Il singolo, la politica e… oltre


 

1. Prima e dopo la caduta del Muro


Il pluralismo politico dei cattolici ha costituito sin dall’immediato dopoguerra in Italia una chimera che ha fatto versare fiumi d’inchiostro senza mai approdare a risultati tangibili sia sul piano di una opinione che avrebbe dovuto essere largamente condivisa, sia sul piano delle concrete scelte elettorali. La battaglia che precedette il 18 aprile 1948 e, l’anno dopo, il decreto di scomunica dei comunisti e dei loro sostenitori costituirono i primi atti di uno scontro che, da parte ecclesiastica e delle organizzazioni cattoliche, veniva ideologicamente raffigurato – ricorrendo all’antico linguaggio gnostico e manicheo – nell’opposizione radicale tra la “luce” (di Roma) e le “tenebre” (di Mosca).
All’interno di questa alternativa non c’era spazio per soluzioni intermedie, mentre le illuminanti proposizioni di Maritain rimanevano patrimonio di una minoranza di intellettuali più come oggetto di discussione che di scelte concrete. Il pluralismo, anche tra questi, aveva infatti un limite: tra “luce” e “tenebre” la decisione aveva uno sbocco obbligato. La possibile opzione per il molteplice politico veniva regolarmente assorbita al momento di entrare nella cabina elettorale e, tutt’al più, contribuiva al frazionamento
interno del partito cattolico in una varietà di correnti il cui presupposto anticomunista non venne mai posto in discussione per oltre 40 anni. Anche il Concilio Vaticano II ha scalfito minimamente tale presupposto e di conseguenza la dislocazione politica della schiacciante maggioranza dei cattolici italiani. Così recita la costituzione Sulla Chiesa nel mondo contemporaneo al Cap. IV, p. 75: “Tutti i cristiani devono prendere coscienza della propria speciale vocazione nella comunità politica; essi devono essere d’esempio, sviluppando in se stessi il senso della responsabilità e la dedizione al bene comune, così da mostrare con i fatti come possano armonizzarsi l’autorità e la libertà, l’iniziativa personale e la solidarietà di tutto il corpo sociale, l’opportuna unità e la proficua diversità. Devono ammettere la legittima molteplicità e diversità delle opzioni temporali e rispettare i cittadini che, anche in gruppo, difendono in maniera onesta il loro punto di vista”. E con ciò l’unità politica dei cattolici appare, in linea di principio, liquidata.
Ma, al solito, bisogna fare i conti con la storia. In clima di guerra fredda l’opposizione “luce-tenebre” giocò ancora a lungo un ruolo ideologico di grande efficacia. Ebbe pure la funzione di appannare i limiti di definizione dello Stato di diritto e di permettere al partito cattolico di occupare per gradi lo Stato e di fornire al processo di diffusione osmotica del proprio potere a tutti i livelli istituzionali la giustificazione ideologica della difesa dello Stato di diritto. Qui sta la radice profonda di Tangentopoli, in particolare a partire dai governi di centro-sinistra (per quanto l’imponente sviluppo edilizio che riguarda Roma e le grandi metropoli del Nord dalla seconda metà degli anni Cinquanta abbia dato un avvio consistente al
do ut des inteso come sistema generalizzato).
Ma la verità storica non ha un’unica faccia. La storia dei partiti italiani nel dopoguerra è, con tutta probabilità, in gran parte da rifare alla luce degli avvenimenti più recenti; anche quella del Partito Comunista. La vicenda del PCI si gioca sul doppio binario di un corretto inserimento nello Stato di diritto (si pensi all’opera di Togliatti alla Costituente) e di un collegamento con Mosca mai totalmente troncato anche nei momenti più duri (entrata dei carri armati sovietici a Praga nel 1968). Se la sostanza politica del PCI si collocava nella democrazia occidentale e nella difesa dei suoi istituti, l’immagine era quella di un sovietismo mai definitivamente ricusato e di una critica al socialismo reale vigente nell’URSS che non andò oltre il cauto “strappo” di Berlinguer, del tutto insufficiente al recupero del PCI all’Occidente (almeno agli occhi della maggioranza dell’opinione pubblica). A questo sovietismo persistente contribuirono in modo determinante personalità cattoliche di rilievo quali furono Franco Rodano (braccio destro di Berlinguer) e Mario Melloni (Fortebraccio) la cui funzione culturale e “pedagogica” fu, a parere di chi scrive, del tutto diseducativa e paradossalmente mirata a mantenere il PCI nell’area dannata delle “tenebre” malgrado tale partito avesse acquisito un certo qual potere in alcune regioni italiane ed esercitasse una forte pressione sulla cultura italiana.

Se questo rapido quadro possiede un minimo di legittimità analitica, bisognerà risalire all’avvento di Gorbaciov e alla caduta del Muro per cogliere i primi sintomi di uno sfaldamento dell’opposizione simbolico – ideologica “luce-tenebre” che ha bloccato per oltre 4 decenni il quadro politico italiano ed ha permesso lo scoperchiamento, con l’afflosciarsi del nemico comune, della pentola di Tangentopoli accuratamente tenuta sigillata, anche col concorso della magistratura (o di una sua parte), negli anni in cui rispetto al male maggiore, essa rappresentava uno dei tanti mali minori della società italiana: deprecabile, se si vuole, ma sopportabile rispetto alla prospettiva catastrofica dell’accesso delle “tenebre” al Palazzo.

 

2. Riflessi sul piano ecclesiale e religioso


La questione dell’unità politica dei cattolici dopo il crollo del comunismo sovietico e nazionale, a quanto si legge sulla stampa, non fa che riproporre vecchi linguaggi e stanchi luoghi comuni in un momento in cui la frantumazione del quadro politico e l’indegno spettacolo offerto dai suoi massimi protagonisti toglie ogni legittimità e razionalità all’antico “punto fermo” ideologico (presentato per “teologico”). Un elemento del tutto nuovo, che non risulta tuttora preso in adeguata considerazione dai giornalisti cosiddetti informati, si sta profilando nella società italiana. La storia religiosa nazionale tra Ottocento e Novecento è stata caratterizzata da un provincialismo persecutorio che l’ha costantemente umiliata e staccata dalla riflessione teologica e biblica europea e che ha prodotto un transfert pressoché totale dalla vita religiosa all’attività politica. Figure religiose di spicco e movimenti autonomi di spiritualità furono assai rari e, in ogni caso, ebbero la vita difficile, mentre l’attenzione per le altre confessioni cristiane e il dialogo ecumenico non trovarono alcuno spazio in Italia.
Oggi il panorama sta gradualmente mutando: affiorano, sia a livello giovanile, sia a livello di una diffusa sensibilità culturale, esigenze di separazione del religioso dal politico, di configurazione dell’esperienza religiosa fuori dai quadri repressivi della militanza di partito, nonché una maggiore attenzione verso le altre confessioni cristiane. La vita religiosa, sia pure in una fase di manifestazioni più carsiche che esplicite, si sta riappropriando di spazi che troppo a lungo le sono stati sequestrati dai partiti, dai loro ingranaggi e dalle loro logiche.
I grandi temi del mito e della vicenda biblica, del dialogo tra le religioni e dei fondamenti dell’etica, della “libertà del cristiano” e del rifiuto dell’establishment partitico vigente, del volontariato e della testimonianza (che possono raggiungere livelli eroici), stanno entrando nel dibattito culturale e nella prassi quotidiana, cioè nello stile di una generazione poco disponibile ad allinearsi con le antiche e non di rado screditate obbedienze. Qui – cioè nella
dislocazione del sacro nella società italiana – sta, con ogni probabilità l’inizio della fine dell’unità politica dei cattolici. Questa peraltro non rappresenta più un assillo per l’attuale pontefice e, in forma più limitata, per la gerarchia. Un’unità screditata da un gruppo dirigente inquisito non brilla per la sua attendibilità sul piano politico, mentre la presenza massiccia delle Leghe nel nord del paese ha, com’è noto, sottratto oggettivamente alla vecchia Democrazia Cristiana ogni legittimità a rivendicare la rappresentanza esclusiva dell’elettorato cattolico.
Se dunque il problema politico non costituisce più la principale preoccupazione del pontefice e dell’episcopato, non v’è dubbio che ad un altro e ben più impegnativo tipo di unità essi ora puntano in modo intransigente e quasi con la disperazione di chi sente sfuggirgli il controllo della situazione interna. L’enciclica
Veritatis spiendor, in qualsiasi modo la si voglia leggere e interpretare, costituisce un richiamo all’unità sui temi sia dell’etica, sia dell’obbedienza teologica quali da tempo non se n’erano sentiti di così perentori.
Da un lato l’oggettività
sic et simpliciter degli atti da definirsi “intrinsecamenti cattivi” sulla base di un concetto di legge naturale strappato dalla storia; dall’altro il richiamo severo ai teologi moralisti affinché si attengano alle indicazioni magisteriali senza procedere per alcuna pista di ricerca autonoma: in ogni caso l’unità richiesta – e imposta – dall’attuale pontefice si colloca ad un livello meno esteriore rispetto alla militanza politica, essendo di natura strettamente intra-ecclesiale. Come dire che la nave insidiata dalla tempesta delle ideologie e dai costumi della società capitalistica – nuovo bersaglio di Karol Woityla – può gettare a mare tutta la zavorra non indispensabile per rimanere a galla, ma, secondo il papa polacco, non può permettersi che l’equipaggio provochi delle falle nello scafo e che dei marinai agiscano e manovrino per conto proprio. È la tipica strategia di chi si sente in stato d’assedio cogliendo pessimisticamente nel mondo soprattutto pericoli e zone oscure. I tempi in cui Giovanni XXIII dichiarava di non collocarsi tra i “profeti di sventura” appartengono ormai ad un’altra epoca della Chiesa.

 

CARLO PRANDI


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