Per una memoria viva (3)
Ho appreso dai giornali della morte di Bruno Borghi. Ho sentito parlare di lui fin dai primi tempi in cui iniziai a frequentare, ancora studente, don Sirio Politi e la allora nascente Comunità di Bicchio. Me ne portavano frammenti “i due Beppi” (Beppe Socci e Beppe Pratesi) ancora in terra fiorentina prima di trasferirsi anche loro a Viareggio. Di quegli accenni ricordo il rispetto e la stima per lui, insieme a una sottile sensazione di un cammino, il suo, poco incline a mettersi insieme e confrontarsi nel nome di un comune sacerdozio. Personalmente non l’ho mai incontrato, ma ne ho seguito la storia attraverso notizie via via raccolte; per lo più da Renzo Fanfani e dai suoi amici. Fino all’attività di volontario nel carcere di Sollicciano, tramite le informazioni dell’associazione Pantagruel:
Ancora alla prima metà degli anni ‘60 erano così pochi i pretioperai e ognuno sapeva così poco o nulla dell’altro che, quando si incontrarono per la prima volta a Chiavari (erano una ventina), si stupirono di scoprire dei compagni di una avventura fino allora vissuta in solitario o con riferimenti alla realtà francese e ai Piccoli Fratelli di Charles de Foucauld. Un po’ più conosciuto come preteoperaio era allora don Sirio. Per questo riconoscimento e per l’impegno forte nel movimento negli anni ‘70 e ‘80, Sirio venne considerato il “decano” dei preti operai. Ma Bruno Borghi iniziò a lavorare ben sei anni prima di Sirio, nel 1950, risultando così – se ha senso stilare una classifica – il primo prete operaio italiano.
Entrambi, Bruno e Sirio, iniziarono la loro esperienza di fabbrica “in obbedienza”, con il permesso del loro vescovo. Entrambi hanno ricordato il loro primo giorno di lavoro e l’ingresso in fabbrica con la veste talare lasciata all’attaccapanni dello spogliatoio per indossare la tuta. Quindici, vent’anni dopo, non sarebbe stato più così per la maggior parte dei pretioperai italiani, entrati al lavoro tra il 1965 e la fine degli anni ‘70, sull’onda dei cambiamenti portati dalla celebrazione del Vaticano II.
Rileggere quindi le tappe principali della vita di Bruno e, in modo particolare, quella della sua esperienza di fabbrica degli anni ‘50, significa riprendere contatto con la frattura aperta e sanguinante tra chiesa e mondo operaio e al terribile “carico” di chi, con il sacerdozio, assumeva la responsabilità di una testimonianza fedele all’amore incondizionato per la povera gente. Perché esser preti allora – infinitamente di più che appena pochi anni dopo e ancora di più infinitamente, se possibile, rispetto alla realtà di oggi – come scrive Sirio, era “assumere la responsabilità delle anime, la disponibilità del Cielo e della Terra e quindi l’autorità con tutto il potere sacro, sacramentale, della parola, della cultura, il potere politico…”, anche se uno era parroco di uno sperduto paesino tra i monti.
Rileggere la storia di Bruno significa, al tempo stesso, rileggere tutta la storia di un “movimento”, quello dei pretioperai, che dagli anni’50 ad ora, ha portato con se, insieme a contraddizioni e slanci di libertà, una sostanziale fedeltà alla vita lasciando che la vita stessa ne modellasse di volta in volta i tratti identificativi.
Bruno non vi si è riconosciuto e non ha mai partecipato agli incontri nazionali. Insieme ad altri (per rimanere in Toscana, ricordo solo a titolo esemplificativo, Martino Morganti), accettava solo l’incontro tra amici della stessa diocesi o della zona regionale.
Ma, nello stesso tempo, anche il gruppo dei pretioperai italiani ha compiuto, passo dopo passo, un lungo tragitto. Dalle terre infuocate delle possibili “spallate al sistema” all’aria rarefatta delle grandi cime di un sacerdozio fulcro di nuova umanità; dalle foreste della complessità delle crisi via via in atto alle vallate serene della riscoperta di nuove solidarietà.
Fino ad asciugarsi ad un piccolo gruppo di donne e uomini che hanno “imparato” la riposante sorpresa dell’oasi in cui il “ricevere” è assolutamente fondante ogni “dare”.
Non so se Bruno si sarebbe riconosciuto nel piccolo gruppo che ogni anno ormai si dà appuntamento al “Paradiso” di Bergamo. Spero di sì e non credo di attribuirgli un sentire che non è assolutamente suo.
Le pagine del libro della vita vanno sfogliate una ad una e, ogni volta, lette di nuovo anche se contengono le stesse parole… E, da lettura a lettura, il mutare dell’orizzonte di riferimento può aprire prospettive nuove e riconciliare cammini apparsi del tutto differenti…
Parlavo di queste cose con Beppe Giordano, giorni fa. E ricordavamo come, in modalità e in tempi diversi, entrambi abbiamo cercato un riferimento più con il “presbitero” che con il “sacerdote” per la nostra identità di preti. E cioè con “l’anziano”, non anagraficamente parlando, ma come figura di chi ascolta e custodisce ed indica la voce “vera” con il discernimento di chi non si lascia suggestionare dalla forza dell’espressione o dal potere delle parole, ma pone uguale attenzione alla voce dei piccoli e a quella di chi non ha voce. Ed è orecchio della comunità. Non si distingue. Ne è parte. Come ogni creatura umana fatta di carne e di sangue, porta con sé la sensazione di essere – come tutti – concreto, pratico, fatto di quotidianità e di progetto.
E, come spesso succede tra noi, si scambiava la fatica di ogni giorno per essere fedeli, nella realtà concreta, ad una sempre più chiara utopia: “… non essere più preti, clero, mondo ecclesiastico, ma semplicemente degli accattoni della bontà altrui, dei coinvolti e possibilmente dei travolti dalle lotte per la libertà, la giustizia, la testimonianza di una alternativa” (don Sirio, Lotta come Amore 1987, n. 4, pag.7).
Su questa strada – credo – il confronto con Bruno e con la sua avventura di vita ha ancora, per ognuno di noi, tutta la ricchezza e la freschezza di una amicizia rinnovata in reciproca serena accoglienza.