Convegno di Bergamo / 2 giugno 2018
MEMORIE PER UN FUTURO
2) In ascolto di Alex Langer


 

Fatemi iniziare con un aneddoto. Fu tre anni fa, al 20esimo anniversario della morte di Alexander Langer. Lui che fu ribelle e il bastian contrario della politica sudtirolese ebbe la prima solenne riconoscenza da parte della politica provinciale. In un quartiere popolare di nuova costruzione, la scuola elementare fu intitolata ad Alexander Langer. Non porta ora solo il nome di chi in vita fu denigrato “nemico del popolo”, ma esaudisce anche una sua richiesta politica. Di fatti, la scuola “Alexander Langer” è la prima scuola in Alto Adige che riunisca scuola di lingua italiana e scuola di lingua tedesca nello stesso edificio, sotto lo stesso tetto. Non è una scuola mistilingue che era un obiettivo di Langer, ma almeno un edificio scolastico in comune che nella storia della politica del “più chiaramente ci dividiamo e meglio ci capiamo” è decisamente un progresso.

A chiudere la cerimonia fu chiamata al microfono anche Valeria Malcontenti, vedova di Alexander Langer. E lei, linguaccia fiorentina, disse agli alunni: “Ma bambini, vi rendete conto che bella scuola avete ricevuto? Credo che Alexander non se ne sarebbe andato, se avesse visto realizzata questa scuola.” E qui Valeria fece una breve pausa per poi riprender: “D’altronde – disse – fosse ancora vivo, non ci sarebbe questa scuola”.

In via sugli altari

Non si contano più le dediche, denominazioni, onorificenze. Per non parlare di libri, film, tesi di laurea, persino una opera lirica porta il suo nome. Intitolare al suo nome una strada, una sala, un circolo, nei comuni italiani ad amministrazione di centro-sinistra è diventata questione di political corectness. Al parlamento italiano ho fatto l’esperienza che conoscere Langer (meglio: dire di conoscerlo) è trasversalmente ritenuto un dovere. Matteo Renzi, nel 2014, ha iniziato il suo discorso inaugurale alle Camere come presidente del Consiglio con una citazione di Alexander Langer. Al 20° anniversario della morte Massimo Cacciari e l’allora arcivescovo Angelo Scola di Milano gli hanno dedicato una disputa filosofico-teologica. Adriano Sofri, suo compagno di viaggio ai tempi impetuosi di “Lotta continua”, vuol sapere (e si arrabbia con chi non gli crede, come per esempio il sottoscritto) che papa Francesco avesse tratto “la reale ispirazione” alla sua enciclica “Laudato si’” da Alexander Langer.

Vero o non vero, è impressionante come l’indicibile di una volta, oggi conquisti tutti i pulpiti. È davvero in via verso gli altari. La miticizzazione è in pieno corso e non è mia intenzione contribuirvi.

Don Roberto Fiorini che ringrazio per l’invito, ha dimostrato senso dell’essenziale scegliendo, per presentare Alexander Langer, fra i tanti suoi testi, la leggenda di San Cristoforo. Anzi, più che leggenda, il pezzo è una lettera o, perché non dirlo?, è una preghiera di Alexander che già da bambino si era messo nei panni di questo santo dipinto sui muri di tante nostre chiese di campagna. In questo testo Alexander Langer riassume l’intera missione della sua vita politica: l’impegno per la conversione ecologica, prima, e secondo, “l’arte della convivenza” fra diversi. Dei tanti, troppi scritti di Alexander Langer (perché ha vissuto scrivendo) molti girano intorno a questi due temi e di essi mi vorrei occupare.

La straordinarietà del personaggio

Prima di entrare nel vivo della questione vorrei però presentare la persona, la vita di Alexander Langer, perché non ritengo un obbligo conoscerla. La ritengo, con il suo fascino e nelle sue contraddizioni, di aiuto per valutare quanto ci ha voluto dire. Basterebbe rinviare ai suoi “minima personalia”, la sua autobiografia molto poetica e rimasta incompiuta, naturalmente, per cogliere la straordinarietà del personaggio.

Alexander Langer nasce nel 1946 a Sterzing-Vipiteno, cittadina poco sotto il passo-confine del Brennero, primo di tre figli, da una delle poche famiglie borghese-laiche di quelle parti. La madre Elisabeth Kofler, ereditiera e conducente della farmacia, il padre Artur Langer, unico medico all’ospedale di Vipiteno, ebreo (non praticante) di origini viennesi. Il piccolo Alexander si preoccupa e prende un suo compleanno per espediente per chiedere a mamma, “perché papà non va mai in chiesa?”. La madre tranquillizza il bambino: “Papà lavora tutto il giorno e tutti i giorni in ospedale e serve Dio così in altro modo. Ti potrà confermare il cappellano che va bene così.”

A 13 anni Alexander viene iscritto al Ginnasio dei Francescani e fa il pendolare da Vipiteno a Bolzano che sono 70 chilometri in treno. Quindicenne, il ragazzo, sempre primo della classe, fonda con altri compagni del ginnasio un giornalino. Si chiama “Offenes Wort”, parola aperta, e l’editoriale del primo numero, a firma di “miles” che è Alexander, inizia così:

“Vogliamo essere a disposizione di tutti, vogliamo aiutare tutti, cerchiamo il contatto con tutti. Il nostro aiuto è offerto a tutti, la nostra preghiera è per tutti. Rivolgetevi a noi e vi aiuteremo secondo le nostre forze.”

Tutti, tutti, tutti … Riuscireste a formulare un programma più radicale, smisurato e “totalitario”? Alexander, questo appello non l’ha solo scritto, l’ha vissuto da alunno dai francescani a Bolzano, da studente di giurisprudenza a Firenze, da “miles” ovvero militante prima in organizzazioni cristiane poi in Lotta Continua, da insegnante, giornalista, politico, da consigliere regionale a Bolzano a parlamentare europeo con mille campagne e spedizioni in altrettanti posti di crisi in giro per il mondo fino a quel pomeriggio del 3 luglio 1995 quando fu trovato impiccato su un albicocco in un uliveto alle porte della sua Firenze con sotto il biglietto su cui era scritto nella sua bella calligrafia in tedesco:

“I pesi mi sono diventati insopportabili, non ce la faccio più. Vi prego di perdonarmi tutti, anche per il modo di dipartita. Un grazie a coloro che mi hanno aiutato ad andare avanti. Non rimane da parte mia alcuna amarezza nei confronti di coloro che hanno aggravato i miei problemi. ‘Venite a me, voi che siete stanchi ed oberati!’ Anche ad accettare questo invito mi manca la forza. Così me ne vado più disperato che mai. Non siate tristi, continuate in ciò che era bene.”

Ci tengo molto a citare questa letterina, chiamiamola di disperato addio, perché molte, troppe biografie rimuovono la tragica fine dell’eroe. Ritengo un autentico falso sottacerlo. Il suicidio per cui la lingua tedesca oltre al prosaico “Selbstmord” dispone della bella parola “Freitod”, cioè morte libera, un eufemismo, perché è sempre un fallimento. Me lo ricorda spesso Valeria, vedova di Alexander. E parlare di Langer senza ricordare il fallimento finale è intellettualmente disonesto.

Ho avuto, a pochi giorni dalla morte di Alexander, un lungo colloquio-intervista con il suo collega parlamentare europeo Otto von Habsburg, figlio dell’ultimo Kaiser austro-ungarico, conservatore acerrimo, ma nonostante ciò amico ed estimatore del collega verde Alexander Langer. Habsburg mi parlava dell’ “amico”. Gli avrebbe intimato, così mi raccontava: “Herr Doktor Langer, Lei lavora troppo. Mi faccia il piacere, lavori di meno!” Il “troppo” e i “tutti”, sicuramente sono una, se non la ragione del suicidio a 49 anni.

A proposito dei “troppi”: Adriano Sofri, nella sua prefazione alla bella antologia langeriana “Il viaggiatore leggero” racconta di una simpatica discussione degli studenti fiorentini, fra cui Langer, con don Milani. Si dibatteva sul comandamento biblico del “Ama il tuo prossimo come te stesso!” e di seguito su quanti potessero essere “nostro prossimo”. Il prete di Barbiana sostenne che “nessuno può amare davvero più di tre-quattrocento persone”. Sono tante? Poche? Il numero doveva apparire decisamente modesto alla sensibilità di quel giovane infervorato che si era prefissato come motto di vita il “vogliamo essere a disposizione di tutti”. Già ai francescani, il prefetto della Congregazione mariana intimava al ragazzo idealista: “Fa’ attenzione a non guastare il buono con il meglio!” Al che il giovane Alexander avrebbe risposto di volersi semplicemente attenere alla massima biblica: “Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro che è nei cieli”. Promise, però, quasi a titolo di compromesso: “Terrò conto del tuo consiglio”.

Qui non è il tempo per elencare neanche solo parte delle iniziative caritative, spirituali e anche politiche del giovane Langer. A maturità sostenuta (a voti massimi, si intende), l’enfant prodige è deciso di entrare nell’ordine dei francescani. Avrebbe assunto il nome di fra Cristoforo e la comunità conventuale di Bolzano si spaccava fra chi apprese con orgoglio la notizia dell’(ormai illustre) novizio e chi con aperto stupore. Era chiaro a tutti che con un fra Cristoforo il quieto vivere dietro le mura del convento sarebbe finito,
Comunque, papà Artur mise il veto contro la decisione del figlio (maturo sì, ma all’epoca non ancora maggiorenne).

Parabole, non teorie

Alexander ripiegò su Firenze e lo studio di giurisprudenza. Entrò subito in contatto con i gruppi più irrequieti del cattolicesimo fiorentino: l’Isolotto, padre Balducci e le sue “Testimonianze”, poi don Milani al quale, grazie ad una amica di famiglia, ebrea, Alexander aveva uno speciale accesso. In seguito gli tradusse in tedesco “Lettera ad una professoressa”. Conosce Valeria, sua futura moglie, impegnata nella Fuci. Sono i tempi – e anche il luogo – più fruttiferi del Concilio Vaticano II. Alexander fa il cicerone a padri conciliari, in latino, si intende. Inizia l’iter politico in senso più stretto come è noto. Rompendo con la chiesa gerarchica sì, ma mai con il “mondo” cristiano e, ho delle prove, neppure con la fede. Langer entra in Lotta continua, ne diventa uno dei leader, per brevi periodi sarà il direttore dell’omonimo giornale. Il sudtirolese si distingue sin dall’inizio e per tutto il tempo della sua militanza essenzialmente per due qualità:

Innanzitutto Il suo linguaggio, a parte l’accento tedesco, non si è mai piegato alla presunta irresistibilità del sociologese degli intellettuali sessantottini. Mi viene in mente un passaggio del bel libricino “il nespolo” di Luigi Pintor: “La fortuna del Nazareno (Gesù), scrisse, è stata quella di essersi imbattuto nei quattro più bravi cronisti della storia”. Voleva dire, degli evangelisti. I quali “narrano storie e non fanno teorie, parlano in parabole e non per concetti.” Ecco, la fonte del linguaggio anche politico di Alexander Langer è la Bibbia, non la Scuola di Francoforte.

Inoltre le sue doti da traduttore. Traduttore nel senso più vasto della parola che co-include anche il traghettatore, il pontiere. “Alex sapeva le lingue”, mi rispose per prima cosa Adriano Sofri, quando in carcere a Pisa gli chiesi di caratterizzarmi il suo compagno di tante avventure. Sapeva “tradurre”, e non solo linguisticamente. Traduceva contenuti. Si esercitava da pontiere, da saltatore di muri. Trasportava il messaggio delle lotte operaie italiane di fine anni 60, inizi 70 in Germania. Negli anni 80, Langer non era l’inventore del movimento verde. Avendolo studiato in Germania, l’ha trapiantato – adattandolo! – in Italia. Le sue missioni di pace nei Balcani (con il disperato tentativo di portare papa Giovanni Paolo II. in visita a Sarajevo) le basava sulle strutture dei movimenti per la pace germanici. Il san Cristoforo in sé, Langer se lo inventava in centinaia di iniziative.

Dovessi scegliere dalla ricca produzione politico-spirituale di Alexander Langer i testi più significativi perché più sostenibili e perché no: più profetici, questi sarebbero due. Sono i “dieci punti per la convivenza” e un suo discorso, del 1994, sulla “conversione ecologica”. Sono due lunghi trattati, dal loro autore stesso compressi nella parabola di San Cristoforo, ed ognuno di essi per sé sarebbe un programma di buon governo.

Convivenza: arte ed impegno

Inizio con il decalogo sull’arte della convivenza. Alex parla di arte, perché in relazione con la pacifica, fruttifera convivenza, di arte si tratta. E richiede impegno. A fondo delle rispettive riflessioni sta l’esperienza fatta con la convivenza fra i gruppi linguistici tedesco e italiano in Alto Adige – Südtirol su cui Langer ha lavorato per buona parte della sua vita politica. E ci sta anche la tragedia della guerra in Bosnia con la pulizia etnica. Comunque, le analisi tratte e le terapie proposte valgono per qualsiasi situazione di compresenza di diverse lingue, culture, religioni, etnie.

Vado per punti, trattandosi di un decalogo, appunto:

1. La compresenza pluri-etnica sarà sempre più la norma che l’eccezione.
E l’alternativa è tra esclusivismo etnico e convivenza. Situazioni di compresenza di comunità di diversa lingua, cultura, religione, etnia sullo stesso territorio saranno sempre più frequenti, soprattutto nelle città. Questa, d’altronde, non è una novità. Anche nelle città antiche e medievali si trovavano quartieri africani, greci, armeni, ebrei, polacchi, tedeschi, spagnoli… La convivenza pluri-etnica può essere percepita e vissuta come arricchimento ed opportunità piuttosto che come condanna: non servono prediche contro razzismo, intolleranza e xenofobia, ma esperienze e progetti positivi e una cultura della convivenza.

2. Identità e convivenza: mai l’una senza l’altra; né inclusione né esclusione forzata.
Bisogna consentire una più vasta gamma di scelte individuali e collettive, accettando ed offrendo momenti di “intimità” etnica così come di incontro e cooperazione inter-etnica.

3. Conoscersi, parlarsi, informarsi, inter-agire: “più abbiamo a che fare gli uni con gli altri, meglio ci comprenderemo”.

4. Etnico magari sì, ma non a una sola dimensione.
Ha la sua legittimità, e talvolta forse anche le sue buone ragioni, l’organizzazione etnica della comunità, delle differenti comunità: purché sia scelta liberamente, e non diventi a sua volta integralista e totalitaria.
Quindi dovremo accettare partiti etnici, associazioni etniche, club etnici, spesso anche scuole e chiese etniche. E’ essenziale che le persone si possano incontrare e parlare e farsi valere non solo attraverso la “rappresentanza diplomatica” della propria etnia, ma direttamente: quindi è assai rilevante che ogni persona possa godere di robusti diritti umani individuali, accanto ai necessari diritti collettivi.

5. Definire e delimitare nel modo meno rigido possibile l’appartenenza, non escludere appartenenze ed interferenze plurime.
L’enfasi della disciplina o addirittura dell’imposizione etnica nell’uso della lingua, nella pratica religiosa, nel vestirsi (sino all’uniforme imposta), nei comportamenti quotidiani, e la definizione addirittura legale dell’appartenenza (registrazioni, annotazioni su documenti, ecc.) portano in sé una insana spinta a contarsi, alla prova di forza, all’erezione di barricate e frontiere fisiche, alla richiesta di un territorio tutto e solo proprio.
L’autodeterminazione dei soggetti e delle comunità non deve partire dalla definizione delle proprie frontiere e dei divieti di accesso, bensì piuttosto dalla definizione in positivo dei propri valori ed obiettivi, e non deve arrivare all’esclusivismo ed alla separatezza.

6. La compresenza di etnie, lingue, culture, religioni e tradizioni diverse sullo stesso territorio, nella stessa città, deve essere riconosciuta e resa visibile. Gli appartenenti alle diverse comunità conviventi devono sentire che sono “di casa”, che hanno cittadinanza, che sono accettati e radicati (o che possono mettere radici).
Faticosamente l’Europa ha imparato ad accettare la presenza di più confessioni che possono coesistere sullo stesso territorio e non puntare a dominare su tutti e tutto o ad espellersi a vicenda: ora bisogna che lo stesso processo avvenga esplicitamente a proposito di realtà pluri-etnica. Convivere tra etnie diverse sullo stesso spazio, con diritti individuali e collettivi appropriati per assicurare pari dignità e libertà a tutti, deve diventare la regola, non l’eccezione.

7. Diritti e garanzie sono essenziali ma non bastano; norme etnocentriche favoriscono comportamenti etnocentrici.
Non si creda che identità etnica e convivenza inter-etnica possano essere assicurate innanzitutto da leggi, istituzioni, strutture e tribunali, se non sono radicate tra la gente e non trovano fondamento in un diffuso consenso sociale. Ma non si sottovaluti neanche l’importanza di una cornice normativa chiara e rassicurante, che garantisca a tutti il diritto alla propria identità. E non si dimentichi che leggi e strutture fortemente etnocentriche (fondate cioè sulla continua enfasi dell’appartenenza etnica, sulla netta separazione etnica, ecc.) finiscono inevitabilmente ad inasprire conflitti e tensioni ed a generare o rafforzare atteggiamenti etnocentrici.

8. Importanza di mediatori, costruttori di ponti, saltatori di muri, esploratori di frontiera.
Occorrono “traditori della compattezza etnica”, ma non “transfughi”. In ogni situazione di coesistenza inter-etnica si sconta, in principio, una mancanza di conoscenza reciproca, di rapporti, di familiarità. Estrema importanza positiva possono avere persone, gruppi, istituzioni che si collochino consapevolmente ai confini tra le comunità conviventi e coltivino in tutti i modi la conoscenza, il dialogo, la cooperazione. E’ di fondamentale rilevanza che qualcuno, in simili società, si dedichi all’esplorazione ed al superamento dei confini: attività ingrata perché magari in situazioni di tensione e conflitto assomiglierà al contrabbando, ma è decisiva per ammorbidire le rigidità, relativizzare le frontiere, favorire l’inter-azione. Ciò richiederà che in ogni comunità etnica si valorizzino le persone e le forze capaci di autocritica, verso la propria comunità: veri e propri “traditori della compattezza etnica”, che però non si devono mai trasformare in transfughi, se vogliono mantenere le radici e restare credibili.

9. Una condizione vitale: bandire ogni violenza.
Nella coesistenza inter-etnica è difficile che non si abbiano tensioni, competizione, conflitti: Perciò una necessità si erge pertanto imperiosa su tutte le altre: bandire ogni forma di violenza. A tal scopo non bastano leggi o polizie, ma occorre una decisa repulsa sociale e morale, con radici forti: un convinto e convincente no alla violenza.

10. Le piante pioniere della cultura della convivenza: gruppi misti inter-etnici.
Un valore inestimabile possono avere in situazioni di tensione, conflittualità o anche semplice coesistenza inter-etnica gruppi misti (per piccoli che possano essere). Saranno in ogni caso il terreno più avanzato di sperimentazione della convivenza, e meritano pertanto ogni appoggio da parte di chi ha a cuore l’arte e la cultura della convivenza.

Questo il decalogo sulla convivenza che, appunto, è un’arte, richiede impegno.

La conversione ecologica

E arrivo – dopo la convivenza fra gli uomini – alla convivenza con la natura. Al trattato sulla conversione ecologica, presente, in modo tanto sintetico quanto poetico, pure nella parabola di san Cristoforo.

Nel movimento ecologista e pacifista Alexander Langer ha cercato di elaborare una prospettiva culturale e politica. Ha creduto poco nell’ecologia dei filtri e dei valori limite (senza trascurare pure questi). Si è impegnato però di più in favore di una conversione ecologica della società, l’auto-limitazione cosciente, la valorizzazione della dimensione locale e comunitaria, la convivialità, una dimensione spirituale e valori profondi.

Insomma, della green economy (oggi toccasana tanto osannata da tutti per tutto), Langer diffidava molto. “Da qualche secolo e in rapido crescendo si produce falsa ricchezza per sfuggire a false povertà. … Falso benessere come liberazione da supposta indigenza è la nostra malattia del secolo, nella parte industrializzata e ‘sviluppata’ del pianeta

Non sto qui ad elencare analisi dello status quo e le terapie proposte per una conversione ecologica del nostro sistema di produzione e di vita. Ci tengo solo ad evidenziare che l’intero ragionamento di Langer è pervaso da una vena pessimistica, per non dire fatalista. Il discorso risale all’autunno 1994, mezz’anno prima della sua morte. Possibile che la forza di crederci gli si fosse già affievolita. L’indefesso portatore di speranze si chiede: perché l’allarme non ha prodotto la svolta? Esprime dei dubbi sul concetto di battaglia dello “sviluppo sostenibile”. Che sia la nuovo formula mistificante? La quadratura del cerchio?

Mette in guardia dal radicalismo dello “A mali estremi, estremi rimedi!” che nel caso sarebbe la tentazione di ricorrere allo “stato etico-ecologico”. Insomma, ad un eco-autoritarismo sebbene illuminato o possibilmente mondiale. Le rispettive tentazioni nel movimento ci sono, e Langer gli oppone un rifiuto netto. Dice: “Ogni volta che si è sperimentato lo Stato etico in alternativa a situazioni e stati non-etici (e quindi senz’altro deplorevoli), il bilancio etico della privazione di libertà si è rivelato disastroso.”

Scrollando le varie misure proposte dalla politica ecologista – tutte buone, ma tutte inadeguate -, Langer arriva alla conclusione che “una politica ecologica potrà aversi solo sulla base di nuove (forse antiche) convinzioni culturali e civili, elaborate in larga misura al di fuori della politica, fondate piuttosto su basi religiose, etiche, estetiche, tradizionali”.

E viene a sintetizzare il nuovo ideale di vita in un “lentius, profundius, suavius” . Sarebbe il capovolgimento del motto di memoria decoubertiniana “citius, altius, fortius” che meglio di ogni altra sintesi rappresenta la quintessenza dello spirito della nostra civiltà, dove l’agonismo e la competizione non sono più la nobilitazione sportiva di occasioni di festa, bensì la norma quotidiana e onnipervadente.

Conclusione del ragionamento di Alexander Langer in proposito, 25 anni fa: “La conversione ecologica, se non apparirà socialmente desiderabile, non avrà alcuna chance.” Una politica ecologica solamente punitiva che proclami sacco e cenere e presupponga un diffuso ideale pauperistico, resterà senza chances nella competizione democratica. Sono affermazioni molto realistiche. Una presa d’atto amara. Il disincanto di uno che le ha provate tutte.

Senza la sosta

Come chiusura vi offro questo ricordo.
Il giorno di San Silvestro dell’anno 1994, mezz’anno prima che si togliesse la vita, Alexander Langer scrisse una cartolina da Assisi. Lui era un maniaco delle cartoline. Ne scriveva a pacchi e da tutte le parti del mondo (eh, non c’era ancora né telefonino né internet!). A seconda dell’argomento o del destinatario sceglieva non solo il motivo della cartolina, ma pure il francobollo. In quel suo ultimo San Silvestro da Assisi scelse il motivo, molto apprezzato fra i pittori medioevali, della sacra famiglia in sosta durante la fuga in Egitto. Sul tergo Alexander scrive: “Senza la sosta, come i pittori amano raffigurarla, io continuo la mia fuga verso un Egitto che non trovo”. Credo che noi nel nostro impegno politico-sociale, faremmo bene, ogni tanto, a differenza di fra Cristoforo Alexander Langer, di concederci una sosta, “come i pittori amano raffigurarla”.

 

FLORIAN KRONBICHLER


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