Lettere di due pretioperai ai propri vescovi



1.
Giancarlo Ruffato


Padre,
nell’incontro di martedì scorso 4 maggio ’93 con il Vicario Generale, che mi diceva di parlare a suo nome, mi sono state fatte tre proposte di cambiamento di prospettive nella mia vita di uomo, di credente e di prete al lavoro, che mi hanno fatto riflettere a lungo, pregare e un po’ perdere la tranquillità e il sonno. Vorrei semplicemente sottoporle alcune considerazioni, che non mi sono state possibili al momento dell’incontro e che sono il frutto di una serie di consultazioni con amici, compaesani, compagni di lavoro, confratelli e soprattutto di questi ultimi vent’anni di esperienza.
Anche se sono prete da venticinque, è da allora che non faccio i conti con decisioni altrettanto impegnative, riguardanti i rapporti con l’istituzione diocesana. Dico subito che resto ancora sotto l’impressione e lo sconcerto del metodo e del modo di considerare la mia persona e la mia vita vissuta, come se si trattasse di dover dimenticare in fretta tanta parte di essa, qualsiasi siano le esigenze, pur gravi, dell’assetto organizzativo della diocesi. Ma non mi preoccupa tanto questo, dato che ogni struttura organizzata ha le sue scadenze e non può permettersi di andare tanto per il sottile, pena una grave perdita di efficienza e di tempestività.
Sono alla ricerca di comprendere bene le motivazioni che fanno sì che mi si chieda obbedienza, di fronte a tre proposte a senso unico, “lasciare” o almeno mettere tra parentesi il lavoro, i lavoratori e le loro realtà vissute (che è per me come l’acqua per i pesci rossi) e buona parte della mia vita, per “rientrare” nella pastorale parrocchiale, con il motivo che i parroci sono sempre meno. Mi è venuto spontaneo pensare che, per l’organizzazione, esistono solo le figure del prete burocrate e del prete parroco; che non possano essere considerati ambiti umani diversi, realtà più complesse, dove vivono e operano dei cristiani.
Mi pare dovrebbe perciò essere presa sul serio l’esigenza di pensare figure diverse di servizi e di presenze, più legate agli uomini, che non all’assetto organizzativo. La mia esperienza di prete tappabuchi e in continuata disponibilità a tante richieste di sostituzioni e di sostegno a preti soli, a volte ammalati, a volte in crisi, troppo vincolati a uno stesso paesino di questa nostra zona, mi dice, che è limitante coprire tutti e solo gli spazi parrocchiali, se poi le persone vanno in crisi per non riuscire a sostenere il loro incarico o si esasperano i rapporti, anche tra preti, nei confronti e negli antagonismi. Mi pare un’esperienza forte la mia, con indicazione di eventuali nuove strade per il riassetto organizzativo del clero.
Vorrei proprio non perdere l’amicizia con il mio attuale parroco, a cui mi lega una solidarietà e una pena, per vederlo inserito in un posto non adatto e al di sopra delle sue energie, e solo. Non ho aspirato a sostituirlo, l’ho ascoltato e con lui gli altri preti della mia zona; forse sarebbe bene dialogare, avvertire e concordare soluzioni con tutti loro e non sulle loro teste, dato che viviamo nella stessa realtà, pur nella fatica. Essi mi dicono di non essere stati coinvolti. Sappiamo bene che la fede o ha queste dimensioni molto umane e solidali o arrischia di diventare un ruolo obbligato e un lavoro senza anima.
Ho provato a pensare alla mia vocazione di parroco e sinceramente non mi sono sentito “chiamato” in nessun modo (anche invocando un aiuto dall’alto) per cui mi è nato uno smarrimento, che mi ha suggerito l’idea che l’esperienza dei Preti al Lavoro va ben aldilà della sua validità storica e strategica. In questo senso potrà finire il modo, ma non la necessità di persone ben radicate nel sociale e nel politico, in modo tale da essere libere per la fede, che è gratuità e non lavoro parrocchiale stipendiato e sicuro, efficiente e controllato dalle statistiche. Mi pare di essere ancora alla ricerca di una libertà forte che renda possibile la fede come dono libero, come gesto umanamente carico, mentre le troppe scadenze obbligate e necessitate, anche dalle richieste dei “fedeli”, sono spesso di ordine sociale, politico, di prestigio e di paesanità localistica, di cui il prete è parte integrante, e oggetto di campanilismi. Il binomio fede e parrocchia non sempre è automatico, anche per il sovraccarico di attese e di richieste, che questo periodo di assenze politiche porta con sé. È certamente mio dovere far presente al mio vescovo che non ho nessuna intenzione di disubbidire, né di cercare contrapposizioni (e ne è garanzia il fatto che sto perdendo il mio buonumore), ma ritengo mio dovere morale fargli presente che forse non sarei un suo rappresentante affidabile, un suo “incaricato” fedele, senza grossi rischi di fare male le cose di cui sono poco convinto e che mi trovano lontano da tanti anni. Fatico a pensare anche un doppio ruolo, lavoro e parrocchia, con la possibilità di far male e l’uno e l’altra, non rispondendo alle attese contrastanti degli uni e degli altri. Mi mancano da tempi lunghi i rapporti e le relazioni con il centro diocesi e soprattutto mi manca la mentalità dell’esecutore fedele e del rispetto dei meccanismi di conduzione di una comunità, avendo scelto un cristianesimo di minoranze, da “piccolo gregge” che vive di emarginazione. Sono stato a servizio spesso dei “lontani” e degli emarginati, che la normale organizzazione non prevede o non riesce a inserire nei programmi. Devo molto alla loro sensibilità e alla loro ansia di ricerca, quella della pecora “perduta” più che quella “delle 99”.
Se riconfermo la mia disponibilità, contemporaneamente è mio dovere far presenti le mie competenze e soprattutto le mie conoscenze specifiche e insieme i miei grossi limiti. Da quasi diciotto anni ho fatto ricerca e studio di questo ambiente e di questo territorio, ho cercato di rifare la storia di questa popolazione, ho scelto i più sprovveduti e i più poveri sia tra i lavoratori, i contadini e anche spesso tra i suoi preti. Vorrei proprio poter continuare a essere a servizio loro, per i quali mi sento davvero chiamato, e a cui voglio davvero bene. Non le dirà granché, ma il gruppo “El solzariol” è nato con questo spirito. Considero don Gianni Gottardi più vicino del mio stesso padre, che ho perduto giovanissimo, ed è in suo nome che è nato un “Centro Culturale” che ne continua il pensiero e le iniziative, sopratutto a servizio dei preti di questa nostra diocesi, perché ritengo doveroso valorizzare meglio queste figure di grandi uomini di fede. Cammino da sempre con il Gruppo dei P.O. nazionale e del Veneto, con il Prado diocesano e con altri gruppi di preti, che insieme ripensano la loro vita e la loro fede. Seguo le Acli e il gruppo che cura il Centro di Ascolto, dei gruppi di ragazzi e di adulti, che leggono insieme il Vangelo. Sono stati tutti parte importante della mia vita di prete e non potranno non esserlo in futuro, insieme con i preti della zona. Anche a loro nome, avendoli consultati, mi sembra urgente una convocazione da parte sua di un incontro, per inserire le decisioni che mi riguardano, in un contesto locale più ampio, che ha tanti motivi per domandare la partecipazione di tutti. Non saprei inserire nella mia vita così dilaniata, altri motivi di impegno se non a scapito della preghiera e di un po’ di riflessione.
Sono certo che tutto ciò mi configura e mi caratterizza e non può essere facilmente cancellato o nascosto. La mia timidezza, la mia pigrizia e la mia frequente indecisione, fanno parte di questo conto. Tuttavia non esito a chiedere rispetto per questa storia, per questa parte della mia vita e per i miei amici, né vorrei confondere l’obbedienza con la costrizione a far promesse di sradicamento dal territorio e dal lavoro, dalla mia gente e dai più sprovveduti, che non potrei accettare senza entrare in conflitto con la mia coscienza, sapendo di non poterle mantenere. Non saprei proprio come dire ai poveracci e agli anziani per i quali lavoro, che il mio Vescovo non mi vuole con loro. Ho inoltre un contratto di lavoro, che mi lega per un periodo lungo, non essendo né facile né immediata una sostituzione.
Domando di poter riflettere, di poter capire, di poter maturare alcune cose che non ho chiare, che suppongo anche non siano state fatte conoscere a lei, a cui chiedo di poterne parlare con semplicità e fiducia, cosa che la settimana che mi è stata concessa, per tagliare netto con le mie esperienze precedenti, non può permettere di realizzare. Mi sono permesso di scriverle, invitato da lei in altra occasione, anche perché mi è più facile e mi permette di ripensare le cose dopo averle condivise con amici, preti e laici. Mentre resto in attesa, assicuro il ricordo al Signore e invoco lo Spirito, di cui tutti abbiamo necessità nel dono del discernimento. Con affetto.

Giancarlo Ruffato


 

2. Piero Montecucco

Un preteoperaio di Voghera (Pavia), in seguito alla richiesta da parte del suo Vescovo
di diventare parroco, gli ha scritto questa lettera
.

Ecc.za Rev.ma,
Ho ricevuto la Sua lettera di cui La ringrazio.
Nel breve incontro del 1° novembre scorso all’ospedale di Varzi non ho ritenuto di rispondere al Suo invito, e naturalmente ora è necessario che Le chiarisca la mia posizione.
Quando ho iniziato a lavorare come operaio 22 anni or sono, ero spinto da motivazioni molto forti e ben ponderate. Non è stata una scelta di comodo, né il desiderio di fare una esperienza diversa, per curiosità o spirito d’avventura.
Erano motivazioni soprattutto di ordine spirituale e teologico, cioè di fede, che mi spinsero a condividere la condizione operaia, la povertà tipica della nostra epoca, dove l’uomo viene sfruttato, privato della sua libertà, spesso vi si ammala, talvolta vi muore. Io ho inteso realizzarmi in questo modo come cristiano e come prete. Quella scelta di 22 anni fa per me è valida anche oggi, la riconfermo con altrettanta convinzione, non ne sono pentito, ne ringrazio il Signore.
Nel corso degli anni sono maturate anche delle situazioni che mi hanno cambiato profondamente, specialmente a riguardo del mio rapporto con la Chiesa istituzionale. Io sono diventato prete con Papa Giovanni XXIII in pieno clima conciliare. E il Concilio ha aperto il cuore del mondo e anche il mio a grandi speranze.
Ora Lei può immaginare la delusione che è andata crescendo ne! corso degli ultimi decenni, nel constatare che quelle speranze non si sono realizzate, anzi c’è stato tutto un cammino all’indietro. Per farla breve, sono tante le cose su cui non mi trovo d’accordo con la Chiesa: dalla condanna della teologia della liberazione al soffocamento di ogni dissenso, dalla condanna della contraccezione alla legge del celibato dei preti, dal concordato con lo stato e conseguente normativa per il sostentamento del clero …
Mi sento profondamente solidale coi tutti quei vescovi e preti che sono stati e sono colpiti dalla condanna, dalla disapprovazione, dall’emarginazione da parte della Chiesa: Helder Camara, Pedro Casaldaliga, Franzoni, Lutte, Girardi, Gauthier, Boff…
Ma soprattutto ciò che non riesco a capire ed accettare nel magistero e nella vita della Chiesa è la sua posizione in campo politico e sociale. Mi fa molto dispiacere vedere la Chiesa sostenere un sistema politico e sociale (il capitalismo) che è fondato sull’ingiustizia, sullo sfruttamento dei più deboli da parte dei forti, sulla riduzione alla miseria di miliardi di persone nel Sud del mondo, un sistema di “usa e getta” nei confronti della persona umana.
È vero che la Chiesa a parole sta con i poveri, ha fatto le encicliche sociali, il Papa continua a parlare dei “diritti dell’uomo”. Ma Gesù direbbe: “Dicono ma non fanno” (Matteo 23,3).
Perché le azioni contraddicono le parole. Il legame della Chiesa all’impero capitalistico le offre indubbiamente grandi vantaggi materiali, ma nello stesso tempo le impedisce di “fare concretamente” (= essere segno efficace), e non solo di proclamare a parole, la verità e la giustizia.
Le ho detto queste cose non per atteggiarmi a giudice né per giustificarmi, ma solo per dirLe quali sono le mie convinzioni. Ecco, per darLe un segno di quanto siamo distanti, Le porto questo esempio: la comunità Diocesana ha celebrato il Sinodo, con una preparazione durata alcuni anni, coinvolgendo diverse centinaia di persone, preti, religiosi, laici; sono state istituite 10 commissioni preparatorie. Ebbene, nessuna di queste commissioni riguardava la questione sociale e i problemi del mondo del lavoro. Questo vuol dire che ciò che per me è ragione di vita, per la Diocesi è insignificante, di nessuna importanza!
Accolgo il Suo appello alla responsabilità. È vero: ognuno deve assumersi la propria responsabilità davanti a Dio e davanti agli uomini. Ma io non posso assumermi una responsabilità che non è mia, perché, per grazia di Dio, sono su un ‘altra strada.
Mantengo il legame dell’Eucaristia perché credo nella presenza di Cristo e nell’azione dello Spirito nella mia vita e nella vita degli uomini. Ed è anche questa fede che mi fa sperare che le nostre differenze, divisioni, incomprensioni umane possano essere superate nella verità.
Le ricambio la preghiera e La saluto cordialmente.

don Piero Montecucco


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