Ricordando Emilio Coslovi (2)



Lettera del vescovo di Trieste

Caro don Gianni,
scrivo a Lei per tutti i pretioperai che hanno voluto partecipare alla liturgia di commiato da don Emilio ed hanno espresso a me le loro impressioni, il loro disagio e le loro osservazioni.
Ringrazio tutti di cuore. Mi dispiace di non aver accolto il vostro gruppo con amicizia e stima. Non è stata una volontaria disattenzione, mi creda e mi scusi.
Ho desiderato che don Emilio avesse una liturgia sobria, ma uguale a quella che celebriamo per ogni fratello sacerdote che muore.
Terrò ben presenti le considerazioni che mi avete esposto. Anche la mia vita è interpellata dalla esperienza vissuta da don Emilio. Ed anche per me ripensarlo sarà motivo di meditazione seria, e, se il Signore vuole, di conversione.
A Lei ed agli altri pretioperai, il mio augurio di pace ricambiato con fraterna gratitudine.

Eugenio Ravignani, vescovo di Trieste

Trieste, 13 febbraio 2002



Lettera al vescovo di Trieste

di Adriana Ruffato

 

Rev. Don Ravignani,
sono Adriana, sorella di un preteoperaio di Mestre. Ero presente sabato 19-01-2002 al funerale di don Emilio. L’ho conosciuto tramite mio fratello, e siamo subito diventati amici. Si andava spesso ai convegni dei pretioperai, ed altri incontri. Durante il viaggio ci coinvolgeva nei suoi problemi, nei suoi dubbi, nelle esperienze della sua vita. In particolare ricordo il ritorno da Rimini, dal convegno della Rete Radié Resch; mi aveva chiesto un passaggio fino a Mestre, e per due ore e mezza ci siamo scambiati impressioni, idee ed esperienze. Ancora una volta è emersa la sua inquietudine, la sua difficoltà di rapporti, la sua convinzione di persecuzione, ma anche la sua sincerità e semplicità, la sua coerenza ed il senso della giustizia.
Sono un’insegnante in pensione; i primi anni li ho percorsi all’Istituto Gris di Mogliano Veneto che in quel periodo (anni 1967-71) era una specie di ricovero indistinto: ragazzini, vecchi con problemi psichiatrici gravi dichiarati incurabili. Ho conseguito la specializzazione per l’insegnamento ai ragazzi portatori di handicap. Questo mi ha aiutato a conoscere come accostarmi alle difficoltà di convivenza delle persone sofferenti e difficili.
Noi siamo una famiglia di dodici fratelli, mia sorella che abita ad Osimo (AN) ha una figlia con handicap grave; questa situazione mi ha ulteriormente coinvolta ed ho cercato di aiutarla tutte le volte che si richiedeva il mio intervento. Ora mia nipote ha 24 anni, è in famiglia ed i genitori la seguono pur con tanta fatica.
Un’altra sorella, dopo la laurea, ha frequentato un corso all’Istituto Filo d’Oro nella sua città per aiutare con più competenza la sorella sfortunata e così potesse vivere con maggiore serenità. Gli specialisti avevano consigliato i genitori, quando la figlia aveva sei anni, il ricovero in Istituto; ha vinto l’amore per la figlia meno fortunata. Questo succede in tante famiglie a costo di sacrifici, precarietà ed anche emarginazione.
A costoro va dato il nome di “Padri”.
Quando ho visto quel giorno Lei in chiesa con anello, mitria e pastorale, simboli del potere e dignità che separa ecc…, cosciente che Emilio non desiderava celebrazioni solenni, mi sono chiesta se la comunione che tutti abbiamo fatto fosse vera, e se il vescovo e molti preti presenti si possano chiamare “padri”, discepoli del Padre che fa cadere la pioggia sui buoni e sui cattivi, ama senza distinzione il figlio “buono” e quello prodigo, non fa differenze tra Samaritani ed Ebrei. Disponibilità che non passa oltre, ma scende da cavallo per prendersi cura; usa compassione e pietà per il fratello bisognoso.
La mia conclusione è stata questa: una religione che non si ferma davanti all’uomo è inutile e dannosa.

 

Adriana Ruffato


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