Scritti di Carlo Carlevaris (5)


 

L’intervento di Carlo durante l’incontro nazionale
“A 40 anni dal Concilio: dov’è la Chiesa dei poveri?”
pubblicato sulla nostra rivista nel settembre 2006.

Vorrei tornare sul discorso della chiesa dei poveri, un discorso sul quale noi ci siamo cimentati ed abbiamo cercato in qualche modo di esserne parte.La chiesa dei poveri non era ieri, perché la chiesa di ieri assisteva i poveri: san Vincenzo, orfanotrofi, uffici di assistenza delle parrocchie.
Se sono prete lo devo al Cottolengo. La mia famiglia era povera e non potevano farmi studiare. Qualcuno mi ha indicato il Cottolengo, un luogo dove si poteva diventare prete senza pagare.
La chiesa era quindi fino a qualche anno fa, e per certi versi lo è ancora oggi, essenzialmente la volevamo anche noi e l’han voluta tanti prima di noi, la chiesa dei poveri, che assisteva i poveri, che aiutava i poveri, che veniva incontro alla povera gente.
Con gli anni abbiamo fatto un passo avanti, abbiamo cercato in qualche modo di teorizzare questa chiesa chiamandola “chiesa dei poveri”, o “chiesa povera “.
Noi in qualche modo ci siamo messi in questo filone per trasformare la chiesa in una chiesa dei poveri: molti sono andati in missione, molti altri hanno fatto delle opere sociali di vario tipo. Noi abbiamo pensato di far vivere un’immagine di chiesa che fosse non una chiesa dei poveri ma una chiesa povera. Ci siamo in qualche modo identificati con l’anello debole di questa società che non erano i miserabili ma i lavoratori e ci siamo sentiti in affinità ad essi, credendo in questo modo di portare un contributo alla chiesa, portando alla chiesa i poveri di quel momento. Abbiamo scelto non i poveri, ma gli operai e quindi abbiamo scelto l’anello debole della società di quel momento. Ci siamo messi non tanto a servizio, ma in compagnia.
Ho fatto per 10 anni il cappellano del lavoro negli anni ’50 e questo era a servizio in qualche modo dei poveri, gli operai. Dopo ho capito qualcos’altro e mi sono reso conto del cambiamento: ho scelto invece di fare il prete operaio e per vent’anni ho fatto il prete operaio, portando questo tipo di contributo alla chiesa: una presenza in mezzo a una categoria di poveri. Tutto questo non per dare una mano a loro ma prendendoci insieme per mano. Quindi un servizio di condivisione, di partecipazione e di lotta insieme, scegliendo la lotta di classe, gli scioperi, le manifestazioni per strada. Mi ricordo che una volta mi sono trovato in mano uno striscione rosso in una manifestazione a Torino: mi son fatto a piedi da Mirafiori fino al centro di Torino, la piazza san Carlo. Mi è toccato tenere quello striscione perché ci davamo il turno, passando tra le due chiese, quella di san Carlo e santa Cristina nella piazza centrale di Torino.
Ho sentito qualcosa di strano dentro di me mentre cantavamo: “Come mai, come mai, sempre in culo agli operai”? Cantavo con la bandiera rossa tra le due chiese principali di Torino dopo aver fatto delle cose strane prima come prete, responsabile di quella o quest’altra cosa.
Noi abbiamo scelto di far parte di quella chiesa, essendo uno di loro, questi tipi strani di cristiani che erano gli operai.
Mi sembra di poter dire, e qui faccio un passo avanti, che oggi non si parla più della chiesa dei poveri, meno che mai si parla della chiesa povera; si parla spesso di conflitti economici, di rapporti tra la chiesa e le gerarchie con lo stato, del 2 per mille, del 5 e dell’8 per mille…
Ancora una volta ci troviamo a collocarci di traverso in una chiesa che non è chiesa povera, che non è la chiesa dei poveri e che tuttavia ha questo impiccio di avere i poveri tra i piedi.
Volere o no, essi ci sono e molta gente che porta la divisa, che un giorno portavamo anche noi, si vergognano un po’ di questo fatto: che i poveri non dialogano con questa chiesa e che gli operai, la gente che lotta, non è presente.
Bisogna dire che questa chiesa nel tempo ha perso ancor più di credibilità nel senso più basso della parola. Di testimonianze di autorità ecclesiali collettive che scelgono i poveri veramente non ne troviamo, non ne abbiamo granché. Si continuano a cercare i riti, i potenti e magari i politici che contano perché essi portano prestigio e soprattutto portano soldi, perché questa chiesa possa continuare a sussistere, facendo magari anche una bella figura.
È una riflessione che sto facendo da qualche tempo incontrando abbastanza spesso due categorie di persone. Una categoria la incontro perché vivo in uno dei quartieri più malfamati della città, un quartiere di stranieri dove c’è abbondanza di prostituzione: san Salvario. Ne parlano spesso i giornali. Mi trovo a vivere lì da molti anni e sono contento di aver scelto di andare a vivere lì. Mi trovo ancora una volta in conflitto con le tre parrocchie con le quali io dovrei essere in contatto, perché adesso ci sono le unità pastorali. Il parroco che dopo molti anni non si era accorto che io c’ero, mi ha invitato a partecipare. Vado qualche volta a chiacchierare un po’ con loro e mi accorgo delle grosse difficoltà che essi hanno.
Una prima difficoltà è quella dei ragazzi di strada. Da ragazzi noi giocavamo nella piazza, eravamo i ragazzi di strada. Giocavo sulla piazza davanti a santa Giulia, che era la mia parrocchia: da una parte c’era la parrocchia e dall’altra l’oratorio. Giocavamo là perché le vie erano strette e non era possibile giocare, la piazza era più ampia e quando i vigili ci cacciavano andavamo a giocare in sacrestia. In quella chiesa è nata la mia vocazione. In quel periodo era presente un prete, ospite di questa chiesa, perché confinato politico: eravamo in regime fascista. Egli non poteva allontanarsi dalla parrocchia. Era il canonico Alessandro Cantoni, un sociologo, che ha composto il primo catechismo di sociologia cattolica.
Un giorno mi chiama, chissà come mai proprio me in mezzo a quel gruppo di ragazzi, chiedendomi di fare due passi con lui lungo corso san Maurizio. Altre volte lo fece, facendomi parlare perché voleva capire ciò che mi insegnavano a scuola: “Che cosa t’ha detto oggi il maestro?“. Mi ricordo che una volta gli risposi: “Il maestro oggi mi ha detto una cosa che io non ho capito bene: Dio stramaledica gli inglesi“.Ricordo quest’uomo, che era con l’abito talare, irrigidirsi e poi: “Ma dimmi che cosa ha detto precisamente?“. Ed io gli ho ripetuto ancora quella frase mentre lui stava in un silenzio. Era stato colpito fortemente da quella espressione. Questo per dire il clima. E fu proprio lui che un giorno mi chiese: “Ma tu, non vorresti studiare?“. Gli risposi che io facevo l’avviamento al lavoro e che quindi già studiavo. Per farla breve mi disse: “Potresti andare in seminario per diventare prete“. Io non l’avevo mai pensato. E poi soggiunse: “Per ora sarebbe importante che tu possa studiare, dì alla mamma che venga qui”.Ma essa non ci andò. “Ma perché i tuoi non vogliono?”. “Perché siamo poveri e non possono farmi studiare“. Ed è allora che mi propose di andare al Cottolengo dove si studiava da prete gratis. A tredici anni son partito da solo e ho bussato. C’era una suorina ed io ho chiesto: “È qui che si studia da prete e non costa niente?”. Non ricordavo più questa storia, me l’ha ricordata il prete quando ho celebrato la mia prima messa al Cottolengo.
Oggi ho la sensazione che la chiesa sia in difficoltà più che una volta nei confronti dei poveri. Essa si sta rendendo conto che una parte di chiesa crede di aiutare i poveri, mettendosi dalla parte dei ricchi e portando i ricchi a fare qualcosa di bene per i poveri: andar d’accordo con i ricchi perché essi danno i soldi per i poveri. Questo non risolve certamente il problema.
Trovo che i preti con i quali mi incontro in questa unità pastorale, siano scoraggiati, soli, con la sensazione di non saper veramente che cosa fare, soprattutto se sono trentenni e quarantenni.
Abbiamo avuto vari preti che hanno lasciato il ministero ed io mi arrabbio perché molti dicono che essi hanno trovato la donna. Ma se l’hanno trovata, l’hanno trovata dopo: si sono sentiti un niente, inutili, che non servono più a niente. A cosa servono oggi i preti? A fare le sepolture, i funerali, i matrimoni.
Perché ho la sensazione che i preti si sentono di fatto inutili? Dico una cosa più grossa di me: le istituzioni civili ed ecclesiastiche si sono strutturate, hanno trovato degli strumenti per un popolo, per della gente che era quella di trent’anni fa e che non è più la gente di oggi. La mentalità dei preti di oggi si è costruita sulla gente di allora. Oggi essa non esiste più, in questi ultimi vent’anni essa si è profondamente trasformata. Non solo i giovani non vanno più all’oratorio, ma sono veramente cambiati. Le nostre istituzioni sono state studiate, modellate formando una gente a servizio di una società e quindi di una chiesa che non è più la chiesa di oggi, di una gente che non è la gente di oggi… I preti che lasciano, mi vengono a trovare perché sono vecchio. Ho cercato di capire perché hanno lasciato: nessuno di loro perché si sono innamorati di una persona. Tutti mi hanno detto che il motivo era che non sapevano più che cosa fare, con la sensazione di essere inutili, che “non concludevano nulla“. Proviamo a immaginarci una parrocchia con un solo prete che fa tre o quattro matrimoni la domenica, tre o quattro funerali la settimana: un funzionario che deve ripetere sempre le stesse cose. Ha davanti della gente che lo guarda e lui cerca, poverino, di spiegare che cos’è il matrimonio. Non vedono l’ora che finisca, dopo c’è il ricevimento e qualcuno si guarda se tutto è in ordine. Il prete parla e quello che dice non interessa a nessuno. Lo stesso vale anche per le sepolture. Un prete ridotto ad essere a servizio di una società che è profondamente cambiata, parla una lingua a persone che non la conoscono, convincendo persone che non si sentono partecipi.
Dicendo queste cose non voglio accusare assolutamente nessuno, ma mi sembra fare una constatazione: sia le istituzioni ecclesiastiche e civili, sia i partiti (sono pochissimi coloro che vivono la vita di partito) hanno finalità che non sono più consone e in sintonia con i bisogni profondi della gente.
Mi sto rendendo conto di ciò per le situazioni in cui mi trovo e questo mi è veramente facile perché vivo in quel quartiere. Abito in soffitta e al piano terreno abitano le Piccole Sorelle di Gesù. Non mi occupo più di problemi politici e sindacali, ma insieme a loro in un quartiere disgraziato mi occupo di prostitute, di magnacci, di ladri. Sono coinvolto da loro in queste storie facendo certe scelte. Di fronte a una prostituta rimasta incinta, che si fa?
Non le posso dire: “Guai a te! Peccato mortale, sacrilegio!”.
Terrorizzarla? Le dico che ci sono diverse soluzioni, per esempio: “Potresti sposare il padre del bambino”.
“Ma io non lo conosco, non so chi sia, è venuto come cliente e non posso individuarlo”.
Anche questo non funziona. Allora le dico: “Senti, c’è una legge che ti permette, se tu vai a partorire in una struttura pubblica , di dare il tuo bambino a una famiglia che lo adotta”. Una situazione automatica, per cui questa perde qualsiasi contatto con questa creatura.
E voi capite la situazione in cui io prete, mi vengo a trovare proponendo diverse soluzioni. Mi trovo a dover affrontare delle situazioni con delle persone concrete a cui le istituzioni danno delle soluzioni che il più delle volte non rispondono a dei bisogni.
Quando ero al Cottolengo facevo un po’ di scuola e assistevo 92 bambini, metà dei quali erano degli ex- esposti, abbandonati. Quando arrivava giugno, dormivano tutti nello stesso dormitorio, si domandavano: “Ma io dove vado?”.
Li sentivo piangere durante la notte e quindi mi avvicinavo al loro letto, essi piangendo ripetevano la stessa frase: “Ma io dove vado?“. Nessuno era mai venuto a trovarli e non sapeva chi c’era al di là del muro. La soluzione era quella di passare al di là del muro .
Situazioni del genere mi hanno aiutato a rendermi conto dei problemi della gente, del come io dò a questa gente la sensazione di essere un uomo che soffre con loro, che cerca con loro la soluzione. Non gli dico: “Guai a te se fai quella cosa”, gli dico: “Vediamo un po’ insieme qual è la soluzione migliore per te”.
Concludendo voglio sottolineare di nuovo questo aspetto: le istituzioni pubbliche come la chiesa e i partiti hanno formato della gente ed hanno dei progetti e fatto elaborazioni su un popolo che non esiste più. Esse non sanno dare risposte adeguate perché non capiscono e non sono vicine ai problemi reali che la gente vive.

CARLO CARLEVARIS

CFR. PRETIOPERAI N. 69-70 / SETTEMBRE 2006


Share This