Convegno di Bergamo 2009
L’IDOLO È NUDO: METAMORFOSI DEL CAPITALISMO
Relazione teologica
1. QUALCHE PREMESSA
Il tema che mi è stato assegnato è la lettura teologica del nostro tempo. Si potrebbe pensare ad una doppia parte: a) il nostro tempo — b) una sua lettura dal punto di vista della fede o della religione professata da un determinato popolo. Ma i termini possono essere invertiti e si potrebbe tentare di comprendere la religione alla luce dei rapporti interumani, della qualità del tessuto sociale che un determinato gruppo umano riesce a costruire. Alla luce cioè dello “stato del mondo” (una panoramica d’insieme in “La qualità della vita nel mondo — Social Watch — Rapporto 2001”, Emi, Bologna 2001).
In ogni caso non penso molto proficuo addentrarmi nella descrizione della situazione attuale. È sotto gli occhi di tutti. Siamo in uno stato di ingovernabile anarchia dove le armi e la prepotenza sembrano le uniche regole che governano il mondo. Siamo nel periodo di maggiore disponibilità di beni sulla terra, ma l’incertezza della sopravvivenza e lo sperdimento delle coscienze attanagliano la stragrande maggioranza degli uomini.
Colpa della globalizzazione si dice, della “deregulation” economica, della “finanza creativa”, dell’avidità di gente spietata e potente. Faremo uso anche noi di questi parametri, ma forse dobbiamo chiederci, prima di tutto, qual è lo schema mentale che soggiace a chi provoca l’anarchia e a chi la subisce. Se è vero che, sotto varie forme, il bellum omnium contra omnes percorre il pianeta è plausibile che a dirigere i nostri rapporti interumani sia la percezione dell’altro come “nemico”.
Da ciò la convinzione che la guerra non è mai la soluzione — come ordinariamente si fa credere al popolo — ma il problema stesso dell’umanità. In questa prospettiva sono interessanti le riflessioni di Eugen Drewermann soprattutto in Guerra e cristianesimo — la spirale dell’angoscia, Edizioni Raetia, Trento, 1999.
L’altro come hostis potenziale almeno. Io, che sono l’altro degli altri, sono nemico di chi mi è estraneo, fonte — anche inconsapevole — della paura di sconosciuti. Ci dimeniamo così tra ospitalità ed ostilità, tra amici e nemici, tra servi e padroni, tra vinti e vincitori, tra ricerca di sicurezza e bisogno profondo di fiducia e di abbandono, dove però essenziale è la convinzione che “l’altro” è per natura sua uno che vive “sugli altri”, e “degli altri”, uno che fondamentalmente mi è “estraneo”, “straniero”, fuori di me, dunque una creatura da osservare con sospetto e da sottomettere, anche quando — all’occorrenza — si ostentano modi civili e perfino “amorevoli”.
Possiamo forse dire che “l’altro”, in quanto “straniero”, è sempre in bilico tra l’accoglienza come “hospes” o la negazione come “hostis”. Si trova ad un “confine” che l’io deve sempre sorvegliare. Qualsiasi “io”, sia quello del servo che quello del padrone, dell’amico accolto o del nemico rifiutato. La diffidenza, la non-fiducia dunque dell’uomo nell’uomo, è essenziale nel rapporto interumano fino a far dire a Carl Schmitt che “l’opposizione escludente” costituisce l’essenza stessa del concetto di “politico” (cfr Caterina Resta, L’estraneo, Il Melangolo, Genova, 2008, pp. 14 ss). Che è quanto dire che essa costituisce l’essenza stessa dell’atteggiamento dell’uomo quando entra in società o quando si accosta a qualcuno che è fuori di lui, cioè “estraneo”. Ciò spiega molta politica del mondo occidentale centrata sul bisogno di sicurezza del cittadino o di una nazione. Bisogno alimentato giorno dopo giorno con l’indicazione del nemico da cui ci può giungere un attacco e con la conseguente paura nevrotica che la possibilità della sola minaccia è in grado di produrre.
La “sicurezza” è devastante dal punto di vista individuale. Freud scrive che “l’uomo civile ha barattato una parte della sua felicità con un po’ di sicurezza”. Essa tuttavia è una vera industria con un fatturato in costante crescita sia per i fabbricanti ed i commercianti di armi che per i venditori di sistemi di sicurezza ad uso di abitazioni e complessi privati.
Una simile visione può sembrare pessimista, tale da doverci portare alla criminalizzazione di ogni estraneo ed all’annientamento di ogni nemico. Certo tutto il ‘900 è stato percorso dall’idea di un “nemico assoluto”, dalla ricerca di “Imperi del male” o di “assi del male”, fino appena ad ieri, all’epoca Bush (perfino Giovanni Paolo II vedeva nell’Est “l’impero del male”. Così in un infelice passo dell’enciclica sullo Spirito Santo).
Non ci sembra che tutto questo sia ineluttabile perché, a determinate condizioni, posso accogliere l’estraneo come “ospite” e rendermi conto che la linea di confine oltre la quale c’era il nemico da escludere, può essere modificata fino ad includere tra gli “amici” il nemico di ieri (Leonardo Boff, in Spiritualità per un altro mondo possibile — Ospitalità, Convivenza, Convivialità, Queriniana, Brescia, 2009, si addentra in questi problemi di ospitalità ed esclusione da un punto di vista teologico-spirituale).
Non ci addentriamo ulteriormente in tali meandri. Questo è il mondo in cui viviamo. Questo sottofondo concettuale dobbiamo sempre averlo presente quando affrontiamo qualsiasi aspetto contingente della nostra realtà: dalla crisi economica a quella occupazionale, dalla crisi della famiglia al crollo dell’economia mondiale. Ci sembra comunque importante notare che concetti come amico, nemico, esclusione, inclusione, guerra, pace, sottomissione, collaborazione, possono essere declinati in molti modi, a volte anche molto ambigui, fino a far apparire benefica ed includente una misura che in realtà è di esclusione. Si pensi all’ambiguità della funzione del Fondo Monetario Internazionale, o a quello della Banca Mondiale. Si pensi che si può restare nel colonialismo pur essendone usciti. E che si può impiantare una guerra con la scusa di portare la democrazia o la vera religione.
Il papa, da cardinale, esclude il concetto di esportabilità di democrazia e fede (cfr. Marco Politi, La chiesa del no, Mondadori, 2009, pg 92), ma da papa va a festeggiare un suo compleanno in casa Bush, come un amico di famiglia. Con questo gesto ha dato ad alcuni l’impressione di avallare un delitto come la guerra “ingiusta e gratuita” contro l’Iraq del Presidente americano, oppure la coincidenza di politica americana col cristianesimo secondo la mentalità tipica di Georg Bush, di cui parleremo più avanti.
Ed ecco la domanda che ci riguarda: Che lettura teologica fare di questa realtà? Stando ai fatti espliciti, che religione implicita qui si presuppone? Cioè: dando per scontato che la religione ha una sua ricaduta nel campo etico e comportamentale, quale religione effettiva sta alla base del nostro tempo? E ancora: se è vero che il mondo occidentale, responsabile dell’attuale ordinamento mondiale, è cristiano, di quale cristianesimo esso si nutre?
Giorgio Bocca nel suo volume “Il dio denaro — Ricchezza per pochi, povertà per molti” (Mondadori, Milano, 2001) parla della religione implicita dell’Occidente col suo chiaro, serrato, lucido, documentato, impietoso argomentare. Il cristianesimo storico come la via lunga verso l’idolatria… Alle stesse conclusioni giunge Arturo Paoli, nel 2007, in una profetica intervista a Gianluca de Gennaro dall’identico titolo: “Il dio denaro” (L’altrapagina, Città di castello, 2007). Più di recente, in seguito alla polemica innescata da “Report” sul malaffare politico di Catania, Pietro Barcellona, già ordinario di Diritto Privato nella stessa Università, scriveva: “La malattia della nostra civiltà è quella di avere perso la memoria e la propria moralità, adorando il denaro come unico Dio”.
Più in generale, ci potremmo porre due domande:
1. Un seguace di Gesù come giudica questo mondo alla luce della Parola e della “Buona notizia”?
2. Questo mondo fatto da cristiani, a cosa ha ridotto il Vangelo?
La nostra tesi può essere così descritta: questo nostro mondo è radicalmente ateo, del tutto lontano dall’accoglienza della vita come dono di un Essere Supremo e benevolente (cfr “Presbyteri” 9, 2008: numero monografico su Cristiani e idolatri?). Se nutre atteggiamenti che una qualche antropologia potrebbe catalogare come “religiosi”, essi sono riferiti ad “idoli”, a divinità che un giorno furono dei “pagani”.
Il cristianesimo si va spostando sempre più nella zona di un sistema di significati ufficiali, ma non reali, di valori formali non più condivisi e vissuti. Esso stesso ha dottrinalizzato l’evento (l’attesa e la costruzione del “regno”) organizzandosi come centro della verità su Dio, l’anima l’invisibile, l’interpretazione unica della morale naturale. Là dove il cristianesimo evangelico è vissuto, nascono dei martiri e degli esclusi. Dove invece si parla molto di Cristo ma svuotandone il messaggio, la religione cristiana acquista i caratteri di una “religione civile” in cui i valori del post-moderno (efficienza, forza, produttività, consumismo…) sono supportati da quelli religiosi.
Certamente rimane una sorta di amaro in bocca nel doverlo ammettere, ma, in fondo, il vero problema dell’uomo oggi non sta tanto nel sapere se crede o non crede, se prega o non prega, ma in che Dio crede e quale Dio rifiuta. Sono infinite le trappole in cui si annida l’ateismo più sofisticato e l’idolatria più subdola. Sono infinite le maschere che un sedicente credente può attribuire a Dio, colorando di assoluto i suoi capricci e sacralizzando le sue smanie di potenza. Stiamo parlando dell’uomo di qualsiasi latitudine e tempo, dunque anche di noi, cristiani e chiesa del terzo millennio.
Nella sua forma più esplicita il cristianesimo “vincente” è ridotto alla visione avventista-neomillenarista di Bush e della sua chiesa. Tenteremo alla fine qualche pista che ci porti ad intravedere un futuro diverso, un mondo “altro” ed anche una chiesa “altra” che riacquisti le note del nudo messaggio evangelico.
2. UNA ECONOMIA CHE GOVERNA IL MONDO
Il mondo intero è come sotto un unico sistema di governo universale. Neoliberismo, “pensiero unico”, globalizzazione costituiscono la nuova ideologia dopo la caduta del muro di Berlino. Sappiamo pure che questo sistema produce fame, miseria, disuguaglianze strutturali.
[Cfr Cesare Frassineti, “La globalizzazione vista dagli ultimi”, Cittadella, Assisi, 2001; Giulio Tremonti, “La paura e la speranza”, Mondadori, Milano 2008. Patrick Viveret, “Ripensare la ricchezza”, Altraeconomia, 2005; Alfonso Gianni, “Goodbye liberismo”, Ponte alle Grazie, 2009. Siamo molto lontani dagli entusiasmi per la globalizzazione espressi, ad esempio, da Thomas Friedman nel 1999 in “The Lexus and the Olive Tree” e poi nel 2002 con “Longitudes and Attitudes”].
Questo innegabile “fatto” può essere letto come un mero processo culturale. Dopo il tentativo socialista di fare uscire l’umanità dal capitalismo (con un costo spaventoso di vite umane), l’Occidente è ritornato al vecchio programma ottocentesco rifatto nuovo e radicalizzato. Il mercato dunque come inevitabile “sistema di pensiero”.
Ma c’è un’altra possibilità di lettura, ed è quella che qui ci interessa: il mercato come tradimento dell’identità cristiana, come sostituzione del vecchio monoteismo con uno nuovo, come apostasia collettiva dal Dio di Abramo, di Mosè, di Gesù e dunque — più in generale — come abiura da ogni ricerca di interiorità, spiritualità, umanità integrale. Per dirla in termini biblici, il mercato come “unico pastore del popolo”. Addirittura come finale scoperta dell’intima ed ultima verità della vita: siamo sotto il dominio ineliminabile delle “eterne leggi del mercato”, come si esprimeva decenni fa il Presidente della Confindustria Costa. Il “mercato come idolo”, come nuova religione, come precomprensione effettiva di ogni scelta, quale che sia la religione ufficiale professata.
Noi ci muoveremo in quest’ultimo orizzonte. Si noti che utilizzeremo, per fini pratici, come sinonimi, termini in sé non equivalenti ma interconnessi: mercato, denaro, globalizzazione, “pensiero”.
a. Il Mercato come “assoluto”
Che siamo in regime di mercato è perfino inutile ricordarlo. Qui però si vuole insistere su una caratteristica moderna: la sua assolutezza. Questa particolarità rende il regime di mercato una sorta di religione atea.
Di natura sua la religione — se è viva e vera — è anche criterio ultimo di scelta in tutti i momenti della vita. È pervasiva dell’esistenza. Essa modella gusti, atteggiamenti e comportamenti. Non è soltanto norma di gesti in sé esclusivamente religiosi. Nella religione si scioglie la differenza tra sacro e profano, nel senso che quanto noi viviamo come non-religioso (una birra con gli amici, un innamoramento, un esercizio commerciale, una professione…) viene sempre vissuto — anche in modo implicito — in un orizzonte di trascendenza e di gratitudine per la vita, nei suoi vari aspetti. Così la birra è comunione di amici, l’innamoramento un credere all’Amore, il commercio un servizio ai fratelli, la medicina un gesto di tenerezza e misericordia, ecc.
Poi ci sono i gesti sacri che, per così dire riassumono, celebrano, richiamano potentemente a quel modo particolare di vivere la vita quotidiana. Se questo non si avvera, il culto diviene vuoto e retorico perché non celebra la vita, e la vita si ispira ad altri “assoluti di sostituzione”.
In particolare, una religione è tale se dirige le sue attenzioni ad un Essere trascendente, se ha un suo credo, i suoi dogmi, un suo culto, i suoi luoghi sacri, i suoi sacrifici, le sue adunanze sacre, i suoi profeti. Ancora, una religione è tale se si colloca al di là del sentire comune, se crea una gerarchia di valori al cui vertice c’è la divinità e gli uomini che la rappresentano. Soprattutto se è punto di riferimento assoluto e criterio ultimo di discernimento nelle scelte di vita.
Queste caratteristiche si ritrovano in abbondanza nella globalizzazione così come noi la viviamo.
Oggi il denaro (e il mercato che lo produce) sembra avere tutti i caratteri della divinità. Si riveste di sacralità. Nella forma che ha assunto con la globalizzazione è impressionante questa sua vicinanza ad una realtà chiusa, blindata nella sua assolutezza (cfr anche Arturo Paoli, Lo stato etico e i suoi attributi divini, in “Rocca” 1, 2009, 50- 51). Il denaro è diventato un “assoluto di sostituzione”.
La globalizzazione pone al suo vertice l’accumulo di Denaro, una sorta di “dio tra gli dei”.
Questo nella migliore delle ipotesi, se ci si ribella all’idea del denaro come unico dio assoluto. Poiché l’economista non si pone tale problemi, noi possiamo solo osservare i comportamenti e gli atteggiamenti profondi. Così si può attribuire alla religione del denaro quello che gli storici delle religioni chiamano “enoteismo”. Non si negano altri assoluti, altri dei, ma ci si interessa e ci si riferisce ad un solo dio come punto di riferimento per tutte le altre “divinità”.
La sua presenza o assenza crea valore o disvalore in tutto ciò che costituisce la vita dell’uomo. L’uomo è se ha. L’uomo è niente se non ha niente (Zygmunt Baumann, Consumo, dunque sono, Laterza, 2008). Il mercato e le sue leggi sono le uniche realtà che assicurano Denaro. Cioè denaro pregiato, “valore”: dollaro, euro, yen. Questi “valori” non conoscono il bene e il male, l’ingiusto ed il giusto. Solo la “quantità”, ed essa sola “giustifica”, rende “giusti”, cioè veri uomini (il traffico di armi e droga ad opera della mafia è delinquenza; ad opera della CIA per finanziare la guerra dei Contras in Nicaragua, è “politica”). Di fronte alla recente recessione, e dunque al crollo del sistema intero, siamo stati un po’ tutti colpiti dal fatto che ciò che doveva essere messo in discussione rimaneva invece un oggetto al di sopra di ogni critica. Ci siamo accorti un po’ tutti che Moneta, Mercato e Capitale erano oggetto di considerazione incondizionata, di culto esclusivo. Le loro leggi sono state considerate preminenti all’uomo, indiscutibili, “tabù”. Ad oggi (fine aprile 2009) non è stata avanzata una sola ipotesi di “regole” per impedire la “creatività della finanza” e dunque quei “titoli tossici” che sono in giro per il mondo.
Tale preminenza assoluta, cosa è se non esistenziale idolatria? Siamo in realtà di fronte ad una idolatria che prevede con lucido cinismo anche “sacrifici umani”, quasi di rito.
Racconta Arturo Paoli che un funzionario del Fondo Monetario Internazionale confessò di essere a conoscenza dei disastri provocati dal suo ente. “Ciascuno di noi non può non aderire al mercato ed alle sue linee guida. Sappiamo perfettamente che l’andamento del mercato provoca fame, miseria e disuguaglianze sociali. Sappiamo che è il dover aderire al mercato la causa che produce tale situazione. Che ci possiamo fare? Anche noi siamo schiavi e dobbiamo obbedire” (Il dio-denaro, L’altrapagina, Città di Castello, 2007, pp. 19-21). Non possiamo dimenticare la “necessità” della schiavitù per non lasciare incolta l’America Latina, dopo avere sterminato gli indios; né il numero di morti per fame o per AIDS che sono conseguenza delle quotazioni in borsa di derrate alimentari e ditte farmaceutiche. Neppure possiamo dimenticare le infinite vittime di quel colonialismo che ha arricchito l’Europa ma ha depredato il mondo.
La globalizzazione ha la sua “etica”, stabilita oltre due secoli fa da Adam Smith: ogni individuo sia implacabile nel suo egoismo — non badi al suo prossimo — la “mano invisibile” del mercato porterà prosperità a tutti (non esiste salario giusto, ma è giusto quel salario che la legge stabilisce o che emerge dalla libera (?) contrattazione del padrone e dell’operaio. Anche se con quel salario e in quelle condizioni una creatura umana soccombe).
Per non addentrarci eccessivamente in questo labirinto, forse può essere utile riportare alcune frasi significative di ciò che il “pensiero unico”, la “morale della globalizzazione”, ritiene “immorale”.
– È immorale — scriveva Skinner già alla fine degli anni ‘60 — rifiutarsi di dimenticare “concetti prescientifici come la libertà e la dignità” se vogliamo pensare al bene dello stato ed alla sopravvivenza della specie.
– È immorale tenere conto dei singoli individui — incalza Friedrich A. von Hayek. Così scrive: “Una società libera richiede una morale sicura che in ultima istanza si riduce al mantenimento della vita, ma non di tutte le vite, perché potrebbe essere necessario sacrificare vite individuali per preservare un numero maggiore di altre vite. Pertanto le uniche regole morali sono quelle che portano al calcolo delle vite…”. Di lui ricordiamo la sua opera fondamentale Legge, legislazione, libertà.
– Il Consiglio permanente di un gruppo di lavoro spagnolo “Cristianesimo e Giustizia” di Barcellona, sintetizza in tre principi di “immoralità” la cultura corrente: 1) è immorale rinunciare a qualcosa di ciò che la realtà offre. Data la durezza della vita, si tratta di prendere ciò che si può, anche se il “qualcosa” è la moglie di tuo fratello o il denaro del tuo prossimo. 2) È assolutamente immorale pretendere di cambiare qualcosa di questa realtà. Colui che tenterà di farlo incontrerà avversioni e dure condanne. 3) Finalmente è ancora più immorale rinunciare a qualcosa nella speranza di cambiare un poco la realtà.
La globalizzazione ha una sua “metafisica”: tutto è merce. Acqua, aria, vita, sentimenti…; null’altro che merce. Quanto era considerato inalienabile diviene oggetto di business. Amore, virtù, scienza, opinione, coscienza, se prima erano espressione di libera umanità, ora possono essere legittimamente e realisticamente “venduti”. “Perché no?” è una domanda molto ricorrente ai nostri giorni, soprattutto da parte di quanti si gloriano di non avere pastoie morali. Sembra il tempo della corruzione generale, un po’ come aveva previsto C. Marx nella sua opera Miseria della filosofia.
La globalizzazione ha le sue chiese, i suoi concili: i centri commerciali, “fonti di vita”, le banche mondiali o continentali uniche dispensatrici di salvezza. Le riunioni del G8, il Forum Monetario Mondiale, i consigli di amministrazione di Banca Mondiale o di gigantesche multinazionali sembrano gli unici organi legislativi validi per tutti. I cosiddetti politici dovranno mettere in pratica le decisioni prese altrove.
La globalizzazione ha inoltre il potere di vita o di morte su milioni di persone, determina il tipo di rapporto interumano, condiziona popoli e nazioni fino a ridurre notevolmente conoscenza, arbitrio e possibilità di libera scelta. Ha una sua ideologia: forse oggi nessuno osa più dire che viviamo “la fine delle ideologie”; una ideologia ben precisa oggi ci governa, e come una autentica dittatura: il neoliberismo del mercato globalizzato come sistema a cui tutti siamo soggetti ed a cui è impossibile sottrarci. Ha le sue vittime designate: al benessere della borsa si sacrificano milioni di persone, si gettano nella disperazione intere generazioni, si rende invivibile il pianeta, si distruggono specie animali e vegetali, interi popoli (inizia il 17febbraio 2009 il processo all’Aja contro i Khmer Rossi, meglio, contro i superstiti dei seguaci di Pol Pot, che “sacrificò” più di due milioni di persone per la “Nuova Cambogia”).
La globalizzazione ha perfino i suoi teologi: ci riferiamo all’opera principale di Michael Novak, Lo spirito del capitalismo democratico e il cristianesimo, 1982, in cui si mettono in relazione il mistero trinitario, l’incarnazione del Verbo, il peccato originale, il “regno di Dio”, con l’economia di mercato, e dunque con la competizione, il dovere della ricchezza, la produzione di beni, la democrazia rappresentativa. In quest’opera, scritta prima della caduta del muro di Berlino e del crollo mondiale del capitalismo globalizzato, l’Autore intende mostrare come il capitalismo democratico sia compossibile col “regno di Dio” (pur non coincidendo con esso) e con i più nobili ideali umani.
Questa descrizione non riproduce criteri che vengono sempre formulati espressamente. Riflette in ogni caso una mentalità che si rende trasparente in tutti quei prodotti dell’industria culturale che risultano essere “commerciali”. In questo contesto le grandi parole come onestà, libertà, pace, morale, gratuità, democrazia, diritto alla vita, sono sempre “cose che bisogna dire” in Tv e nei discorsi ufficiali. Parole che servono per mascherare la vera realtà. Parole a cui nessuna persona moderna e sensata deve credere.
Si badi al fatto che le grandi parole, le grandi promesse, i grandi valori siamo soliti sentirli in tempi di guerra, di terremoti, in un tempo di “menzogne” quasi obbligatorie, oppure in chiesa, dove tutto si consuma in una mezz’ora.
Un esempio forse chiarisce molto: noi per anni abbiamo affidato i nostri risparmi al Banco di Sicilia, alla Banca Commerciale Italiana, al Banco di Roma, al Credito Italiano, alla Banca Nazionale del Lavoro (forse continuiamo ad affidarli alle nuove sigle di quelle banche), e poco ci interessava che si trattava delle cinque banche italiane che più investivano nell’esportazione di armi. Su questo modo “saggio” di considerare l’investimento di capitali sono stati d’accordo laici e credenti, finanza cattolica e finanza laica. Un tale cinismo può forse convivere con la fede? Si può continuare a ritenere un battezzato, ipso facto, davvero credente? probabilmente è uscito dall’orizzonte della fede senza neppure accorgersene (cfr Felice Scalia, Apostati in punta di piedi, in “Pretioperai” 81, 2009, 13-14).
Questa è l’accusa che oggi l’Islam fa all’Occidente: siete atei e non ve ne accorgete neppure; voi avete perso il senso della vita, non servite più Dio. Senza alcun dubbio, simili giudizi sembrano tipici di un islamismo radicale, ma in fondo noi sappiamo che stanno esprimendo, con parole religiose ed arroganti, le più profonde convinzioni dell’Occidente. Per noi la necessità di accesso e accumulo in esclusiva dei beni essenziali per il nostro benessere (dal petrolio al coltan, all’uranio…), l’acquisizione di vantaggi politici e militari, la sicurezza delle città come quella delle vie dei commercio, la totale libertà di mercato, sono “assolute nostre necessità” che ci autorizzano — se necessario — a ridisegnare il mondo e a sterminare chi ci ostacola o non si piega ai nostri bisogni. Non ci vuole molto a concludere che la stiamo facendo da “dei”. Oppure che le nostre “assolute necessità” sono i nostri dei, i nostri idoli.
Tanto cristianesimo oggi si ritiene “molto cattolico” perché difende il diritto a nascere dei nascituri ed il diritto alla cura estrema (fino all’accanimento?) anche dei morenti terminali. La cosa strana è che poi un tale cattolicesimo chiude un occhio sulla negazione del diritto di ogni uomo a mangiare, bere acqua potabile, curarsi, istruirsi, vivere in libertà e dignità.
Dal 16 al 22 marzo scorso, il V Forum Mondiale dell’acqua ha dichiarato “bisogno” e non “diritto” l’acqua potabile, mettendo così le basi per una privatizzazione universale di questo bene primario e condannando alla sete un miliardo di poveri. Non conosciamo una istituzione cattolica ufficiale che abbia protestato. Ci auguriamo di essere male informati.
In situazioni simili è proprio difficile essere “testimoni del Dio vivente”. Perché è difficile “imboccare la via stretta che conduce alla vita”. Passeggiamo in carrozza “per la cruna dell’ago” e ci crediamo seguaci del Dio di Gesù. Duemila anni di cristianesimo non ci autorizzano a crederci al sicuro, radicati una volta per tutte nella fede in Dio. Il pericolo di un passaggio dalla vita alla morte, dal Dio vero agli idoli, è sempre di fronte a noi.
Nella storia delle religioni questo scadimento non è una rarità. Si pensi a quanto avviene nel Sinedrio ai tempi di Gesù. Secondo Giovanni (11,46 ss) c’è a dare molto fastidio un certo Lazzaro riportato in vita dopo quattro giorni di sepolcro. I capi religiosi e culturali commentano: “Se lasciamo agire questo Gesù di Nazareth, tutti crederanno in lui e verranno i romani e distruggeranno la nazione e il tempio santo.” C’è qualcosa di strano. Chi porta vita, chi fa fiorire la vita come il Nazareno è un pericolo per i romani? In effetti sì, perché a Roma la legge era la paura della morte a reggere l’Impero, non la gioia della vita.
Ma Gesù è anche un pericolo per il Dio del Tempio? Si dovrebbe dire di no. Gesù rivela il volto del Dio del Tempio. Comunque “se tutti credono” qualcosa succede, la Forza come legge suprema è sconfessata. Forse Roma sarà costretta ad intervenire e “distruggerà il luogo santo”. Ecco il vero dio del sinedrio: la nazione ed il “luogo santo”. Non importa se uccidendo Gesù svuotano di significato il Tempio e lo riempiono di un Dio che non disturba Roma. I membri del Sinedrio sono pagani e non lo sanno! Non è detto che qualcosa del genere non possa succedere ai cristiani: potremmo avere a cuore “luoghi sacri” che contrastano con il Gesù Dio della Vita. Aprendo gli occhi potremmo accorgerci che il nostro Dio non è Gesù.
b. Il posto del cristianesimo in questa assolutizzazione
Forse è doveroso chiederci che funzione ha avuto il cristianesimo nel sorgere e nell’affermarsi della centralità del denaro, del sistema mercatistico prima e globalizzato ora. Ci sarebbe anche da chiedersi che posto ha avuto nella concezione dell’altro come nemico.
Se è del tutto ovvio che le culture tendano a svilupparsi secondo criteri di immediatezza e di concretezza, di immanenza, e dunque di forza, efficienza e ricchezza, compito delle religioni resta quello di indirizzare queste culture verso una pienezza dell’uomo, di fare emergere la totalità delle esigenze umane, di ricordare le risposte ai grandi quesiti esistenziali che finiscono per cambiare del tutto la quotidianità.
In particolare il cristianesimo doveva “evangelizzare la cultura” facendola diventare più umana, portandola ad un livello superiore di pienezza non solo per tutto l’uomo ma anche per “ogni uomo”. Doveva annunziare ad ogni nato di donna che “ogni uomo è tuo fratello, è te”; non un nemico. Doveva far sentire la voce dei poveri, delle “forze lavoro” sfruttate in fabbrica e lasciate marcire ai bordi della strada quando non erano più in grado di arare un campo o di stare alla catena dì montaggio. Doveva gridare l’intangibilità della vita e libertà dei figli di Dio quando si intraprese il turpe mercato degli schiavi. Doveva parlare di una giustizia che è oltre la legalità stabilita dai potenti. Doveva stare sempre con chi lotta per la propria liberazione. Non doveva mai parlare di “guerra giusta”.
In parte ciò è stato fatto con l’elaborazione della “Dottrina sociale della chiesa”, almeno a partire da Leone XIII. Ciò che tuttavia si può rimproverare alla chiesa è di avere accettato una sorta di concezione funzionale, “organica” della società: come il corpo ha molte membra, così l’umanità. C’è chi è nato per comandare e chi per ubbidire, chi per essere povero (e fare emergere così la misericordia di Dio nei gesti generosi del ricco — dice Bossuet) e chi per essere ricco. Coi suoi interventi la chiesa si muove sempre nell’ambito di un capitalismo accettato, sebbene da correggere nei suoi particolari più atroci, attraverso la carità-crocerossina-della-storia.
Per quest’opera il cristianesimo aveva luce in abbondanza. Ma non lo ha fatto. Non lo ha fatto sempre. Non lo ha fatto osservando la realtà alla radice. Non lo ha fatto abbastanza. Ha creduto di potere benedire eserciti che andavano a depredare popoli inermi, con la scusa dell’evangelizzazione. Non si è allontanato da teorie sul “diritto delle nazioni al grande spazio”.
A rigore di termini, il cristianesimo non è riuscito neppure a liberarci del tutto dal culto idolatrico degli dei pagani. Il Dio dei cristiani è il Dio che si fa “niente” (“exinanivit” — Fil 2,7), che si svuota, che “serve”. È il Dio che si incarna, si relativizza, si cela. Il Dio bambino del Presepe “avvolto in fasce” e che “cresce”. Una simile visione di Dio è così difficile da mantenere, così contraria alla mentalità comune, che ben presto si attribuirono al Dio dei cristiani gli stessi attributi di Giove: onnipotente, onnisciente, giudice inflessibile e supremo. Si attribuirono le stesse caratteristiche arcaiche del Dio degli ebrei, sempre in bilico tra enoteismo e monoteismo, sempre pronto a fulmini e castighi, assetato di sacrifici.
Scrive Filippo Gentiloni: “Tutte le religioni insegnano non tanto quello che è — Dio, l’uomo, il mondo — ma anche quello che è bene fare. […] Ma nel passato cristiano l’etica è stata spesso in secondo piano. Si preferiva accettare, anche se con qualche correzione, più o meno importante, l’etica corrente, quella laica, indigena. Niente rivoluzione: si accettò perfino quell’etica pagana che giustificava addirittura la schiavitù. Si accettarono anche mille guerre con relative benedizioni alle armi e agli assassini” (Credere è camminare, La Meridiana, 2008, p.23).
Il cristianesimo ha anche ostacolato quanti per stare col vangelo si distanziavano dai potentati del tempo. Ha chiuso la bocca di quanti parlavano in nome dei poveri, in nome di Dio. Il cristianesimo si è lasciato mondanizzare dalla cultura corrente invece che evangelizzarla. Si è assimilato al “mondo” (nel senso giovanneo), all’Impero, al “sistema”, finendo per trasformare il Dio della vita in un idolo, o, comunque, elevando — senza accorgersene — a dio supremo il denaro ed il potere, al cui servizio doveva porsi anche il Dio del Signore Nostro Gesù.
Moriva 50 anni fa Don Primo Mazzolari, uno dei tanti “profeti” che hanno pagato cara la loro fedeltà al Dio dei poveri. Uno di quei preti che ha avuto “occhi penetranti” nel giudicare il rapporto tra la cultura montante, l’allineamento dei cattolici al capitalismo e le esigenze del “Regno di Dio”. Si ricordi che i racconti della Passione di Gesù sono anche i racconti delle difficoltà della primitiva chiesa per non calcolare quanto “vale” Gesù (trenta denari? I trecento denari del profumo versato sul suo capo?), per non tradirlo, rinnegarlo, avere come “unico re Cesare” e non il Nazzareno, per non scappare pieni di paura, per credere all’impossibile amore di Dio verso l’uomo. Ci meraviglieremo se le stesse difficoltà le incontra la chiesa di oggi?
Ma il denaro non è un dio solitario. Abbiamo letto molte volte che oggi il credente è per necessità un violento. Che solo un ateo può portare pace nel mondo. Negli ultimi anni, di fronte agli integralismi ed ai fanatismi, spesso assassini, barbari quanto meno, è venuta fuori questa questione dibattuta ed inquietante. Se in gran parte l’apostasia dell’Occidente dal Cristo è venuta in nome del dio-denaro, non bisogna forse scorgere nella violenza una radice gemella, contigua alla libido possidendi, che addirittura indica come del tutto illusorio il Dio di Gesù, e mostra come unico Dio credibile quello della forza e della violenza spietata? Quasi a dire: se si è credenti, per necessità, in qualche modo, si è violenti; se si è sinceramente atei si può essere invece tolleranti e pacifici.
Erik Peterson in uno studio uscito in Germania nel 1935 (Il monoteismo come problema politico) proprio questo sostiene. Nel monoteismo si anniderebbe la radice della dittatura, della violenza e della guerra. Il monoteismo sarebbe un sistema di guerra che si ammanta di pace, una oscura ipocrisia che addormenta intelligenze e cuori, incapace di suscitare quelle inquietudini morali che sono alla base di qualsiasi progresso umano.
A questo punto non è una domanda retorica chiedersi di che Dio stiamo parlando nelle nostre assemblee liturgiche, così perfette, così spettacolari, ma anche così spesso prive di carica di vita nuova nello Spirito. E non è neppure retorico chiederci perfino se è vero che esistono oggi atei e credenti. Forse siamo tutti idolatri, e quindi tutti “credenti”, perché qualche dio, comunque lo si chiami (mercato o razza, etnia o religione, benessere o rassegnazione alla miseria, soldi o prestigio, vendetta o giustizia) lo abbiamo tutti. O forse siamo tutti atei in Occidente perché anche i cristiani pare che abbiano rinunziato da tempo ad adorare il Padre del loro Signore Gesù e si sono rifugiati in qualche “assoluto di sostituzione”, in un dio che non esiste. Ne deriva che quando si invoca la fine dell‘etsi Deus non daretur, quando si auspica una vita veluti Deus daretur, forse la prima cosa davvero decisiva è sapere di che dio stiamo parlando, se di un idolo come il “dio-denaro” o del “dio-mercato”, oppure dell’Unico che noi conosciamo: il volto mite di Gesù Cristo, crocifisso per amore, e per la nostra risurrezione risorto.
Come si può constatare, il discorso è molto serio. Se Dio è il nostro Principio e il nostro Fine, l’alfa e l’omega; se con la parola Dio intendiamo Colui che è verità ultima, principio portante di ogni nostra scelta etica, “fondo della nostra anima” — per dirla con Meister Eckhart — termine ultimo del cammino di umanizzazione; se Cristo è colui alla cui luce soltanto vogliamo vivere e morire; allora forse dobbiamo dircelo che nulla è più urgente nella chiesa oggi del rimuovere ogni dubbio sulla purezza di una nostra fede nel Dio di Gesù. Sono tante le cose interessanti e all’ordine del giorno nella chiesa (quale Azione Cattolica, quale liturgia, quale papato, quale bioetica, quale politica…), ma la questione delle questioni è “quale Dio”. Sarebbe devastante che qualcuno potesse ritenerci monoteisti mentre siamo solo volenterosi e lieti idolatri.
Forse il kairòs di questo tempo è farci toccare con mano cosa succede quando il “sale diventa scipito” e quando la fede in Dio si riduce ad una pratica quasi folkloristìca, oppure a sostegno di voglie di potere fin troppo umano. Ci fa toccare con mano fin dove si può giungere quando si cercano “sicurezze” non nell’orizzonte di Dio, cioè nell’amore , ma in Mammona che assicura le saldezze ovvie: la forza, il denaro, il potere, l’accumulo. Cioè quelle “cose serie” che l’Occidente ha messo al centro della sua cosiddetta civiltà, ben lontane dalle fantasie poetiche del Maestro di Nazareth che invita, nientedimeno, a “cacciare i mercanti dal Tempio”, a “non servire Mammona”, a “camminare sulle acque” (Mc 6,45-51).
c. Dalla sequela alla “svendita” di Gesù
Certo è impressionante che l’Occidente cristiano sia approdato al culto della ricchezza. Che ne ha fatto dell’insegnamento di Gesù che condiziona la felicità alla povertà? Di quell’insegnamento che mette la tenerezza al primo posto? L’opposizione che Gesù crea tra ricchezza e fede nel Padre, costituisce una definitiva lettura del nostro tempo: chi sta col denaro ha perso Dio. Una società qualsiasi (anche religiosa) che è centrata sul denaro — perfino per portare l’annunzio della povertà liberante — ha perso Dio.
L’evangelista Luca che ci ha donato la “buona notizia” della misericordia, della tenerezza e della compassione di Dio, ci ha dato anche l’insegnamento su quanto distrugge la tenerezza tra noi, su quanto elimina Dio dal nostro orizzonte: l’avidità della ricchezza.
È noto che Gesù conosce due nomi di Dio: “Abbà” e “Mammona”. Il primo appartiene al “Padre suo”, il secondo si erige come anti-dio che tende a distruggere ogni amore. Così egli mette in guardia contro “Mammona” (cfr Alberto Maggi, Gesù o Mammona: quale ricchezza scegliere?, audio registrazione di “Il Gruppo”, S. Donà di Piave).
Il termine “Mammona”, stando alla radice ebraica, significa “sicurezza”. Mammona dunque è il dio della certezze, delle sicurezze; il dio che fonda e dona, o presiede alla distribuzione di ciò su cui si può contare. Ora nel mondo la cosa su cui si può contare, ciò che dà sicurezza e infonde fiducia, ciò che dà splendore di potere, e dunque, ancora una volta, sicurezza, è fondamentalmente l’accumulo dei beni. Così il termine “Mammona”, significa ricchezza, accumulo dei beni, ostentazione di forza e di potere.
All’epoca di Gesù i rabbini distinguevano tra “Mammona di giustizia” e “Mammona di iniquità”. Noi oggi diremmo tra ricchezza onesta e ricchezza disonesta. Gesù dirà che Mammona è sempre di “iniquità”, sempre — alla lettera — “ingiusta”. Per rendere “giusta” la ricchezza, ammonisce: “Ebbene io vi dico: procuratevi amici con l’iniqua Mammona”. Questa affermazione perentoria può dare l’impressione che Gesù sia contrario al benessere degli uomini, che voglia tutti nella miseria. In realtà Gesù non è contrario al benessere. Mai egli ha parlato contro il benessere della gente.
La volontà di Dio è che l’uomo stia bene. Ma se questa è la volontà di Dio per l’uomo, se il benessere è positivo, lo deve essere per tutti. Il benessere diventa negativo quando appartiene soltanto ad una piccola parte della popolazione, mentre la stragrande maggioranza ne è priva. Comprendiamo ora perché la “ricchezza è ingiusta”, perché, in qualche maniera, chi accumula, immancabilmente sottrae agli altri.
E chi è ricco, che deve farne della ricchezza? Gesù — al termine della parabola sull’amministratore infedele, Lc 16,1ss — propone di usare i beni che si possiedono per farsi degli “amici”. Quindi il denaro, la ricchezza, il benessere vanno usati per farsi degli amici, per creare rapporti d’amore, relazioni, legami di fraternità perché la vita superi ogni morte. Chi sono questi “amici”, è facile dirlo. Tutti coloro che non sono nel benessere, e dunque che si trovano in stato di bisogno. “Procuratevi amici con i beni che avete”, significa: i capitali che avete, le somme che avete, non tratteneteli per voi, ma fateli circolare, fate in modo che il denaro porti vita, lavoro, speranza. Solo così vi farete degli amici, “perché quand’essa (la ricchezza) verrà a mancare, vi accolgano nelle dimore eterne”.
Ci troviamo qui di fronte ad un insegnamento sapienziale. Ci rendiamo conto o no, che prima o poi, per quanta ricchezza si possa accumulare, la si dovrà lasciare? Essa è dunque qualcosa di temporale, ma che può anche servire per “le dimore eterne”.
In ogni caso, per Gesù, la sicurezza data dall’abbondanza del denaro, non può essere mai il fine della vita. Nel vangelo di Luca (12,16-21), si trova un passo in cui Gesù parla di un uomo che ha accumulato tanto nella propria vita, e sull’accumulo costruisce la sua sicurezza. Ad un certo momento questi si mette a ragionare e pensa: “Cosa farò di tutto questo accumulo? Ebbene, demolirò i granai che possiedo e ne costruirò di ancora più grandi”. Ma costui non sa che quella stessa notte deve morire e lasciare tutto. Non sarebbe stato più saggio essere fedele a quanto ha ricevuto per tessere rapporti con la gente invece che per basare sulle cose la sua sicurezza?
Continua Gesù: “Se dunque non siete stati fedeli nell’ingiusta ricchezza, chi vi affiderà quella vera? E se non siete stati fedeli nella ricchezza altrui, chi vi darà la vostra?”. E poi soggiunge: “Nessun servo può seguire due padroni, o odierà uno e amerà l’altro; oppure si affezionerà ad uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e Mammona, non potete seguire Dio e la ricchezza!”.
Come se dicesse: vi siete appropriati di ciò che non è vostro, perché la terra è di tutti; avete impedito la vita degli altri; avete impoverito e reso perpetuamente bisognosi i figli di Dio; vi siete attribuiti il diritto di operare queste ingiustizie credendo ad una vostra presunta superiorità. Ma da dove discende questo vostro presunto diritto a spadroneggiare sulle cose e sugli uomini? Certo, non da Dio — dice Gesù — ma da un idolo, dalla Forza sui cui avete fatto affidamento, da Mammona, il dio della ricchezza e dell’accumulo ingiusto. Avete fatto le vostre scelte, e Dio, il Dio dell’Amore, con voi non ha nulla da spartire. “Vi siete allontanati dal Dio vivo per servire un idolo”.
Purtroppo insegnamenti come questi (che Ignazio di Loyola chiama “sacra dottrina” (Esercizi Spirituali, 145), riteniamo che non ci riguardano, quasi noi fossimo al sicuro. E così consumiamo il nostro allontanamento dal Vangelo. Infatti un pensiero coerente al presunto diritto ad accaparrare ed accumulare, una pretesa di potere togliere agli altri ciò di cui hanno diritto, erigerebbero la forza e l’interesse come motori della vita, eliminerebbero l’Amore e quindi il Dio di cui ci ha parlato Gesù Cristo, per sostituirlo con una entità astratta senza volto e senza nome, il “mercato” e le sue leggi (eliminazione drammaticamente descritta da Sap 2,10-11. Questa mentalità del “diritto del più forte” è comune presso i greci. Tucidide la riporta nella sua Guerra del Peloponneso, V, 89. Nota questa “normalità” del diritto della forza sulla giustizia, Simone Weil, in Attesa di Dio, Adelphi, 2008, pp. 102-105).
Alla stessa conclusione si giunge considerando un altro aspetto della vita di Gesù di Nazareth. Lui fu “tentato” di usare il suo potere a suo favore (Mt 4,1-11), di farsi fare re in cambio di pane e pesci “moltiplicati” (Gv 6), di chiedere legioni di angeli in sua difesa, di avere un suo progetto diverso dalla “volontà del Padre”. Insomma fu tentato di “salvarsi” smettendo la sua pretesa di “salvare”. Sotto la croce, persone diversissime — ma appartenenti alla stessa logica che sempre l”io” viene prima del “noi”, che gli altri sono strumento per l’affermazione dell”io” — lo sbeffeggiano e lo sfidano: “Salva te stesso!” — “Se ti salvi ti crederemo” — “Se non puoi salvare te stesso come puoi dire di salvare noi?”.
Gesù non cede a questa tentazione. Non usa questo potere e, abbandonandosi totalmente all’Altro, consegnandosi senza riserva per “gli altri” testimonia che il Mistero Santo della Vita è un amore che si perde, che non pensa assolutamente a sé, che ha il suo centro di gravità nel dare vita, non nel trattenerla in sé.
E se avesse ceduto? E se Gesù avesse usato per sé quel potere, che cosa avrebbe testimoniato? Scrive il cardinale Martini: “Si sarebbe fatto garante di un dio pagano, di un dio detentore di potere e distributore di potere per accrescere il potere di ciascuno; di un dio che si serve del potere a proprio vantaggio e lo distribuisce perché ciascuno se ne serva a proprio vantaggio. Se scenderà dalla croce gli crederanno, ma crederanno ad un dio che fa comodo, ad una immagine sbagliata di Dio” (Incontro al Signore risorto, Paoline, 2009, pg. 211). Detto in altri termini, avrebbe parlato di un dio che è assoluto egoismo, splendore di sé, creatore di esseri che gli stanno attorno solo perché lui manifesti il suo assoluto dominio premiandoli o castigandoli. Un dio simile si adatta molto alla “teologia” di Bush, di cui parleremo dopo.
d. Siamo in un sistema sostanzialmente ateo
Quanto abbiamo detto è una esplicita risposta ad una nostra domanda iniziale: come leggere la realtà alla luce della Parola di Dio? Gesù la legge come un sistema sostanzialmente ateo, che prescinde da ogni valore della persona concreta, affidato alla forza e non all’Amore.
È ragionevole pensare che un cristiano di fronte al sistema globalizzato avrebbe dovuto sentirsi a disagio, avrebbe dovuto intuire in un mondo di benessere per alcuni e di abiezione per moltitudini, qualcosa di estremamente avverso ai piani di Dio. Forse avremmo avuto lo stesso il capitalismo selvaggio dei nostri giorni, ma “non in nostro nome” e, tanto meno, in nome di Gesù. E invece siamo stati fedeli sudditi della globalizzazione, anzi volenterosi creatori.
Possiamo tranquillamente affermarlo: i cristiani, storicamente, non si sono sottratti per nulla al fascino di Mammona. Hanno cercato in quanto esso promette le loro sicurezze. Hanno optato per Abbà nelle preghiere ufficiali dentro gli edifici sacri, ma hanno finito per adorare Mammona nella vita di ogni giorno. Così hanno reso muto e sterile lo stesso Vangelo. Con ricadute inimmaginabili.
Le vicende del cristianesimo storico, a partire da oltre un millennio, sono quanto mai ambigue e conturbanti. Già nel IV secolo il Crocifisso diventa minaccia di morte per pagani ed ebrei. La religione di stato impone le conversioni, e dall’alto dell’Impero piove il comando di trasformare la religione del Galileo crocifisso in elemento di novità e coesione per tutti i sudditi ed i cittadini romani. Il vangelo si trasforma in “religione civile” carica di onori, basiliche sontuose, possedimenti, forza. I cristiani volevano uscire dalle catacombe, e ne uscirono. Ma a quale prezzo? Cosa succede se il Crocifisso diventa un crocifissore e il Padre della vita un idolo di morte?
Dopo il 313 cominciò ad avere valore teologico di credibilità la vittoria, lo splendore delle basiliche, la saggezza esclusiva dei sacerdoti, gli abiti regali di cui erano vestiti, lo splendore delle sacre funzioni, la ricchezza dei palazzi vescovili. In altri termini, cominciò ad avere valore ciò che per Gesù non ne aveva affatto. Come se Lui avesse detto: “Beati quelli che vincono, i ricchi che sono onorati, quelli che hanno potere di dare vita o morte, beati gli amici dell’imperatore, beati coloro che conoscono la dottrina cristiana…”.
Il peggio consiste nel fatto che trattandosi di cristiani e parlando questi in nome di Dio, anzi del Povero falegname di Nazareth morto come un malfattore, bisognava dimostrare che quanto succedeva era in linea col vangelo e col messaggio di Gesù. Si comincia così a pensare che ormai non siamo più nella vita del Cristo-povero, ma del Cristo “assiso alla destra del Padre”, dunque trionfante. Chi lo rende presente nella storia deve essere non un perdente ma un trionfatore. Ben vengano onori e ricchezze ai seguaci del Cristo, sono segno della sua divinità, esattamente come un giorno lo furono i miracoli.
Tra il serio ed il faceto, in un consiglio pastorale piuttosto deciso a non parlare di “sesso degli angeli”, un anziano prete proclamava che era tempo di finirla “con questi pretucci tutti umiltà e nascondimento che stanno riducendo Dio ad un imbavagliato vecchiotto che sa prendere solo sberle dai suoi figli”. Affermava che un malinteso rinnovamento conciliare aveva ridotto Dio al silenzio, consumato tra quattro mura, mentre fuori la vita scorre per conto suo. Rimproverava che alle “quattro vecchie” della messa del mattino, ai “soliti quattro pensionati” della messa vespertina questi “preti moderni” dicono parole che hanno valore come preparazione alla buona morte e “valium per la notte”. E concludeva angosciato, fin troppo serio: “La gente fuori che ne sa di Dio? Manco lo vede, vive come se lui non ci fosse, come gli pare; disprezza ciò che non conosce.”
Saremmo ingiusti se dicessimo che quel prete è il prototipo di quanti cercano lo splendore di Dio per giustificare la loro grandezza, la gloria di Dio per santificare il loro “cursus honorum”. Oppure se ne facessimo il portavoce di quei nostalgici dei papi-re e dei vescovi-conti che rendevano “onorato” anche il più ignorante dei curati di campagna. Il discorso è molto più serio. Per certi versi attiene al nucleo centrale del messaggio cristiano: il Verbo incarnato che è venuto a fare sulla terra? Per altri versi ci fa toccare con mano la nostra enorme difficoltà a predicare il vangelo oggi, senza nessun supporto di potere civile, noi che fino ad ieri siamo andati avanti nell’evangelizzazione dell’umanità accompagnati da eserciti armati e da re “cattolicissimi”. Nell’epoca in cui tutto è visibile e gli oggetti si qualificano non per la loro utilità ma per la loro “costosità”, ci sentiamo davvero fuori luogo quando pretendiamo di andare in giro a parlare di Dio “con una sola tunica, senza portafoglio, con un solo paio di sandali ai piedi”. Così abbiamo trasformato il Falegname in Pantocrator, il vangelo e la Scrittura in una fonte per conoscere i segreti dell’Invisibile (i dogmi), la chiesa in una barca dove ogni uomo deve salire se vuole salvarsi l’anima, i pastori in garanti e guardiani della salvezza. Il “regno di Dio” lo abbiamo ridotto agli splendori della chiesa sulla terra e alla vita ultraterrena dopo la morte. Il mondo lo abbiamo fatto diventare appannaggio dei Sommi Sacerdoti che lo danno ai regnanti che vogliono. Gli “anziani” della comunità, i presbiteri, li abbiamo cambiati in celebratori di sacrifici “nuovi”, in “sacerdoti”, mentre il popolo diventa una massa informe che bisogna costringere, volente o nolente, a salvarsi l’anima.
In tutto questo emerge proprio nell’orizzonte religioso, come una nuova triade: splendore, denaro, forza onnipotente. La forza (che chiamiamo autorità sacra o in altri modi) diventa criterio di verità. La fedeltà al vangelo è secondaria, purché si sia fedeli agli ordini della chiesa che ha “potere di legare e sciogliere”. Gesù diventa una figura scialba di riferimento storico, un ricordo evanescente che finirebbe per turbare quelli che annunziano in suo nome il suo vangelo, se fosse troppo presente ed ingombrante. Il suo messaggio viene quasi solennemente negato, per far posto a chi autorizza “i nuovi trionfi della croce”.
Se si volesse estremizzare, anche solo metodologicamente, per chiarire in che situazione ci siamo cacciati, si dovrebbe dire che il Dio-Amore, la Verità Crocifissa, il Liberatore dei poveri, la Speranza dei miserabili, il Datore dello “Spirito Buono”, non esiste più. Esiste un idolo, molto simile alle divinità pagane. A buoni conti, se il vangelo rimane ancora una fonte di valori ufficiali, i valori reali nella comune mentalità dei cristiani, sono ben altri, sono smaccatamente pagani.
Questa ideologizzazione di Dio, rischia di coinvolgere anche la chiesa ed i suoi capi. Cosa significa quella corrente ecclesiocentrica che determina secoli di pratica, diciamo, pastorale? Come se Gesù fosse venuto a fondare la chiesa e non ad annunziare il “regno di Dio”. E che vuol dire, per lunghi secoli, l’appellativo di “Alter Christus”, “Summus sacerdos” che il papa si attribuisce mentre pone sul suo capo il “triregno”? Il fenomeno della “papolatria” è così diffuso anche oggi da costringere “Civiltà Cattolica” a diversi editoriali in merito attorno al 1985 (fece scalpore l’editoriale del numero 3249. Vedi anche La chiesa del no, op.cit. p.122). Tutto ciò appare con estrema chiarezza quando i papi si vestono d’oro come gli idoli, si ammantano di tessuti e pietre preziose, magari mentre parlano di “povertà” evangelica. Diventa anche idolo la “dottrina cristiana”, dove le consuetudini umane, anche in stridente contrasto col vangelo, vengono erette ad infallibili pronunciamenti di fede.
Chiesa, uomini di chiesa, denaro, splendore ed onore di chiesa, acquisiscono quei caratteri che sono propri dì Dio o di qualsiasi assoluto di sostituzione (idolo): assolutezza, eternità, ritualità, universalità, infallibilità, immunità, impunità. Quando questo succede si può dire che l’idolo fa il suo ingresso ufficiale nel Tempio e cerca di stabilizzare lì la sua dimora. Noi continuiamo a dirci religiosi e siamo così ciechi da non accorgerci che stiamo adorando “il vitello d’oro”, non il Dio dell’Esodo.
Anche questo nuovo sistema economico-religioso è essenzialmente sacrificale. E come la vittima più illustre del sistema imperiale romano (premessa e prova artigianale dell’attuale globalizzazione operata dalla forza del denaro) fu Gesù di Nazareth, così anche oggi le prime vittime sono il Dio della vita, il Povero di Nazareth “crocifisso fuori le mura”, lo Spirito di Amore, la preminenza della persona umana, la liberazione e la salvezza vera dell’umanità, il riconoscimento esplicito dei diritti di ogni uomo (cfr José M. Castillo, La chiesa e i diritti umani, Il Segno dei Gabrielli editori, 2009).
Tutto questo fu reso visibile sulle labbra di una battezzata che diceva di sé: “Credo in Dio ogni tanto, quando ho timore. Della fede non ho il coraggio e neanche l’innocenza. Del resto Dio è solo un complice remoto delle menomazioni degli uomini, e di lui per tanto tempo ho fatto a meno”.
Certamente il peggio avviene quando la chiesa si scorge “potere” e crede che questo le si addica per motivi teologici. Allora passa di categoria, cambia orizzonte. Senza neppure volerlo si situa accanto alla logica di tutti i poteri laici o religiosi (o perfino malavitosi) che siano. Il potente è fratello di ogni altro potente. Se la chiesa critica il modo con cui un potente esercita il suo potere, non sta solo raddrizzando una stortura, ma sta minando il principio stesso su cui si poggia il potere, il suo non essere giudicabile da nessuno. Se un potere fosse “nudo” potrebbe esserlo anche un altro. E, dal punto di vista dei potenti, questa sarebbe la fine, l’inizio del caos.
È un miracolo che questo stravolgimento, anche se ufficializzato, non giunga mai a sovvertire la chiesa ed a trasformarla in cenacolo dell’Anticristo. Il popolo di Dio continua a credere nell’utopia del Figlio di Dio, nel vangelo. Lo vive o lo incarna in modo spesso commovente. Ci sono i santi poi che senza contestare nessuno, rivendicano almeno per sé il diritto di vivere solo ed esclusivamente di Cristo. Ci sono i martiri. Ci sono i mistici e le mistiche di tutti i tempi che magari sono guardati male, ma che tengono viva nella chiesa la speranza che essa possa ritrovare se stessa non nello splendore dato dagli uomini, ma in quello ereditato da Cristo.
3. IL DIO DI BUSH
Abbiamo notato all’inizio che forse la forma di cristianesimo più in sintonia con l’ideologia della globalizzazione e del mercato, è quella offerta da certe sette avventiste-millenariste che prosperano negli Stati Uniti. A nostro parere ci troviamo di fronte ad una distorsione radicale del messaggio evangelico. Ad un chiaro indizio di come la cultura corrente stravolga il cristianesimo. In particolare bisogna prendere in seria considerazione quanto Bush jr. ha detto durante la sua presidenza (cfr. Massimo Rubboli, “Dio sta marciando”, La Meridiana). Egli non è un isolato. La cosiddetta “maggioranza morale” si è sentita rappresentata da lui e, nonostante Obama, abbiamo forti dubbi che quella “maggioranza” abbia cambiato opinione. Bush è un “ideologo”, non nel senso intellettuale della parola, ma in un senso molto più importante: per la capacità di personalizzare la metafora fondazionale degli USA, e perché si sintonizza con la massa di quanti “contano”. Del resto quello che Bush ha detto non solo è compatibile con il sistema ancora intatto, ma è precisamente l’espressione delle forze che hanno costruito il sistema. Per questo motivo è un errore credere che la sua ideologia su Dio e la religione civile scompariranno, ora che il suo mito è tramontato.
L’impostazione della setta a cui aderisce Bush è semplice: il dovere della lotta tra buoni e cattivi, tra bianco e nero. L’incarnazione del Bene contro l’incarnazione del Male. Probabilmente questa semplicità tanto manichea, tanto da film di “indiani”, è stata la sua forza. Si tratta di polarizzare le forze sociali in un solo nemico. Per i caratteri deboli o troppo informati, sapere che vi sono molti nemici può indurre a dubbi sulla propria causa. Così tutti gli avversari dei differenti campi sembrano formar parte di un’unica categoria. Il merito dell’équipe di Bush, in un momento in cui, dopo la Guerra Fredda non vi era nessun nemico visibile che potesse far fronte agli Stati Uniti, il merito dunque è quello di aver trovato questo nemico in un elemento diffuso, il terrorismo, che permette di attuare, con questa scusa, in qualsiasi parte del mondo, nel nome di Dio, una guerra santa. Questo fu il regalo che ricevette l’amministrazione dall’11 settembre 2001.
Il Dio di Bush, è un Dio che abbandona le creature alla loro rovina, che guarda impassibile come, a causa delle leggi immutabili dell’economia, due terzi del mondo vive con meno di due dollari al giorno, che non sa compatire. È un Dio vincolato a una determinata teologia del potere.
Ovviamente questo Dio non è il Dio che ha compassione ed è benigno della Bibbia, ma una sorta di sua maschera desunta dai passi più truci — e presi alla lettera – della lotta di Dio contro gli oppressori del suo popolo. Non è il Dio-Padre di bontà e misericordia del quale parla Gesù. Non il Dio che dona la salute agli infermi e ridona la vita ai morti e, in primo luogo, allo stesso Gesù. Ci si chiede come mai si giunge a tanto da parte di uomini che hanno sempre in mano la Scrittura e si dicono cristiani. La storia è lunga. Possiamo ripetere che noi tutti siamo responsabili della perdita del Dio di Gesù.
Probabilmente in modo impercettibile, a partire dal secolo IV, il cristianesimo cominciò ad assumere come base della sua visione del mondo la filosofia greca e il pensiero giuridico del Diritto Romano, che pensano l’essere umano a partire dal potere. Vero uomo sarebbe “il signore”. Si è verificata una perdita di sensibilità per la sofferenza che portò ad una maggiore preoccupazione per la trasgressione, per il peccato e i peccatori. Si passò da una morale della compassione ad una morale del peccato. La domanda sull’atteggiamento di Dio di fronte ai dolore diventò domanda sulla salvezza dell’anima.
Il messaggio di Gesù, concepito a partire dalle prospettive delle vittime, e compreso dai primi cristiani come un messaggio per la liberazione di ogni tipo di schiavitù, si andò convertendo in un messaggio di potere, del Dio che castiga con la morte qualsiasi deviazione. Dio potrà essere concepito come un Dio di morte, che conduce Gesù verso la morte per espiare i peccati di tutti, invece di un Dio della vita e di un Gesù che si sottomette alla morte, contro la sua volontà, per liberarci dal potere di qualsiasi legge di morte. La salvezza non è concepita come liberazione, vita, speranza, ribellione a favore della vita, ma a partire da una teologia che parla di sacrificio, morte, peccato, colpa e castigo. A partire da una teologia, che parla il linguaggio di Mel Gibson nella pellicola La Passione o quello di Anselmo d’Aosta nella teoria satisfactoria.
Questo Dio-di-morte non ha niente a che vedere con la sofferenza del mondo. Non c’è posto, non è possibile chiamare o invocare Dio. L’umanità, fattasi indipendente da Dio, si è resa peccatrice e si trascina le conseguenze del peccato. Dio rimane subordinato alla libertà umana e la redenzione è pensata esclusivamente come redenzione dal peccato. Il problema della fame e della sete di giustizia come problema di Dio, cioè, il problema della giustizia di Dio, è sostituito dal problema antropologico della colpa.
Sembra che l’unico modo per comprendere l’azione politica di Bush sia accettare il dogma luterano e calvinista del peccato originale. La natura umana sarebbe intrinsecamente corrotta, la sfera politica, in ultima istanza, sarebbe condizionata dall’inimicizia tra l’uno e gli altri, vivremmo nel mondo di Hobbes, o in quella figura “amico-nemico” di cui abbiamo parlato in “premessa”. Per il fondamentalismo, il sogno utopistico del liberalismo nel quale i conflitti economici dovevano essere ridotti a controversie, e la guerra eliminata, sarebbe un mondo noioso e triste, senza importanti antitesi che richiedono sacrifici importanti, senza fatti eroici, inclusa l’offerta della vita e lo straordinario perfezionamento delle competenze. Comunque, fondamento di quanto andiamo dicendo è il dovere prendere atto che la vita è lotta di uno contro l’altro: “pòlemos, madre di ogni cosa”.
Il Dio di Bush dunque è un Dio che si esprime attraverso il potere e l’estensione continua del potere, con l’intenzionalità di un sogno di Sacro Impero sullo stile del Medio Evo. Si tratta di un modello vicino al totalitarismo. Condivide con Ariel Sharon, che qualifica come “uomo di pace”, l’idea del “Grande Israele”, e fa sua quella frase di Napoleone che “Dio è a favore di colui che possiede i cannoni”, o l’idea di Pat Robertson il quale, oltre ad invocare un certo ritorno alla teocrazia, proclamava: “Tutti i mezzi di comunicazione, le notizie, la televisione, le emittenti radio, il cinema, le arti, il governo, le imprese, le finanze, saranno nostre. Dio darà tutto questo al suo Popolo Eletto. Dobbiamo prepararci per regnare nel mondo e governarlo insieme a Gesù Cristo”.
Il Dio di Bush è un Dio che si esprime anche attraverso il castigo, che si mostra nella scena mondiale sotto l’aspetto dell’esercito americano e nella scena nazionale sotto l’aspetto della pena di morte. Nelle sue espressioni religiose sembra l’immagine speculare in chiave occidentale di quel Dio pieno di rancori e vendicativo di Komeini. L’amministrazione repubblicana di Bush ha giocato il ruolo di “sceriffo” del mondo. Ha preteso di dettare giustizia nella lotta tra il Bene ed il Male, considerandosi lo strumento del giusto castigo.
Il Dio di Bush è un Dio che del dominio del mondo fa la ragione della sua presenza e, di conseguenza, del conflitto permanente, una strategia necessaria. Ma anche Nietzsche reclamava il conflitto come strategia necessaria del progresso. Il telepredicatore Buster Dobbs (editore della rivista “Firm Foundation”, giugno 1994) diceva: “L’incapacità o mancanza di volontà per odiare rende inservibile la persona. Se non odiamo le cose detestabili, la qualità del nostro carattere suscita qualche sospetto. La Bibbia comanda di odiare”. Ricordo l’opera, La Genealogia della Morale: “Un ordine legale pensato come sovrano e universale, pensato come mezzo per prevenire i conflitti e qualsiasi lotta in generale (…), sarebbe un ordine contrario alla vita, un agente di dissoluzione e distruzione dell’energia, l’intenzione di assassinare il futuro dell’uomo, segnale di schifo, cammino segreto verso il nulla”. Sembra che torniamo indietro alla vecchia filosofia del “potere-per-il-potere”.
Secondo la teologia di Bush, non è possibile nascondere la relazione tra guerra, politica, religione e natura umana. È il fondamentalismo. Se alla visione politica e strategica si aggiunge la concezione del “Popolo Eletto”, facilmente si giungerà alla giustificazione teologica della “guerra preventiva” o alla possibilità di progettare, per esempio, di attaccare il mondo arabo come un atto di omaggio a Dio. Il fondamentalismo religioso è stato sempre vincolato al “Millenarismo” e alla mentalità apocalittica sulla fine del mondo. Si alimenta della letteratura apocalittica della Bibbia. Isaia, Ezechiele, e Daniele sono interpretati in senso letterale: Yhwh lotta contro le forze del caos, personificati in Satana.
Si tratta di una interpretazione globale della storia nella quale i nemici del Popolo di Dio, quelli che hanno posto difficoltà nella costruzione dell’Israele della Promessa, sono pure nemici di Dio. La storia comporta il confronto continuo tra Yhwh e le forze del Male. Il male sarà vinto e il “serpente”, incarnazione di Satana, sarà annientato. La personificazione del Male nella figura dell’Anticristo (Mt 24, Mc 13 o Lc 21) si collega con il quadro dualista che essi leggono nell’Antico Testamento e con il dualismo manicheo del fondamentalismo. Arrivano i nostri giorni marcati dal confronto decisivo tra il Bene e il Male, dalle guerre devastanti e “infinite”, dalla rivelazione dell’Anticristo. Siamo vicini alla seconda venuta di Cristo che instaurerà l’era perfetta, preparando la sua venuta definitiva, quando i fedeli saranno “rapiti” alla gloria per ricevere il corpo risuscitato.
Il frammento dell’Apocalisse 16,16-21 parla di Armageddon come luogo della grande battaglia nella quale sarà manifesto per sempre il trionfo del Bene e la distruzione del Male. Tutta la storia attuale del mondo non è se non la preparazione del combattimento finale. Per il fondamentalista questo momento non bisogna temerlo. Per questo motivo Armageddon si è convertito in citazione obbligata per il fondamentalismo. Sarà il luogo della distruzione, incluso il luogo del possibile olocausto nucleare, e del giudizio nel quale i giusti saranno separati dai non giusti. Sarà il punto finale della storia delle relazioni di Dio con gli uomini.
4. USCIRE DALL’OCCIDENTE? UN “MONDO ALTRO” È POSSIBILE?
Se si leggono i fautori della globalizzazione “mercatistica” (così si esprime Tremonti) si apprende che il fine di questo ordinamento è il benessere generalizzato, la distribuzione della ricchezza, la fine delle guerre (ci sarebbe molto da dire in merito, se è vero che già al suo inizio il capitalismo si presentava come la società “dei due terzi” – Malthus -, non come una promessa di benessere generalizzato. Oggi i “salvati” non sono neppure un terzo ma poco più di un decimo). Ma oggi vediamo che il sistema funziona al contrario, produce morte e miseria nella maggioranza degli uomini. Ecco la domanda: che fare? Che dobbiamo fare noi in quanto credenti?
Diciamo subito che molte cose lodevoli sono possibili, ma assolutamente insufficienti. Elemosina, coscienza della sostanziale inutilità dì tante cose comperate anche con sacrificio, rinuncia all’ultimo tipo di telefonino e agli oggetti della tecnologia di moda, rinunciare a qualche anello, bandire l’oro nel servizio liturgico al Povero di Nazareth, stile di vita più sobrio, “bilanci di giustizia”, adozioni a distanza, “decrescita felice”, prestiti di onore a giovani e poveri, microcredito…; tutto questo è bello, ma non ci fa andare molto avanti se non si riesce a cacciare il “mercato dal tempio”.
Scrive Simone Weil nel 1942:
“Bisogna essere cattolici, ossia non essere legati con un filo a nulla che sia creato, bensì alla totalità della creazione… È vero che si deve amare il prossimo, ma nell’esempio dato dal Cristo per illustrare tale comandamento, il prossimo è un essere nudo e sanguinante, che giace tramortito sulla strada, e di cui non si sa nulla. Si tratta dunque di un amore totalmente anonimo, e proprio per questo, affatto universale… Viviamo in un’epoca che non ha precedenti, e nell’attuale situazione, l’universalità, che un tempo poteva essere implicita, deve essere pienamente esplicita. Deve impregnare il linguaggio e tutto il modo di essere. Oggi essere santi non basta, occorre la santità che il momento presente esige, una santità nuova, anch’essa senza precedenti” (Attesa di Dio, Adelphi, 2008, pp 57-58)
Eccezionalità dei tempi, santità nuova, senza precedenti… Sembrano iperboli. Ma la giovane donna insiste: questo nuovo tipo di santità è qualcosa di dirompente, è un’invenzione, è una nuova rivelazione dell’universo e del destino umano, un portare alla luce una larga porzione di verità e di bellezza fin qui dissimulate da uno spesso strato di polvere. E ci vuole “genio” per tutto ciò, genio da implorare, a cui non possiamo sottrarci perché scomodo; sarebbe da empi. E conclude: “Il mondo ha bisogno di santi dotati di ‘genio’ come una città appestata ha bisogno di medici. Dove c’è bisogno c’è obbligo”.
Credo che una domanda fondamentale dei cristiani di oggi, almeno di quelli “svegli” sia: “Che cosa dobbiamo all’uomo di oggi, che doveri abbiamo verso la storia, noi che crediamo di avere il privilegio di essere stati toccati dalla Grazia e risanati dal Maestro? Alcune cose ci sembrano prioritarie:
• Renderci conto, con estrema lucidità, della situazione a cui ci ha condotto l’annacquamento del vangelo e l’avere trasformato la fede dei poveri nella religione dei vittoriosi crocifissori di popoli e nazioni.
• Delineare un nuovo modello di santità cristiana collettiva che ha come fulcro il rapporto coi beni della terra (e dunque col denaro ed il potere) e con i diseredati di tutti i continenti, con gli impoveriti e gli schiavi vecchi e nuovi, con gli immigrati che cercano vita in questa nostra terra che ha disimparato la vita e l’amore. Abbiamo il dovere di riscoprire la “chiesa dei poveri” che cammina con essi, che ad essi è mandata. E tutto ciò lasciando che gli innamorati dello splendore e del potere religioso se ne pascano a volontà. Anche in questo campo vale la massima “lascia che i morti seppelliscano i morti”.
• Restituire all’amore la sua centralità, credere nei fatti che Dio è Amore, che la persona vale sempre più delle cose. Anche la persona degli “esuberi”, dei clandestini, degli sconfitti.
• “Dobbiamo radicalizzare la ricerca della giustizia e della pace, della dignità umana e dell’uguaglianza nell’alterità, del vero progresso nell’ecologia profonda, bisogna impiantare la libertà nel cuore stesso dell’uguaglianza; oggi con una visione ed un’azione di dimensioni mondiali. È l’altra globalizzazione, quella che rivendicano i nostri pensatori, i nostri militanti, i nostri martiri, i nostri affamati”. Così Mons. Pedro Casaldàliga (Lettera circolare, in Adista, 29/2009, pp 7-8).
In tutti questi campi c’è da invocare quella che Benedetto XVI chiama “rivoluzione” 42, anche se non sempre ad accendere questa luce sembra propensa la stessa chiesa-istituzione (omelia del 01/01/09; in “il Regno”, 2009, 1, pp. 1-5, il messaggio pontificio per la giornata della pace 2009). Ci rendiamo conto che non è facile per nessuno uscire da un modo di pensare deduttivo che ama le astrazioni e si rifiuta di confrontarsi con la realtà. Non ci è facile uscire dalla presunzione che noi cristiani (soprattutto se ecclesiastici) sappiamo tutto, fin nei minimi particolari, su Dio, sugli uomini, sul destino umano, che dunque abbiamo il diritto e il dovere di ingabbiare la realtà negli schemi nostri, elaborati magari a fin di bene, ma senza quella umiltà che ci farebbe sempre attenti osservatori della Vita, quasi perpetuamente sulla soglia per ascoltare i gemiti dello Spirito nella realtà storica e nel cuore umano. Non ci è facile scardinare, neppure presso gli uomini di fede, l’idea che l’uomo sia un essere assoluto, chiuso nei suoi bisogni e forte delle sue possibilità, che instaura con gli altri rapporti di utilità nel migliore dei casi, quando non si trincera dietro la difesa della sua sicurezza e qualifica come potenziali nemici quanti si affacciano al suo orizzonte. Siamo così feriti dagli “altri” che stentiamo a pensare che ci occorra svestire armature e deporre armi.
Quando ho tentato di fare comprendere a gente “pia” che l’amore non era un optional, ma l’espressione della loro profonda natura relazionale (“l’uomo è relazione”, è “comunità” come il Dio di cui ci parlato Gesù) ho trovato un’ostilità chiusa e sorda: “Lei vuole santificare il sacrificio; se mai avesse amato si sarebbe accorto che l’amore non c’è, c’è invece lo sfruttamento e un gioco atroce di parole che illude tutti”.
Se qualcuno si chiede il perché di questa resistenza, rifletta sul fatto che l’interesse dell’etica cristiana è stato sempre per quello individuale, quasi mai per quello sociale. Il presunto diritto di proprietà, che la chiesa ha sempre legato con la libertà personale, e per cui si è battuta lungo più di cento anni contro il comunismo, era fondato sull’io non sul noi. Si poteva usare ed abusare tuta conscientia delle proprie cose, anche se accanto a sé la gente moriva di fame. Così si giungeva senza battere ciglio a benedire l’elemosina personale — gesto meritorio di bontà — chiudendo gli occhi sull’ingiustizia plateale che condannava alla miseria e legittimava la stessa schiavitù (cfr Il commercio degli schiavi di Hugh Thomas; una sua lezione in L’Europa e gli schiavi, Repubblica 30/01/09).
Non ci è facile ripudiare un cammino che ha visto lo sviluppo dell’Occidente plasmato da due fattori congiunti: l’utilitarismo assoluto ed il senso religioso del dovere. In pratica l’Occidente è figlio della supremazia del denaro, della voglia di possedere ed arricchirsi, e tutto questo da parte di gruppi e di nazioni cristiane, di re cristianissimi e di battezzati che nella grandezza della famiglia o della Patria nulla vedevano di male, anche se le loro mani grondavano sangue. Detto in altri termini: la cultura corrente, quella nata dal capitalismo e dall’utilitarismo etico, è stata accolta dai cristiani che, per così dire, si sono fatti evangelizzare da essa — lo abbiamo ricordato — invece di evangelizzarla in nome della dignità e dei diritti di ogni uomo. Così oggi non abbiamo la minima coscienza né della nostra ipocrisia né, tanto meno della nostra apostasia. Quanto di orribile abbiamo prodotto e produciamo, la propaganda ce lo mostra come “naturale” ed ineluttabile.
Non ci è facile rinunziare ai privilegi offerti alla chiesa dal sistema attuale, dall’attuale governo. Privilegi che creano una sorta di collateralismo tra la globalizzazione, il mercato e la stessa chiesa-istituzione.
Si crea così una serie di corti-circuiti: la chiesa dovrebbe annunziare il vangelo ed il suo messaggio di salvezza per ogni povero; per sussistere ha bisogno di istituzionalizzarsi e l’istituzione ha bisogno di soldi e spazi che vengono garantiti dal sistema; il sistema chiede in contraccambio che la stessa chiesa sacralizzi le sue scelte idolatriche; la chiesa ci sta e così predica un vangelo vuoto che uccide il vangelo vivo.
A chiare lettere: non ci è facile rinunziare a Mammona per scegliere Abbà, anzi — parola del Cristo — questo è “impossibile agli uomini, ma non a Dio”. Ed allora abbiamo bisogno di profezia.
Non è solo la chiesa-istituzione, è la mentalità popolare dei battezzati ormai abbastanza idolatrica, ad impedirci di uscire da questa apostasia e da un sistema che attenta alla vita. C’è anche l’individuo che ha trovato nella smania dì possedere ed accumulare l’orizzonte per la soluzione dei suoi problemi personali.
L’insignificanza dell’uomo, la precarietà della vita, l’incertezza sul futuro dopo la morte, la sua abissale solitudine, la paura del vivere e del morire, l’inaffidabilità del prossimo, portano con sé quello smarrimento esistenziale che Kierkegaard chiama la “malattia mortale”. In essa l’uomo si perde, si smarrisce e per uscire da questa “perdizione” non ha che due strade: o illudersi di essere speciale, non come gli altri, superiore agli altri, forse immortale, oppure abbandonarsi nella fiducia sconfinata a quel Padre da cui viene e a cui va, nelle cui mani può stare al sicuro.
La soluzione storica (che parte dal “peccato originale”) è quella della ricerca della superiorità ed eccezionalità personale sugli altri tramite accumulo, onore e potere, anche se, alla lunga, tutto ciò fa scorrere sangue e porta morte. Questa soluzione è illusoria: “nessuno — dice Gesù — ha potuto mai riscattare col denaro un solo giorno della sua vita” . Se illusoria, è senza senso. Essere “costretti” a vivere qualcosa senza senso, come una imprescindibile necessità, sa di fatalismo, di idolatria ad un dio crudele e beffardo, simile al dio di Jaco nell’Otello.
La proposta di Gesù è nella fiducia tra le mani del Padre di cui siamo “figli amati”. Forse la profezia più difficile per il cristiano sta qui: nel dire e testimoniare che una uscita, un esodo dall’illusione è possibile, una strada verso la vera sicurezza nell’abbandono di amore e in attesa della nostra conversione. Perché la radice del “regno” annunziato da Gesù è questa fiducia nel Padre e nei fratelli, nostri compagni di cammino e destino.
Lo sappiamo bene che sembra assurda questa proposta agli occhi dell’uomo contemporaneo. E proprio in questo sta l’urgenza di un atteggiamento profetico nel cristiano e nella chiesa: non solo dare fiducia e coraggio, non solo indicare l’abisso verso cui ci incamminiamo, ma testimoniare che “un altro mondo è possibile”, un “uomo altro”, una società più degna dei figli di Dio.
Il cardinale Martini, nel suo celebre libro “Conversazioni notturne a Gerusalemme” (Mondadori, 2008) tra le parole che più usa rivolgendosi a giovani e non-giovani, c’è “coraggio”. E in effetti costa a tutti andare contro corrente, anche se assecondare il flusso non è senza dolori e rinnegamenti di sé. Forse non possiamo evitare il dolore, ma possiamo scegliere tra quello che porta alla “morte” e quello che dona vita a sé e agli altri.
Francamente viene da piangere quando in siti supercattolici si discetta sul colore della mantellina dei monsignori, o sulla quantità di incenso nelle messe solenni, quando con piglio infallibile si dichiara che la morte di Eluana è stata un assassinio ad opera di boia, e si dimentica che le vere domande, quelle decisive per un uomo di fede sono altre: cosa può fare il cristiano perché l’uomo non si autodistrugga — come aiutare la nascita di un uomo nuovo — come togliere la vita umana alla tirannia delle leggi del mercato e della tecnica — cosa fare perché l’uomo non sia schiavo di forze invisibili ed astratte — cosa perché creda di essere degno di una vita all’insegna dell’amore e non del possesso, e sappia scommettere tutto su questa speranza.
Concludendo, una sorta di confessione. Forse qui siamo in troppi ad avere ferite appena rimarginate, a contare speranze deluse. Forse abbiamo visto che chi ci doveva appoggiare ci ha osteggiato, chi doveva incoraggiarci a predicare il Vangelo ci ha messo il bastone tra le ruote.
Ma non siamo forse neppure in pochi a poter dire che tutte le volte che abbiamo camminato coi poveri — e dunque col “Povero” — tutte le volte che abbiamo osato avere parole di speranza, in quelle occasioni chi credevamo un “nemico” si è rivelato compagno di cammino e si è aperto ad una “speranza appena nata”. In quelle occasioni, chissà, abbiamo sentito qualcosa che dovette accompagnare la morte di Gesù: tutto sembrava un fallimento, in realtà tutto era diverso nel mondo perché nulla era senza senso ormai, ed ogni figlio di Dio poteva fare del suo tempo, dei suoi giorni una magnifica avventura nel segno della vita e dell’amore.
Oggi le nostre speranze sembrano sconfitte, siamo dei “perdenti” secondo gli uomini, ma chi sa, questo nucleo di “marginali” custodisce un segreto, un grumo splendido di fede, una ricetta di felicità, lanciata 2000 anni fa sul “monte delle beatitudini” dall’Amico della “gente di cattiva reputazione”, ed ancora intatta. Quella esperienza che ha riempito la nostra vita e le ha dato un senso indimenticabile, è l’unica leva da cui il mondo e la chiesa devono ripartire se vogliono essere custodi del futuro.
Felice Scalia