Condizioni di lavoro


 

Fino a qualche anno fa si poteva pensare al lavoro come ad una “partecipazione alla creatività e alla potenza di Dio”, un “inserimento dell’intera creazione sull’economia della salvezza tramite il lavoro creativo dell’uomo come immagine di Dio”, una “attività umana come lode ed onore di Dio”.
Oggi mi rendo conto che il lavoro è uno strumento gestito da poche persone, rispetto ai 5 miliardi che siamo, e fare quei pensieri è quasi mettere in ridicolo la presenza di Dio su questa terra e divenire strumento stabilizzante di chi gestisce il potere.
Vivo in una grande fabbrica, di quelle chiamate multinazionali, dove non esiste più la controparte diretta del prestatore di lavoro.
Vi sono centinaia di “autorità” che gestiscono il tuo lavoro, ma nessuna con cui ti puoi confrontare non come “esecutore di lavoro”, ma come “persona”. Il lavoro, anche se vario, è tanto parcellizzato nel tutto che non riesci a valorizzare il tuo specifico ruolo in una visione globale dell’insieme.
La presenza degli altri lavoratori non è vista come una comunità che vive, ma vien fatta vivere come una concorrenza vicendevole in cui deve affermarsi il migliore, il più forte, il più potente, il più furbo.
In questo periodo in cui tutto cambia, e tutto cambia velocemente, anche la realtà dove io lavoro sta mutando. Noi operai eravamo in questa grande fabbrica di ingegneri, tecnici e prototipisti, i “paria” di turno. Ora, il capitale e chi gestisce il potere ha deciso che nella grande fabbrica l’operaio deve essere eliminato. Di lui se ne deve fare a meno.
E quindi si assiste, con il beneplacito del sindacato, alla eliminazione fisica dell’operaio. Alcuni vengono mandati in prepensionamento, altri sono dimessi con una “buona uscita” pari a due anni di lavoro, altri si licenziano pagando con la liquidazione e la buona uscita i torni, le frese, o le macchine con cui hanno lavorato per anni.
E tutti gli altri rimasti vengono “riconvertiti”. Qualcuno va a stare meglio in quanto va a svolgere ruoli, in qualche maniera, legati all’esperienza professionale precedente, più significativi e realizzanti come programmatori o preventivisti. Qualcun altro invece viene trasformato da controllato a controllore, da “schiavo” a “schiavista”, da soggetti di ingiustizia a “negrieri” del momento.
E questo perché il lavoro da qualcuno deve essere fatto. E allora alcune cose vengono fatte in Corea, nelle Filippine, a Formosa, in Spagna o in Sud America.
Oppure altre sono fatte nella stessa fabbrica, ma date in appalto o in sub-appalto a ditte che devono garantire un risparmio sul costo lavoro.
Ed è qui che l’operaio si trasforma – ironia della sorte – da controllato a controllore. Controllore, a nome del capitale, di chi esegue il lavoro. Ma, certamente, non si è più operai, quando si gestisce il lavoro o il potere per sfruttare in modo sistematico la prestazione d’opera di altre persone.

m.p.


Share This