Voci dalle tribù


 

Insegno e divido il mio lavoro su due scuole: una grande e una piccola. Sono ubicate in due paesi: uno molto grande e uno molto piccolo. Il primo è zona di frontiera in continua mutazione e con gravi conflitti sociali, l’altro è appiattito su un dilagante perbenismo di omologazione.
Una mattina arrivo nella scuola grande prima dell’inizio delle lezioni (come sempre); i ragazzi, come sempre, mi corrono incontro e, come sempre, Nicola, l’alunno più difficile della scuola, entra con me, anche se questo non sarebbe permesso. È molto triste perché il padre, gravemente ammalato da tempo, ha avuto una crisi tale da rendere necessario il suo ricovero in ospedale. Nell’atrio, ancora deserto, una bidella brontola perché lo accompagno al distributore di bevande riservato agli insegnanti. La cosa non mi turba più di tanto perché ho deciso di offrirgli una cioccolata calda con l’ingenua speranza che la dolcezza e il calore del cioccolato sciolgano il gelo di una vita fatta di dolore e sofferenze talmente insopportabili che il fratello, un altro mio alunno, ha già tentato di ammazzarsi più di una volta. Ci sediamo sui gradini che portano alla presidenza e, mentre sorseggia la bevanda bollente, continuiamo a parlare. Abbiamo poco tempo perché tra poco, al suono della campanella, l’atrio sarà invaso da mille colori trattenuti dal nylon delle giacche e degli zainetti degli alunni e sarà riempito dai suoni delle lingue del mondo che la globalizzazione (forse sarebbe meglio dire la povertà) ha portato in quest’angolo della provincia. Sto sollecitando Nicola che beve al rallentatore, quando una famiglia di asiatici, probabilmente cinesi, con un italiano molto stentato, mi chiedono informazioni. Osservo i ragazzi e intuisco che dovranno frequentare questa scuola, sarei disposta a scommettere che saranno inseriti in una delle mie tre classi insieme a ghanesi, indiani, cubani, meridionali, disabili e svantaggiati in genere che compongono le mie amate e tormentate classi.
Alle undici ho la conferma di non essermi sbagliata: Ouyang è stato inserito in prima e a mezzogiorno, in seconda, incontro la sorella. Domando quale sia il suo nome, ma prima che possa rispondere i suoi compagni mi dicono che si chiama Elena. Sono decisamente stupita e, quando chiedo spiegazioni, gli altri ragazzi rispondono che il suo nome è così difficile che, con l’approvazione degli altri insegnanti, si è deciso, previo il consenso della nuova arrivata, di “ribattezzarla”.
Esprimo la mia totale disapprovazione e, indicando il planisfero appeso ad una parete dell’aula, parlo della fatica che fanno uomini, donne e bambini per trasferirsi, in cerca di pane, a sette-otto-diecimila chilometri dal posto in cui sono nati e vissuti. Noi, abituati a divorare grandi distanze solo per turismo, dobbiamo solo fare la fatica di imparare un nome un po’ complicato. Alla fine del mio piccolo comizio, la classe decide che vale la pena di imparare il nome nuovo, del resto è già stato fatto con Badon, Nana Ama, Mao Shing, Farida, Hua Tong…
Purtroppo, per i miei colleghi, la nuova arrivata si chiama irrimediabilmente Elena.
Ancora una volta constato la generosità di chi non ha niente e l’ottusità di chi non è disponibile a dividere neanche il superfluo. Questi ragazzi, che già vivono stretti, hanno cercato di fare spazio, ma i loro insegnanti hanno alzato il muro. Basta con i problemi, sono troppi,… la barca è piena! Se proprio dovrà stare in questa classe si chiamerà Elena.
Impotente di fronte a questa nuova tipologia di colonizzazione avvenuta in meno di tre ore, mi ritrovo a meditare sulla sfortuna dei miei colleghi che, avendo una sola e comoda sede di lavoro, non possono fare confronti. Se, come me, fossero svantaggiati, potrebbero riflettere e trovare la ricchezza nascosta in queste classi di “disgraziati”. Infatti, nella scuola piccola mi viene chiesto di preparare gli allievi per le superiori, mentre in quella grande non esiste possibilità di sottrarsi alla relazione e le mie difficoltà si sono intersecate con quelle degli alunni e, quasi inconsapevolmente, ho capito che questi ragazzi mi hanno restituito il senso del mio lavoro.

 

Isa Benatti


 

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