalla necessità, col rischio continuo della sospensione dei lavori se non passavi mance cospicue ai vigili urbani, che si buttavano come sciacalli in queste situazioni. Inoltre la giustizia colpiva chi per necessità costruiva la propria abitazione, quella stessa giustizia che doveva stimolare gli amministratori a darti un servizio essenziale o perlomeno metterti in condizione di poter costruire regolarmente.
Come tutti anch’io mi sono fatto una piccola casetta e come tutti ho subito un processo per abusivismo. Durante le udienze ti veniva da ridere e da piangere perché ti trovavi con centinaia come te che subivano la stessa sorte per gli stessi motivi, sapendo che non venivano colpiti gli speculatori, che adattavano i piani regolatori a seconda della loro sete di guadagno: essi erano nella legge, noi invece dalla parte del torto.
Ogni lotta per strappare dei servizi alle amministrazioni era un momento di aggregazione fortissimo. Mi ricordo che ogni decisione veniva presa nella chiesetta “abusiva” della borgata. Il vescovo ausiliare si lamentava continuamente perché in chiesa non si poteva discutere di quelle cose. Ma noi non potevamo stare per strada durante l’inverno e sotto la pioggia.
Per avere il mezzo pubblico occupammo il deposito dell’ATAC alle 3 di notte, dopo aver dato la sveglia alle 2 nella borgata. In quella occasione corremmo il rischio di subire la carica della polizia davanti ai cancelli del deposito, evitata per poco, perché ci eravamo imposti un silenzio assoluto, senza rispondere alle provocazioni verbali del vicequestore di Roma. La stessa sorte ci toccò nella lotta per la scuola, culminata in una grossa manifestazione alla regione, occupando scale, corridoi e uffici.
Questi momenti si concludevano con le feste di quartiere per celebrare le “vittorie”, dove la fantasia e la vivacità dei “borgatari” si esprimeva in tutta la sua creatività.
Un momento molto intenso l’ho vissuto con la costruzione “abusiva” del centro sociale della borgata. Credo siamo stati gli unici in Roma a buttarci in una simile impresa.
Questo centro era luogo dei dibattiti, degli incontri, delle feste e delle attività socio-culturali per persone di qualsiasi età. Attualmente è gestito da un gruppo di ragazzi dai 25 ai 30 anni, gli stessi che si riunivano a casa mia per discutere e approfondire le diverse problematiche necessarie per la comprensione della realtà.
Da parte mia ho dedicato molte energie a questo centro, che fin dall’inizio mi è costato anche in termini fisici: ho subito violenza, sequestrato per una serata in casa del proprietario del terreno, col rischio di ricevere qualche fucilata se qualcuno fosse intervenuto.
In periferia tutto è possibile, anche queste violenze che senti sulla tua pelle; intimidazioni durante la notte che ti fanno sobbalzare dal letto, perché qualcuno viene alla tua porta e bussa con tanta violenza fino a farla quasi scardinare. Però in questi momenti ti senti una forza addosso perché sei dalla parte della verità in quanto hai dato fastidio a gente ingiusta.
Tutte queste energie meravigliose di centinaia e centinaia di borgatari sono state dissanguate e disperse nelle diverse lotte per la sopravvivenza. Vivere senza i servizi primari sembra una cosa impensabile, ma questo a Roma era possibile fino agli inizi degli anni 80.
Questo è andato a discapito della crescita umana, culturale. Ed è questa attualmente la realtà della periferia: la gente si è chiusa in se stessa, appagata del risultato ottenuto, mentre la droga, l’emarginazione, l’isolamento dilagano ogni giorno come in qualsiasi grossa città, soprattutto nei nuovi quartieri-ghetto, nati per dare una risposta al bisogno di case, ma rivelatisi delle polveriere che già stanno esplodendo. Parlo dei quartieri del Laurentino, Tor Bella Monaca, Corviale, Tiburtino III: quartieri dormitorio, dove hanno concentrato tutti gli sfrattati, baraccati senza nessun criterio.
A Corviale c’è un palazzo lungo 1200 metri senza un balcone (credo che sia il più lungo del mondo), dove vivono circa 20 mila persone, senza servizi sociali. Ci sono degli alberghi, chiamati “residence”, dove il comune concentra gli sfrattati con delle situazioni particolari: la maggior parte di questi ha fatto l’esperienza del carcere.
Il mio impegno nelle borgate è cessato da circa un anno, perché mi sentivo quasi un’istituzione. Dopo anni c’è bisogno di cambiare per non invecchiare e fossilizzarsi sulle stesse cose, anche perchè la storia cammina e dà altri stimoli.
Per alcuni mesi ho insegnato il mio mestiere in un’associazione nata per il recupero di ragazzi disadattati, figli dei quartieri-ghetto. E’ stata un’esperienza dura: tornavo a casa dopo 7 ore distrutto, costretto a una tensione continua. Gesti di violenza, pestaggi, furti, in quella scuola erano all’ordine del giorno; quello che mi dava più fastidio era il non rispetto verso il proprio lavoro, la distruzione dei macchinari e lo sperpero dei materiali utili per lavorare.
Ragazzi senza motivazioni, spenti, che vivono alla giornata con la preoccupazione delle sigarette, degli spinelli, dei soldi raggranellati con furtarelli ed espedienti vari in attesa della partita domenicale di calcio. Ragazzi che si nascondevano continuamente ad annusare colle e vernici del laboratorio.
Di fronte a questa realtà che si allarga, ti senti povero e non sai da che parte iniziare. Sono finiti i tempi di certe lotte, ma si sono aperti altri spazi soprattutto per noi preti-operai, che siamo “gente di frontiera”.
L’affermazione di Cristo: “e i poveri li avrete sempre con voi” è una dura realtà e verità, il nostro posto è là dove non c’è nessuna frontiera, al margine, perché sappiamo che il nuovo nasce là, dove si aprono altri spazi e altre speranze: è là che si giocano le nuove realtà, è là che si muove la storia.