Sono stato più volte sollecitato a scrivere una mia testimonianza – riflessione sul “clima” in fabbrica. La perplessità di esprimere giudizi, il solo tentativo di evidenziare fatti e tendenze mi ha sempre bloccato. E non solo perché la lettura del presente mi sembra complessa, sfaccettata (i “nuovi” operai / impiegati; le innovazioni; le nuove strategie della produzione-commercializzazione-organizzazione delle imprese; i rapporti tesi tra iscritti e organizzazione sindacale…). Forse anche perché sono stato tre anni fuori fabbrica (ho lavorato nello spaccio aziendale) proprio nel periodo del rinnovamento, delle nuove assunzioni e quando si affermava il bisogno di cercare strade diverse nelle relazioni industriali.
Riprendo appunti scritti di primo getto, episodi non datati perché non sono pagine di diario. Scritti in momenti forti di vita di fabbrica, quando la voglia di partecipazione, il bisogno di confrontarsi, di capire, di elaborare è limpido, pressante…
Rinnovo consiglio di fabbrica: un brutto segnale per i nuovi assunti
Senza discussioni e valutazione in assemblea ci troviamo dinanzi un nuovo metodo di elezione dei delegati (approvato dalla FULC regionale certamente nel 1988): inesistenti gli spazi di partecipazione. Siamo “esortati” a votare su lista unica, frutto di accordi interconfederali e di equilibri e/o spartizioni di settori ed aree produttive. “Che strane elezioni – mi sussurra una lavoratrice a contratto formazione – Vi è un solo candidato!”
Purtroppo il bisogno di democrazia non galvanizza. In giro si respira stanchezza, rassegnazione: “I giochi son fatti e le scelte già prese. Non è il caso di reagire”,
Il CdF ha avuto il suo rinnovo ufficiale; ma ai giovani assunti che per la prima volta partecipavano all’elezione dei delegati è stato dato un segnale negativo. È stata persa un’occasione per coinvolgere tutti facendo del rinnovo del CdF un momento significativo. La sterile consultazione separata (secondo le confederazioni) degli iscritti ha ignorato nei fatti che il rapporto lavoratori – sindacato e le forme di democrazia e rappresentanza sono un problema decisivo: possono arginare la frantumazione e rilanciare la solidarietà.
Sciopero per le morti bianche
In 8 giorni 3 operai morti nel comprensorio di Pomezia (Roma). Una strana coincidenza: in una zona con un accentuato insediamento industriale (più di 300 imprese) i livelli scientifici delle aziende di elettronica, informatica, farmaceutica prendono ossigeno da una miriade di piccole imprese legate all’indotto e al decentramento dei servizi. Un intreccio di commesse, contratti di appalto e subappalto che non mette in conto i costi della sicurezza e delle norme contrattuali. Il sindacato denuncia questa situazione e indice uno sciopero generale. La denuncia lambisce appena i cancelli delle piccole fabbriche dove sono morti i 3 operai. La paura del licenziamento è forte… Non si riesce a tirar fuori una parola sulle condizioni lavorative ed ambientali! Il silenzio vuoto, sterile copre tristemente il corpo e il ricordo di un compagno di lavoro…
Ma anche dalle aziende “sviluppate”, dove il servizio sicurezza aziendale colorisce l’immagine dell’azienda, viene una risposta debole, formale. Interessi personali e scarsa sensibilità giocano da freno alla solidarietà. “È giusto fare questo sciopero?” mi chiede un giovane a contratto formazione. Sorpreso, non raccolgo subito la domanda… Ci troviamo fuori sul piazzale d’ingresso, in pochi, Un breve, freddo comunicato letto da un delegato mi raggela. Provo a dire che l’estensione dello statuto dei lavoratori alle piccole imprese garantirebbe di più la sicurezza e il rispetto delle norme contrattuali. Ma questo riferimento non è gradito alle posizioni ufficiali ed unitarie del sindacato. Nei capannelli che subito si formano il discorso scivola, indisturbato, sui ‘grandi’ sogni: auto, video registratore, pesca e caccia.
Più che un ricordo
Inizia un’altra settimana: rientro in fabbrica preso dal richiamo forte, crudele della guerra del Golfo. Mi martellano le immagini dei bambini iracheni in fin di vita e la disperazione delle mamme: sempre il volto delle donne! Gli uomini non hanno forse neppure il tempo di piangere.
Alla prima sosta qualcuno sussurra: “Luciano se n’è andato!”. “Quanti milioni ha preso?”. “No! Se n’è andato…” e il gesto che accompagna queste parole scandite mi fa capire che Luciano non è più fra noi, colpito dal male inesorabile. L’ultima volta l’avevo visto nell’intervallo della mensa: riéntrava in fabbrica, al suo lavoro, al magazzino merci, dopo un panino e un bicchiere di vino. Così tutti i giorni; per più di 15 anni. Mai una volta a mensa, un pasto caldo… “Preferisco fare un giro fuori il ‘recinto’ – mi confidava – per una boccata di aria fresca, libera”. Dava uno sguardo al giornale e poi rientrava. I suoi 15 anni di fabbrica sono caratterizzati da una presenza religiosa, discreta, da una partecipazione di poche parole, ma profonda. Quando la vita sindacale, politica si animava, Luciano era lì con il suo volto sereno e gli occhi partecipativi, in silenzio…
Sono passati 8 giorni dalla morte di Luciano; devo attraversare il suo quartiere, San Lorenzo. Un istante e in modo nitido, forte, carico di emozioni avverto la sua presenza. Passo accanto alle stradine (via dei Volsci, via dei Sabelli) cariche di storia, di rivendicazioni, di aggregazione studentesca ed operaia, di sogni e di progetti: portano al cuore della città universitaria… Ora al suo volto si sovrappongono i ricordi di spezzoni di cortei, di pezzi di storia. E Luciano è lì; anche nelle ultime, rare occasioni, in un clima di normalizzazione e di fantasia frenata. “Umberto siamo in pochi! – e scuotendo rattristato il capo aggiungeva – occorre dare ai giovani più speranza”; convinto che la presenza silenziosa ha ugualmente una forte carica!
Congresso di comprensorio della FILCEA – CGIL
Come nelle assemblee di base, continua la contrapposizione delle 2 tesi; non c’è la volontà di accostarsi con attenzione alle diversità e di valorizzarle. Assisto ad un monotono e noioso coro di consensi alle tesi di maggioranza. Ad interrompere questa monotonia arriva la citazione ‘orecchiata’ della Centesimus annus. Non succede spesso ascoltare in un dibattito sindacale riferimenti ad encicliche o documenti papali. Ho avuto una strana sensazione: mi è sembrata una citazione acritica; un modo per abbellire il proprio intervento. Nessun sospetto che gli apprezzamenti della democrazia (tema centrale accanto a quello della solidarietà) e dei diritti civili hanno scarso riscontro storico nella prassi quotidiana della Chiesa…
Altra annotazione: registro con amarezza le pressioni sui prenotati ad intervenire; si chiede un giudizio positivo sulla relazione introduttiva, qualificandola “esauriente, puntuale, di grande spessore politico”. I delegati della mia fabbrica che non si sono attenuti a questo ricatto sono stati tacciati di “protagonismo velleitario”.
L’astensione è stata la mia scelta. Mi è sembrata l’unica praticabile, dopo essermi confrontato anche in comunità. Astenendomi dal votare l’una o l’altra tesi, ho cercato già nelle assemblee di base, di spostare l’interesse dal conteggio dei sì/no, ai contenuti, alle tematiche prioritarie, intrecciando percorsi concreti di persone e di storia vissuta e liberando nei fatti la capacità di verifica e di un pluralismo che parte dalle aspettative dei lavoratori.
L’astensione è stata giudicata una scelta rinunciataria; una decisione vicina, uguale all’astensione sul referendum del 9 giugno.
Poi l’elezione del Direttivo; la lista dei delegati ai congressi di ordine superiore: un lavorio di equilibrio, di tattiche, di compromessi. Nessun segno di cambiamento, immettendo nella struttura arroccata della gerarchia sindacale nuova linfa… Tutto è scivolato via placidamente, segno di un’intesa armonizzatrice tra componenti che conservano i propri spazi, relegando in zone ininfluenti chi non si allinea e non fa professione di fedeltà alle posizioni dei segretari di zona…
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Rinnovo del CdF, scioperi, assemblee, congressi. Mi accorgo che i ‘toni’ sono un po’ duri, le ombre forse eccessivamente fitte. Una professionale lettura pessimistica? So che quei momenti si stemperano nel quotidiano, dove inesorabili rimangono alcuni interrogativi:
* Come trovare il gusto di parlare, di confrontarsi con sincerità e passione per capire, per ridisegnare progetti di solidarietà?
* È possibile liberarsi, insieme, dal peso di una sconfitta storica e abbandonare la sterile rassegnazione che ci fa difendere, stranamente compiaciuti, l’esistente?
* Come riconquistarci (mondo del lavoro, sindacato, società civile) una capacità contrattuale che abbia al centro la questione dei diritti, della democrazia, della partecipazione, della solidarietà?
* Come valorizzare le diversità, superando ogni forma di contrapposizione? Su quali basi, con quali criteri mettere in piedi una prospettiva politica largamente unificante in grado di abbozzare una risposta storica ai problemi del mondo del lavoro e della società?
Spero che il tentativo di dare insieme ai compagni di lavoro qualche risposta a questi interrogativi mi liberi dalle remore a scrivere e renda …più scorrevole la penna.