Immagini di Dio


“Non si può più tornare indietro
rispetto a ciò che si è elaborato autonomamente.
Ciò può essere scomodo per gli altri
e anche per se stessi”. (Bonhoeffer)

Premessa

 
Penso che il credente sia sottoposto ad una doppia obbligazione:
• non nominare il nome di Dio invano e
• necessità di nominarlo.
Contestualmente, mentre scrivo queste note, sono sotto la pressione di un interrogativo e di una affermazione, L’interrogativo lo trovo in Bonhoeffer in uno degli ultimi scritti che ci ha lasciato: “che cosa crediamo veramente? in modo tale cioè da dipenderne con la nostra vita?”.
L’affermazione è di Martin Buber: “si può parlare con Dio; non si può parlare di Dio”. La consunzione alla quale sono sottoposte le parole, e tra tutte la parola Dio richiede un rinnovato tentativo di superamento, che passa anche attraverso l’esposizione personale di chi prende la parola per nominarLo.

“(Dio) è la parola più sovraccarica di tutto il linguaggio umano. Nessun’altra è stata tanto insudiciata e lacerata. Proprio per questo non devo rinunciare ad essa. Generazioni di uomini hanno scaricato il peso della loro vita angustiata su questa parola e l’hanno schiacciata al suolo; ora giace nella polvere e porta tutti i loro fardelli. Generazioni di uomini hanno lacerato questo nome con la loro divisione in partiti religiosi; hanno ucciso e sono morti per questa idea e il nome di Dio porta tutte le loro impronte digitali e il loro sangue… Non possiamo lavare di tutte le macchie la parola «Dio» e nemmeno lasciarla integra; possiamo però sollevarla da terra…” (Buber M., Eclisse di Dio, Milano 1983 p. 30-31).

Per salvare, almeno in parte, le mie parole dalla caduta nel generico e quindi dal rischio della irrilevanza comunicativa, intendo riferire due momenti della mia vita, che io non posso non considerare come “eventi” che hanno irrimediabilmente segnato il mio “pensare Dio” e il dialogo segreto che accade nella assoluta singolarità dinanzi a Lui.

 

Evento come realtà improvvisa e rivelativa

 
Due momenti della mia vita: il primo è capitato come una tegola sul capo; l’altro è avvenuto con la mia complicità.
• Avevo 12 anni quando in 3 giorni è morta mia madre di malattia. Nessuno ha saputo dire come mai la cosa era accaduta. Sbocciava la primavera. Il profumo dei giacinti mi ha sempre ricordato quei giorni. In una parte profonda di me era per sempre finita l’infanzia: quella del mio rapporto infantile con Dio. In quella mattina, seduto in casa di vicini, mentre il corpo di mia madre, ormai senza vita, veniva inutilmente condotto all’ospedale, ho invocato il dio che fa i miracoli, quello che mi avevano insegnato. Mi sembrava impossibile che non mi ridonasse mia madre, che non esaudisse quel mio bisogno che io sentivo assoluto, dato che Lui poteva farlo.
Nei mesi successivi ho imparato che la morte è assenza, silenzio, della persona, che era una parte di me. Vuoto. E Dio? Per la prima volta – credo – mi sono coscientemente rivolto a Lui. Però la sua risposta coincideva in tutto con l’assenza di mia madre. Questa assenza mi ha orientato – o meglio, da questa assenza sono stato indotto – a cercarlo altrove. Da allora l’immagine del dio dei miracoli si è perduta nella mia mente; ha cominciato a perdersi per sempre. E non vi è alcun rimpianto di quella immagine, di quel fantasma.
Dio non ha mai deviato la traiettoria di un proiettile che sta per colpire un bambino. Se è vero che “anche i capelli del capo sono contati”, è pur vero che se un potere umano vuole strapparli nessuna “legione di angeli” si muove per impedirlo.
• L’altro momento – durato 10 anni – è avvenuto con la mia complicità perché coincide con la prima esperienza di lavoro nell’Ospedale Psichiatrico di Mantova. Lo riporto come l’ho descritto tanti anni fa nella parte che interessa direttamente il discorso che sto facendo:

“La visione quotidiana di una massa di persone ridotte ad oggetti, senza la possibilità di esprimere una loro residua soggettività, unita alla percezione che la quasi totalità non avrebbe mai conosciuto una diversa qualità della vita (oltre che un oscuro senso di impotenza) determinava in me quesiti che toccavano il cuore del mio credere: che senso hanno queste esistenze, molte delle quali sono segnate per sempre nella impossibilità del cambiamento? Chi restituirà la vita a quegli infelici?
Da allora per me la fede ha preso il volto di una “giustizia che deve compiersi”, che assolutamente non può mancare. In quel “luogo teologico” riscoprivo Jahvé, il difensore dei poveri e degli oppressi, un Dio non neutrale che assume pienamente in sé la causa di chi è negato nella propria esistenza umana; guardavo con occhi nuovi Gesù crocifisso: la tragedia della quale ero testimone, con il suo carico di oscurità e non senso, quasi istintivamente mi riportava al silenzio di Dio sulla croce e a quella morte così simile e prossima a quanto anch’io vedevo consumarsi. Anche se non facevo nulla di sacerdotale, però quella situazione, che io condividevo solo in minima parte perché consideravo la mia libertà e capacità di difesa, sentivo profondamente vero il messaggio delle beatitudini e il Regno di Dio promesso ai poveri”.

Certamente questi due eventi sono rimasti presenti in me. La forte impressione lasciata ha agito in profondità, accompagnandomi nell’interrogazione e nella ricerca, nelle letture e nelle parole che hanno dato forma al mio credere.

 

Crisi della teodicea

 
Un fatto vero, accaduto ad Auschwitz e narrato da Wiesel, nel dopoguerra è stato assunto da numerosi autori come punto di riferimento nel tentativo di pensare Dio. Tra la massa dei prigionieri schierati per assistere all’ennesima esecuzione, si sussurra la domanda: “dov’è il buon Dio?”. Dinanzi all’angelo dagli occhi tristi, un bambino appeso alla forca con altri due condannati, in un’agonia che si prolunga tanto da sembrare eterna, si ripete: “dov’è Dio?”. Una voce risponde: “Dov’è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca” (Elie Wiesel, La notte, Firenze 1980, pp. 66-67).
La voce che risponde non è quella dell’autore, testimone dell’evento. È una voce che sgorga dall’interno, da parole lontane che si sono tramandate. Proviene da quella tradizione ebraica che vuole Dio sofferente con il suo popolo. A questa tradizione si riferisce il filosofo ebreo H. Jonas in una provocatoria conferenza dal titolo significativo: “Il concetto di Dio dopo Auschwitz” (Genova 1990), nella quale l’antico interrogativo posto da Giobbe a Dio, a fronte del nuovo eone apertosi con la Shoah, “riceve una risposta diametralmente opposta a quella del libro omonimo della Bibbia (Giobbe) . …Mentre essa si richiama alla pienezza della potenza del Dio creatore, la mia si richiama alla sua rinuncia alla potenza… Anche questa, a me pare, è una risposta a Giobbe: il fatto che in lui Dio stesso soffre”.

Nell’introduzione C. Angelino, il curatore della edizione italiana, così commenta il sovracitato testo di Wiesel (Dov’è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca) “Una risposta blasfema? O piuttosto una parola che ci consente di penetrare nel mistero di Dio e di coglierne un aspetto che solo l’inaudita provocazione della sua bontà assoluta, consumata ad Auschwitz, poteva rendere manifesto? Il bambino che resta nel silenzio, che non grida come Gesù sulla croce la sua disperazione, non rivendica come gli altri due impiccati la sua umanità, è una cifra dell’assoluta impotenza di Dio, cioè della sua impossibilità di intervenire nella storia del mondo. L’innocenza del bambino è l’immagine della bontà incondizionata di Dio, ma anche della sua altrettanto radicale impotenza. Né il bambino né Dio conoscono il male, privilegio della libertà umana” (Jonas H., ”Il concetto di Dio dopo Auschwitz” , pag. 39, Genova 1990).

I concetti classici di onnipotenza, di immutabilità, impassibilità che la teologia ha incorporati quali assolute caratteristiche di Dio vengono negati in funzione del Dio biblico, “un Dio che rischia in proprio”. “Heschel chiama tale situazione pàthos di Dio… coglie Dio nella sua vulnerabilità di fronte agli eventi, alle azioni dell’uomo, alla sofferenza presente nella storia… Egli soffre perché ama ardentemente il suo popolo” (Moltmann, Il Dio crocifisso, Brescia 1973, pp. 318-320).
Un tale discorso non è rimasto confinato nell’ambito della sola tradizione ebraica. Lo troviamo, invece, presente anche nella teologia cristiana, connotato inevitabilmente dalla qualificazione cristologica, ed anche trinitaria, correlato all’evento decisivo e rivelativo del Golgotha. Numerosi autori cristiani hanno assunto lo scandalo della kénosi quale autentica modalità di rivelazione e presenza di Dio nel mondo.
La storia del dopoguerra non ha indebolito le domande sorte nel contesto della Shoah degli ebrei. L’eccesso di sofferenza umana provocata dalla violenza distruttiva ripetutamente messa in atto in altri contesti (ad es. Bosnia, Rwanda…) fa nascere sempre di nuovo ed in labbra diverse l’interrogativo: Dov’è Dio? (Cfr. Concilium 4/1992: Dov’è Dio? Un grido nella notte) .
Per chiudere questo aspetto riporto una citazione di Dossetti: “Bisogna riconoscere che c’è più teologia e più ermeneutica in libri come quelli di Wiesel, di quanto ce ne sia – mi si scusi l’enormità – in tanti teologi accademici e ottimisti” (Dossetti G. “Non restare in silenzio Dio mio”, Reggio Emilia 1988. p. 30).

 

Polifonia

 
È una metafora che ho imparato da Bonhoeffer, con la quale egli descrive la consistenza, il valore, della vita umana, nelle sue varie espressioni, pensata nel suo rapporto con Dio. Le voci multiple della polifonia sono immagini dello svilupparsi pieno delle autonomie umane (scrivendo all’amico si riferiva in prima istanza all’amore umano), fuori da tutele mortificanti di tutti i tipi, ma pure senza la separatezza da Dio (cantus firmus), senza il bisogno di negare quella che per un credente è la necessaria teonomia.
Polifonia: il cantus firmus è quella voce che rimane costante sul fondo, quale riferimento fondamentale, e si rapporta alle varie voci del contrappunto, richiedendo che ogni voce sia libera e creativa, nella correlazione con il tutto. Fuori dalla metafora, la polifonia sottolinea la necessità che i diversi livelli della vita abbiano una loro consistenza: non nella repressione di questo o di quello, o nella sopravvalutazione di un aspetto su tutti gli altri, avviene la polifonia. Questa metafora consente di affermare musicalmente che la vita è buona ed è un bene. E “Colui che solo è buono” non si pone in concorrenza o in alternativa con il bene della vita umana, anzi è Lui stesso a sostenerla e richiederla, come il cantus firmus si correla alle voci del contrappunto.

Bonhoeffer, Resistenza e resa, p. 373: “Dio e la sua eternità vogliono essere amati con tutto il cuore; non in modo che ne risulti compromesso o indebolito l’amore terreno, ma in un certo senso come il cantus firmus, rispetto al quale le altre voci della vita suonano come contrappunto; uno di questi temi contrappuntistici, e che hanno la loro piena autononia, e che sono relazionati al cantus firmus, è l’amore terreno”. Più avanti Bonhoeffer esprime la fondazione cristologica di questa metafora: “Dove il cantus firmus è chiaro e distinto, il contrappunto può dispiegarsi col massimo vigore. Per parlare con il Calcedonese, l’uno e l’altro sono ‘indivisi eppure distinti’, come lo sono la natura divina e la natura umana in Cristo. La polifonia in musica non ci sarà magari così vicina e importante per il fatto di costituire il modello musicale di questo fatto cristologico e dunque anche della nostra vita christiana?”.

Questa metafora esprime bene il superamento della scissione tra “ciò che riguarda Dio” e “le cose umane”, tra la dimensione cultuale e quella dell’azione responsabile. Il cantus firmus è presente nell’eucarestia che celebro, ed anche nel lavoro quotidiano come infermiere; quando opero nell’ambito ecumenico e quando cerco una soluzione concreta di tipo assistenziale per un malato. Non riesco ad attribuire maggiore importanza alle cose che riguardano la Chiesa rispetto a quelle che accadono nella storia concreta e che concernono la qualità della vita delle persone.
La fine della scissione è la fine del clericalismo, che per nutrirsi ha bisogno della scissione, ritagliando un pezzo di vita “sacra” e dichiarandolo superiore a tutti gli altri; ed ha bisogno di confinare Dio entro un perimetro ristretto, quello coincidente con il proprio orizzonte.
Ovunque e in ogni vita, al di là di ogni confine, può avvenire il contrappunto di voci che in qualche modo fanno riferimento al cantus firmus. Come ovunque, anche nei luoghi più sacri può avvenire la perversione e la distruzione della relazione polifonica.

Convinzione che esprimo così, in estrema sintesi: Dio buono non è in concorrenza con tutto ciò che rende buona e desiderabile la vita; mentre nelle tragedie di cui è piena la nostra storia, cioè in tutto ciò che è distruttivo della vita, Lui stesso condivide la nostra passione.
 

“E se Dio non mi aiuta più, allora sarò io ad aiutare Dio”

 

Così scrive Etty Hillesum (Diario 1941-1943, p.163). Questa ebrea olandese morta nel 1943 ad Auschwitz, prega così (p.169): “Mio Dio sono tempi tanto angosciosi… Cercherò di aiutarti affinché tu non venga distrutto dentro di me, ma a priori non posso promettere nulla. Una cosa, però, diventa sempre più evidente per me, e cioè che tu non puoi aiutare noi, ma che siamo noi a dover aiutare te, e in questo modo aiutiamo noi stessi. L’unica cosa che possiamo salvare di questi tempi, e anche l’unica che veramente conti, è un piccolo pezzo di te in noi stessi, mio Dio. E forse possiamo anche contribuire a disseppellirti dai cuori devastati degli uomini. Sì, mio Dio, sembra che tu non possa far molto per modificare le circostanze attuali, ma anch’esse fanno parte della vita. Io non chiamo in causa la tua responsabilità, più tardi sarai tu a dichiarare noi responsabili. E quasi ad ogni battito del mio cuore, cresce la mia certezza: tu non puoi aiutarci, ma tocca a noi aiutare te, difendere fino all’ultimo la tua casa in noi”.

È il rovesciamento del tipico atteggiamento religioso: quello che si esprime attendendo l’intervento di Dio, per ottenere la soluzione dei problemi, la guarigione, la difesa contro le disavventure della vita, la neutralizzazione dei nemici, la fine dell’ingiustizia…
Un conto è l’invocazione per essere forti nell’affrontare la vita nel bene e nel male, un conto è la richiesta della “soluzione” che provenga da interferenza diretta di Dio sulle cause che agiscono nella storia. A questo livello è la nostra responsabilità, e solo questa, ad entrare in campo.
Quando in una comunità sazia e borghese si leggono invocazioni dei fedeli del tipo “provvedi ai disoccupati e ai senza tetto”, “provvedi a tutti i poveri del mondo”, viene da chiedersi se si stia pregando o bestemmiando. Direttamente, come causa storica, Dio non provvede a nulla.
Un testo di Bonhoeffer mi ha aiutato a capire:

“Essere cristiano non significa essere religioso in un determinato modo, fare qualcosa di se stessi (un peccatore, un penitente o un santo) in base ad una certa metodica, ma significa essere uomini; Cristo crea in noi non un tipo di uomo, ma un uomo. Non è l’atto religioso a fare il cristiano, ma il prender parte alla sofferenza di Dio nel mondo. Questa è la metànoia: non pensare anzitutto alle proprie tribolazioni, ai propri problemi, ai propri peccati, alle proprie angosce, ma lasciarsi trascinare con Gesù Cristo sulla strada nell’evento messianico, costituito dal fatto che Isaia 53 si compie ora!” (Resistenza e resa, p. 441).

Non si tratta soltanto di riconoscere quello che è avvenuto una volta per tutte nell’esistenza di Cristo. Il punto consiste nell’affermare che la passione messianica attraversa l’intera storia e mantiene oggi la piena attualità. Tale attualità significa l’intero coinvolgimento del soggetto e delle comunità e l’abbandono di qualsiasi alibi religioso che avesse come effetto o la disattivazione della coscienza rispetto a precise responsabilità storiche e concrete, oppure il suo investimento in un circuito comunitario autoreferente e chiuso in se stesso.
Da quando la via hominis (la via dell’uomo) è diventata la via crucis di Dio, non si può stare accanto al Signore nella sua passione messianica se non per questa medesima via hominis.

In un testo nel quale Bonhoeffer analizza lucidamente dieci anni di nazismo, durante i quali “la grande mascherata del male ha scompaginato tutti i concetti etici” (ibidem, p.60) , così egli esprime la necessaria assunzione di responsabilità:  

“Pensare ed agire pensando alla prossima generazione ed essere contemporaneamente pronti ad andarcene ogni giorno, senza paura e senza preoccupazione… Può darsi che domani spunti l’alba dell’ultimo giorno: allora, non prima,noi interromperemo volentieri il lavoro per un futuro migliore” (ibidem, p.72-73).

 

Il nulla, la morte e Dio

L’azione nella storia deve contenere già in se stessa le proprie ragioni. Il bene fatto per il premio anche futuro, sottrae forza allo stesso bene: se vi è un interesse, è meglio che questo sia concreto, dichiarato e visibile. Nulla di peggio che far passare per gratuito qualcosa che è in qualche modo interessato.
Se è promesso un “tesoro in cielo”, a noi è sottratta la possibilità dì essere i ragionieri di tale tesoro: anzi, “non sappia la tua destra quello che fa la sinistra”.
Percezione del “nulla” oltre la mia morte. Strana sensazione di non paura del nulla e di relativa compiutezza di quello che ho vissuto. L’oltre, l’aldilà in fondo non mi “interessa” perché appartiene ad un Altro. Se vuole creare la vita dalle pietre è un problema suo… nel senso che dipende esclusivamente dalla sua assoluta bontà e dall’immancabile adempimento della sua promessa. Fede come incondizionato abbandono.
Chiudo con le parole di una delle ultime lettere di Bonhoeffer dopo che il fallito attentato ad Hitler segnava la sua probabile condanna:

“Non solo l’azione, ma anche la sofferenza è una via verso la libertà. La liberazione nella sofferenza consiste in questo, che all’uomo è possibile rinunciare totalmente a tenere la propria causa nelle proprie mani, e riporla in quelle di Dio. In questo senso la morte è il coronamento della libertà umana. Comprendere o meno la propria sofferenza come prosecuzione della propria azione, come compimento della libertà, questo determina se l’azione umana sia o non sia un affare di fede” (ibidem, 453).

Roberto Fiorini


Share This