Frammenti di vita raccontati dai pretioperai


 

Subito dopo i fatti e i misfatti dell’incontro dei G8 e degli scontri di piazza a Genova, sono partito per la Bolivia. Mi portavo dietro l’amarezza e la confusione di quelle giornate; un senso di sconfitta, e di oppressione; la oscura sensazione di malessere che – no, non potevo davvero immaginarlo neppure lontanamente! – sarebbe esploso in modo inimmaginabile e terrificante pochi giorni dopo il mio ritorno in Italia, a New York.
Avevo iniziato a pensare ad un viaggio in America Latina un anno fa. Mi sentivo stanco, ma soprattutto incrinato da un venir meno di energie che fino ad allora mi avevano aiutato nei momenti difficili. Lo avevo avvertito come un invecchiamento irreversibile che non mi avrebbe più consentito di viaggiare con quella libertà che ogni volta si colorava di avventura. E mi era venuto in mente di metter piede – almeno una volta – in una parte di quell’America Latina di cui ho letto molto e cui devo così tante cose a cominciare da tutta una storia di ribellione e di liberazione.
Così decisi per la Bolivia.
Avevo sentito parlare Tarcisio, un francescano conosciuto nei giorni della mia venuta a Viareggio e, da venticinque anni ormai, impegnato in una lotta continua per la salute e la dignità dei Guaranj del Chaco boliviano e non solo. Chiesi di poter essere ospitato da lui, curioso di una presenza missionaria capace di prender distanza dal “convento” (originario luogo di incontro di religiosi) per vivere nella dimensione quotidiana della vita di un popolo.
Ho avuto la fortuna della compagnia di Laura, una giovane amica dottoressa, con cui ho condiviso soprattutto gli itinerari di “scoperta” del paese passando dall’aereo al taxi, per finire a quella ansimante, ma inarrestabile rete di comunicazione che è costituita da un insieme variopinto di bus e di bussini: la mitica “flota”!
I 4000 metri di Potosì furono la prima meta. E nel salire dai 3000 metri di Sucre mi si aprì davanti agli occhi quel mare di montagne, vallate, estesi altopiani che è la Bolivia. Tre volte più estesa dell’Italia, una popolazione che da vent’anni oscilla intorno agli otto milioni di abitanti: petrolio, allevamenti, foreste, giacimenti, una piccola, ma rispettabile attività turistica, ecc. ecc., insieme, a mortalità infantile, malnutrizione, analfabetismo, miseria, ecc. ecc. Problemi di base come quello dell’acqua potabile, di abitazioni appena decenti, di una istruzione minima per tutti, si trascinano da anni senza sostanziali differenze. Come una persona che esternamente sembra normale, ma che non sta in piedi per una qualche grave emorragia interna: ricchezze del paese svendute per pochi dollari alle potenze economiche mondiali dominanti, con “maz-zette” miliardarie a pro di una classe politica corrotta che mangia e beve dei beni di tutti. Un paese sfruttato da secoli, da quando l’Europa intera tra il sedi-cesimo e il diciottesimo secolo sopravvisse attaccata a quella inesauribile mammella d’argento costituita dal Cierro de Potosì: un cono ormai tutto buchi come un formaggio assalito dai topi. La montagna si innalza fino a 4500 metri sopra un borgo intristito che fu la terza città più popolata del mondo dopo Parigi e Londra e da cui all’inizio del ‘600 fu calcolato essere stato estratto tanto argento da costruire un ponte ideale fino a Madrid utile, per portarvi sopra a dorso di mulo, tutto l’argento che presumibilmente era ancora nelle sue viscere­.
San Xavier è oggi un piccolo villaggio circondato da vasti appezzamenti di terreno a pascolo per allevamenti da favola.
Mezza giornata di auto da Santa Cruz, città ricca anche di narcotraffico ed insieme miserabile nelle estese periferie abbandonate a se stesse. Eppure, San Xavier non è solo rinomata per l’unica fabbrica di formaggio della regione, ma una meta turistica per la grande chiesa e il convento delle missioni del 1600 organizzate secondo canoni di rigida imprenditoria produttiva, di benessere materiale e di istruzione spirituale. Regolatrice di scambi per cui alla famiglia andava casa, lavoro e residenza intorno alla plaza e alla missione i figli, introdotti in un sistema scolastico e di iniziazione al lavoro che sfornava nativi insieme cristiani ed abili operai e finì per destare l’opposizione durissima di chi vedeva in loro unicamente mano d’opera schiava a costo zero. L’ambiente reale del film Mission, girato altrove per motivi di spettacolo.
A Camiri, città petroliera ai Confini con l’Argentina, un cippo eretto per la gloria dei militari che condussero operazioni repressive contro la guerriglia, ci ricorda che nella fitta boscaglia fu catturato Che Guevara. La “strada del Che”, la casa dove “il Che si fermò per far mangiare i suoi uomini”, i ricordi popolari di una storia rimasta come un episodio di una lunga serie di sconfitte e di umiliazioni che hanno ridotto la popolazione Guaranj a vivere in piccoli gruppi di non più di 200 persone. Piccole comunità disseminate lungo percorsi impossibili, campi profughi di generazione in generazione, gente crocifissa ad una condizione servile, fuori delle città. E nella città di La Paz si avvicenda al potere un giovane vicepresidente perché il presidente in carica è affetto da tumore allo stadio terminale: Panzer sta morendo. Ma non muore con lui, eletto “democraticamente” vent’anni dopo, il ricordo dell’operazione Condor, la terribile morsa anticastrista in cui l’amministrazione statunitense strinse l’intera America latina negli anni ’70. E di cui Panzer fu esecutore fedele e sanguinario, dittatore della stessa Bolivia. Di fronte all’Isola del Sole, in quella meravigliosa porzione d’oceano proiettata a oltre 4000 metri di altezza dal balzo preistorico della Cordigliera Real e delle montagne circostanti, ancora emerge dalle acque salate del lago Titicaca la famigerata Isola della Luna, luogo di detenzione, violenza e morte per tantissimi oppositori dei regimi dittatoriali dell’America Latina. Tristissima camera della morte per prigionieri politici di quegli anni infami.
Dai resti archeologici del Titicaca e della pianura di La Paz, emerge una civiltà antica, i cui resti imponenti nelle muraglie di pietra non possono far dimenticare che si parla per gli Inca di un’opoca in cui l’Europa fioriva di ben altro spessore. Ma ciò che impressiona è l’idea che emerge dai reperti di un popolo che si pensava al centro del mondo, pronto a far vela e a conquistare la terra. Proprio nel tempo in cui fu conquistato. Oddio, è vero, si dice, “scoperto”…
Ho incontrato, lungo il percorso, uomini e donne del nostro continente. Alcuni, amici da sempre e da anni in Bolivia. Altri, con una storia più recente. Altri ancora conosciuti là. Mi è sembrato di ripercorrere l’itinerario dei pretioperai con tutte le nostre differenze, anche molto eclatanti, lo stesso sforzo per entrare in un mondo altro. La stessa sorpresa nel rileggere il vangelo con gli occhi, la parola e soprattutto una esperienza di vita “altra”. Le stesse difficoltà a convivere in una chiesa ostinatamene identica a se stessa, sostanzialmente chiusa nella pretesa di vera ed unica prassi come la borghesia nelle proprie abitudini e nei propri rituali. Personalità splendide, ricchezze umane incalcolabili racchiuse nel ventre di una storia quotidiana fatta di percorsi infiniti, per strade dove tutto si consuma, in piccolissimi rivoli di incontri, scontri, tentativi, progetti… anche solo quello di condividere tetto e tavola con chi in quelle terre è di casa da migliaia di anni. Gli stessi problemi di solitudine, la stessa fatica del riconoscimento e del riconoscersi, lo stesso desiderio di sentirsi parte della stessa responsabilità del farsi ponte. Sacerdozio di uomini e donne perché l’umanità sia umana e dia compimento alle promesse antiche. Fili di un percorso che mi riconsegna alla mia storia personale che vive ora con fiducia un lungo tempo di vuoto; terra rivoltata dall’aratro degli eventi che attende di essere fecondata da nuovi semi mai prima d’ora accolti.

Luigi Sonnenfeld



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