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Abbiamo assistito in queste ultime domeniche alla campagna pubblicitaria che la Chiesa italiana ha fatto, al fine di sensibilizzare i cittadini italiani a collaborare al sostegno economico del Clero e delle varie iniziative ecclesiastiche.

Una prima osservazione ci viene subito alla mente: su questo problema non si è voluto creare dibattito nella nostra Chiesa, e così esso ci è capitato addosso “già risolto” nei suoi minimi particolari, e perfino già motivato, a modo suo, nei riferimenti evangelici.
Pensiamo giusto osservare che poteva essere un dovere e magari anche un diritto per tutti, l’esprimere un parere e il formulare un giudizio in merito.
Allora pensiamo di farlo adesso, anche se a cose fatte, nella speranza di aprire un dialogo onesto tra noi, e nella certezza che la pluralità di voci serva di più a costruire la Chiesa di Cristo.
Siamo un gruppo di sacerdoti della diocesi, che da anni hanno scelto di dare un taglio al legame che vincola il ministero sacerdotale ai soldi che sono necessari per vivere (congrua, questue, tariffe per i sacramenti, offerta per le Messe, sistema concordatario). Questo, nella prospettiva di una purificazione del servizio del prete, per la sua più completa gratuità.
Per il nostro sostentamento, come dice S. Paolo (Fil. 4,11) “abbiamo imparato a bastare a noi stessi” in un lavoro manuale stipendiato, come è proprio di quasi tutti i cittadini in questa società.
Desideriamo dire quanto segue, prendendo in esame l’opuscolo della CEI: «Il sostegno economico alla vita e alle missioni della Chiesa…» (sett. 1989).

1. I valori vengono distorti e falsati

A noi sembra si stia rovinando e svilendo il vero concetto della povertà evangelica, quando la stessa Chiesa che lo proclama accetta (si lascia “agevolare”) da parte dello Stato (vedi trattenute IRPEF) una vera e propria garanzia economica. (E di garanzia bisogna parlare, non di altro, quando si sa che, se ci fosse anche solo un cittadino a dare la preferenza per il sostentamento della Chiesa, questo farebbe scattare il meccanismo; e quando si sa che, in ogni caso, la Chiesa si è assicurata dallo Stato per ogni anno almeno la quota complessiva dell’ultima ex congrua, salvo aggiornamenti).
Diciamo inoltre che si stravolge anche il concetto vero della condivisione e della corresponsabilità (che vuole dire mettere in comune le proprie cose e partecipare alla loro gestione in modo diretto) quando, da parte della Chiesa, si delega allo Stato la raccolta dei soldi, e quando di conseguenza da parte del laico credente si delega al clero (vedi Istituti centrali) la gestione di essi.
Non può non nascere qui una figura ancor più clericale del prete (e del vescovo), che ha uno stipendio in funzione della evangelizzazione; e una mentalità di delega da parte del laico, dato che, una volta stipendiato, il prete sarà visto come l’unico a lavorare davvero per la Chiesa e il Vangelo, e l’unico che ha diritto-dovere di gestirli.
Potrebbe giustamente prospettarsi un tempo in cui i Catechisti, i membri dei Consigli parrocchiali, ognuno che lavora per la Chiesa, reclamino uno stipendio.

2. Confronto con il messaggio evangelico

I riferimenti biblici sono molto belli e significativi, sia nella parte in cui descrivono la vita di Gesù nella sua essenzialità e povertà, sia in quella che mostra in concreto la solidarietà e la condivisione nella vita delle prime comunità cristiane. Era certamente l’impronta lasciata da Gesù: “da questo conosceranno che siete miei discepoli.”.
Li abbiamo letti attentamente, e abbiamo sentito ancor più un richiamo energico a purificare la nostra vita (perché in questo nessuno si può ritenere a posto), conformandola allo stile di Cristo.
Li abbiamo letti anche nella speranza che poi l’opuscolo sapesse indicare, anche per i nostri giorni, una traccia di vita, sempre secondo quello spirito.
Invece, ecco la sua conclusione: tramite una parte di trattenute IRPEF, che spettano allo Stato, e tramite offerte libere (deducibili), i cittadini ora sostengono la Chiesa e il suo clero.
Ma con questo siamo ad uno stravolgimento completo dello spirito del Vangelo.
Come si può pensare che sia la stessa cosa una impostazione di vita dove le varie comunità mettono in comune i loro beni (e in questo ci stia il sostentamento dei sacerdoti e delle attività), e una impostazione in cui è lo Stato (istituzione laica) a farsi tramite e garante del sostentamento della Chiesa?
Come si può pensare che il nuovo sistema è un puro “aggiornamento” (un adeguarsi ai tempi) necessario nella condizione odierna, senza riconoscere che è anche un tradimento del messaggio evangelico, dove si parla solo di singoli credenti che mettono a disposizione i loro beni?
Veniamo poi alle citazioni di San Paolo.
Cosa ci vogliono dire? Certamente in una parte di esse l’Apostolo vuole farci capire un’idea di fondo molto chiara, cioè: il suo esplicito rifiuto a farsi mantenere dagli altri per le sue “prestazioni” ministeriali, e il suo vanto per una tale scelta personale. Lo dice ai Corinti (l Cor. 9,15); lo dice ai Filippesi (4,10-19); lo dice ai Tessalonicesi: “Non mi sono fatto mantenere da nessuno” (2 Tes. 3,7-10, non citata nell’opuscolo).
Ci permettiamo di dire che queste indicazioni paoline sarebbero più che sufficienti se fossero prese sul serio dal clero di oggi.
In un’altra serie di citazioni (Atti, Romani, Galati, 1 Timoteo), oltre che ad invitare i cristiani alla condivisione e all’obbligo morale dell’aiuto reciproco, san Paolo parla dei responsabili delle comunità.
In 1 Cor. 9,14 leggiamo: “Per quelli che annunciano il Vangelo, il Signore ha stabilito che hanno diritto a vivere di questo lavoro”. In 1 Tim. 5,17-18 leggiamo: “I responsabili delle comunità meritano doppia ricompensa… Il lavoratore ha diritto alla sua paga”.
Beh, a prima vista, almeno queste citazioni potrebbero sembrare in linea con le scelte della nuova legislazione. Ma è proprio vero? Leggiamole attentamente.
Dove si può ravvisare qui la giustificazione alla vecchia congrua (peraltro mai criticata prima d’ora) o al nuovo sistema di sostentamento del clero?
Dove è scritto che sono i responsabili delle comunità (come invece avviene ora) a chiedere di essere stipendiati? Dove si trova anche solo una parola che giustifichi il metodo oggi previsto, nel quale, oltre allo Stato col suo meccanismo economico (spesso perverso perché favorisce i più abbienti e diventa assistenziale per gli altri) c’è la partecipazione certamente interessata di Istituti Bancari nazionali (in prima fila anche quelli che sono implicati in loschi affari di commercio di armi o di prestiti a governi dittatoriali e razzisti, come il Banco San Paolo, la Banca Nazionale del Lavoro, la Banca Commerciale)?
Crediamo proprio si stia facendo una lettura strumentale del Vangelo (vedi anche l’interpretazione riduttiva, per non dire scandalosa, del racconto della moltiplicazione dei pani e dei pesci).

3. Rapporto Stato-Chiesa

Si dice «Stato e Chiesa in Italia hanno scelto, dunque, la reciproca libertà».
«La Chiesa gioca un ruolo decisivo nella società italiana». «Produce servizi»; «produce valori». «E lo Stato lo sa» (pag. 12).
Anche su questo desideriamo fare delle considerazioni.
A parte il fatto che si potrebbe benissimo dire: «Stato e Chiesa hanno scelto di condizionarsi reciprocamente» invece di parlare di libertà reciproca; ma cosa vuol dire per la Chiesa tutto ciò? Non è come accettare pubblicamente di essere un’azienda dello Stato? Non è come dire che, adesso più di prima, i preti sono stipendiati e a servizio dello Stato?
Certo, allo Stato italiano, con i governanti che si ritrova, può anche andar bene questa realtà: avere una schiera di gente che produce valori (e aggiungiamo pure: in modo funzionale a “questa democrazia” e a questo regime di cose); avere una Chiesa che copre una infinità di manchevolezze nei suoi servizi sociali, sanitari, culturali, ricreativi.
Ma alla Chiesa può andar bene?
Una Chiesa che deve essere esperienza viva di fraternità e di condivisione; una Chiesa che deve farsi voce contro le ingiustizie e le discriminazioni; una Chiesa che dovrebbe essere profezia delle promesse del Signore rivolte ai poveri, e giudizio severo contro i potenti; una Chiesa così, se esiste ancora, può accettare le logiche di un qualsiasi Stato?
E qui in Italia non sono i nostri vescovi, i primi, a denunciare la secolarizzazione della società e la sua scristianizzazione? E non è perfino immorale che proprio la Chiesa, in una società di cittadini immorali (quelli che evadono il fisco: e sono i più ricchi; e sono proprio quelli che potrebbero offrire anche due milioni, deducibili) faccia leva sui “vantaggi della deducibilità”?
Tutto questo ci pone in grave sgomento interiore, e pone la nostra coscienza nella condizione di prendere le distanze da una situazione come quella proposta dal Nuovo Concordato.
Vorremmo sperare che altri sacerdoti, come già molti cristiani, si orientino ad una protesta seria, per rivendicare la gratuità e il diritto alla vera libertà di ogni battezzato e di ogni presbitero nell’annunciare il Vangelo di Cristo.
Se qualcosa si doveva cambiare, anche con una buona dose di realismo, partendo dalla situazione attuale della Chiesa in Italia, lo si poteva dire in maniera molto più semplice.
Bastava dire: ci troviamo a sostenere una struttura ormai macchinosa (opere avviate da anni, chiese, strutture, sacerdoti abituati a vivere del servizio ministeriale); essa necessita di una garanzia economica. La gente che viene in Chiesa è sempre meno; le offerte, anche quelle legate ai sacramenti, sono insufficienti; e le rendite delle proprietà sono altrettanto esigue. Accettiamo quindi di “rinnovare” l’accordo con lo Stato italiano, con modifiche atte a rendere i cittadini un tantino più consapevoli, confidando nel fatto che a tutt’oggi esso vede di buon occhio molte delle opere della Chiesa. Per adesso non è possibile fare grossi cambiamenti di rotta, ma essi potrebbero essere attuati un po’ alla volta se riusciremo a cambiare mentalità.
Non occorreva così scomodare il Vangelo (stiracchiandolo in malo modo) e non serviva fare tante premesse di tipo storico e sociologico.

Lidio Foffano, Gianni Manziega, Gianni Fazzini,
Luigi Meggiato, Alfredo Basso,
PO di Portomarghera


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