Editoriale


 

Il numero 6 di “PRETIOPERAI” conclude i primi due anni di questa nostra “avventura” editoriale:

  • il numero zero è servito (anzitutto a noi stessi) per dare l’immagine della rivista: e sono stati gli Atti del Convegno nazionale di Firenze;
  • il numero 2 (non elenchiamo qui i numeri dispari, finalizzati al collegamento interno tra noi PO) è stato il primo tentativo (messo assieme “con timore e tremore”) di far parlare i PO su di sé, su quello che vivono, su quello che vedono e pensano; ne è uscito un “prodotto” che ha sorpreso prima di tutto noi stessi… Ci restava un dubbio: per il prossimo numero avremo ancora qualcosa da scrivere, che sia proponibile a un “giro” di amici il più largo possibile?
  • il numero 4-5 ha avuto un contenuto obbligato, impostoci dalla morte del primo tra noi, quello che più di tutti noi aveva scritto (e aveva il gusto dello scrivere): lì abbiamo lasciato dire a Sirio Politi: e ne è uscita un’altra sorpresa: lì dentro ciascuno di noi ha riconosciuto qualcosa di sè, della propria storia, delle proprie svolte…
  • questo numero 6 è il passo successivo: composto per sezioni, come il numero 2, ci pare che ne confermi l’immagine: “PRETIOPERAI” è una voce che esprime con sufficiente chiarezza quello che siamo noi PO: quello che siamo diventati, quello che riusciamo a vedere, quello che vogliamo progettare…
    Con questo non stiamo dicendo che i PO hanno sguardi simili, progetti simili; se mai, potremmo dire il contrario: lentamente, con il procedere di questa difficile fase storica che il mondo sta attraversando, ciascuno di noi si è differenziato dagli altri; a volte anche diviso: ma tutti ci unisce la storia di questi anni e la profondità delle nostre radici e la continuità della ricerca sul come – ancora oggi – si possa e si debba essere preti in mezzo al popolo con delle ipotesi di cambiamento.

Queste diversità – e a volte anche divisioni – riflette il numero che avete tra le mani: diversità e divisioni che hanno le loro radici nelle molto diverse collocazioni sia lavorative, sia ecclesiali dei pretioperai oggi.
Proviamo infatti ad elencare le condizioni di lavoro dei PO di cui si leggono i nomi nell’indice di questo numero:
– c’è quello che fa l’operaio nella media azienda, dove l’affermare il diritto di essere uniti e organizzati pare sempre più difficile… ma lui non rinuncia a tentarci (Belotti);
– e l’altro che fa i turni nella grossa azienda milanese, là dove qualche anno fa c’erano i cosiddetti “garantiti”, ma che in realtà sono “meno importanti di una macchina: al massimo sono un numero, un costo” (Bersani);
– c’è il PO della FIAT di Torino, che dopo 6 anni di cassintegrazione a zero ore, si trova in una fabbrica-confino a fare il delegato (Demichelis);
– e l’ex-delegato LANCIA che – dopo aver dovuto subire l’esperienza del confino – ha accettato di fare l’operatore sindacale a tempo pieno (D’Ottavio);
– qualche PO in fabbrica non c’è più perché ha perso il posto di lavoro ed è stato messo in prepensionamento o, più semplicemente (!), è disoccupato (i due che scrivono dal Salvador); – qualcun altro ha scelto (o è stato costretto a scegliere) di mettere braccia e testa in una cooperativa di lavoro (Brutti);
– infine, ci sono anche i PO che in fabbrica non ci sono mai stati, e si possono definire operai solo in senso più lato (Fiorini, per esempio, fa l’infermiere).

Possiamo dire, perciò, che i PO sono voce che emerge da questa realtà molto differenziata, come molto differenziata è la realtà di lavoro e di vita della maggioranza degli italiani.
E questa voce dice delle condizioni di lavoro (la prima sezione di questo numero);
dice dell’intrecciarsi di queste con il proprio essere credente (la seconda sezione: testimonianze);
dice di tentativi di nuove letture del Vangelo (la terza sezione);
e non rinuncia ad elaborare progetti di cambiamenti più complessivi, a partire dalla realtà quotidianamente vissuta (la quarta sezione: progetti sociali);
e tiene desta l’attenzione sul mondo, dicendo di quei popoli che stanno lottando per la loro liberazione (la quinta sezione: internazionalismo), dando anzi loro la parola (Puga dal Cile; Alforque dalle Filippine).
È presunzione affermare che noi PO riteniamo necessario – oggi, qui – che tutti diano ascolto a questa voce, soprattutto coloro che si ostinano a coltivare “sogni” di cambiamento? E che quindi riteniamo compito importante di noi PO continuare a farla risuonare?
Dagli amici che leggeranno questo numero ci aspettiamo una risposta sincera: con l’impegno a pubblicare non tanto gli eventuali complimenti e lodi, ma anzitutto le critiche che riceveremo.


IL GRUPPO REDAZIONALE


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