Frammenti di vita
Conosco cosa significa veder saltare il proprio posto di lavoro, ho conosciuto l’esperienza del licenziamento personale, ho vissuto il fallimento di un’azienda… sono stato in cassa integrazione.
Quante domande in quei giorni, quanti interrogativi, quanta amarezza per l’oggi e quanta inquietudine per il domani. Ricordo che la conversazione tra compagni di lavoro ruotava intorno al senso di impotenza, al sentirsi usati e gettati, alla frustrazione per la non efficacia di ogni protesta, al venir meno del già fragile senso del collettivo.
In chi avere fiducia? Mi ritornavano alla mente espressioni di salmi, in particolare: “Quando sono scosse le fondamenta, il giusto cosa può fare?” (Salmo 11, 3).
Per troppo tempo nel Nord-Est si è fatto dello slogan “Finché la barca va, lasciala andare”, un modello di sviluppo basato quasi esclusivamente sul lavoro delle braccia, poco su formazione e investimenti. Ora al capitale “conviene” andare altrove e chi rimane qui viene scaricato sulla collettività.
Interessi privati, costi collettivi. Un modello che ha trovato terreno fecondo sul fatto del “mito” del lavorare: per troppi è l’unica maniera per occupare il proprio tempo! Lavorare tante ore: non importa lo sfilacciarsi delle relazioni ridotte spesso a consumare divertimento; non importa non avere tempo per leggere, pensare, pregare.
La sensazione è che siamo solo all’inizio di una emergenza: non è sufficiente intervenire nelle emergenze. Occorre favorire, riprendere la normalità di un riflettere insieme sul lavoro, sul suo senso, sulla armonizzazione sempre da fare con il tempo libero, la vita in famiglia, la presenza nel territorio, la maturazione personale, la presenza nella comunità cristiana. Il lavoro rimane una componente importante della vita ma non esaurisce, non può esaurire la vita.
Inoltre non è un fatto privato ma riveste una dimensione sociale. Abbiamo lavorato e lavoriamo per “quattro schei” e ci si sente dire che “tu non devi pensare, qualche altro pensa per te…”. Davanti poi alla scoperta fatta con qualche paura che l’uomo e la donna che lavora è “risorsa umana”, se servono solo braccia si va altrove.
Penso a chi sulla propria pelle sta vivendo questa situazione e sento con loro tutta la tristezza e la preoccupazione. So che non bastano gli ammortizzatori sociali: il diritto-dovere del lavoro va esercitato.
So che la precarietà ingenera paura e diffidenza: l’altro, l’altra diventa facilmente un antagonista. Tanto più se l’altro, l’altra è un immigrato venuto (chiamato) come forza lavoro. Questa situazione rischia di aumentare rifiuto e ostilità nei confronti di queste persone sentite ancora di più come invadenza. Ora che la torta si fa più piccola come reagiamo?
Come credente e appartenente a una comunità di credenti sento l’urgenza di vivere e di porre gesti di solidarietà, di condivisione, di educazione al guardare l’altro come uomo e fratello, donna e sorella, di sostenere, gli strumenti di rappresentanza sociale. Per essere veramente “padroni” della propria vita occorre crescere in cultura, in amicizia, in solidarietà. Accetto con voi la sfida.