10 giugno 2017 / Bergamo
TERRA E POPOLI. FUTURO PROSSIMO
terza relazione


 

Se tra gli economisti, di fronte alla devastante crisi climatica e ambientale che l’umanità sta attraversando, non sembra esserci alcuna tendenza a interrogarsi sui limiti del pianeta, cioè sulla compatibilità dell’economia industrializzata con le disponibilità energetiche e ambientali della Terra, non mancano invece le visioni e le proposte dei popoli per un’alternativa all’attuale modello di civiltà.

Un punto centrale di riferimento per ogni riflessione antisistemica è senza dubbio costituito dal concetto di buen vivir, inteso come una buona qualità della vita per tutti i viventi, in un rapporto di profonda armonia con la Pachamama, la Madre Terra, e secondo un modello di vita comunitaria in base a cui, “se uno vince o perde, tutti vinciamo o perdiamo”. È un’opzione di vita per tutti, di vita in pienezza, chiaramente contrapposta tanto alla vita buona di matrice aristotelica – slegata dal mondo naturale, centrata sulla polis, vincolata allo sviluppo dell’intelletto e separata dal lavoro (destinato alle maggioranze di esseri umani non civilizzati) – quanto al benessere dell’attuale modello occidentale, basato sulla libertà dell’individuo e sulla competizione, fino al culmine dell’American way of life. Un nuovo paradigma di civiltà, dunque, sempre più necessario di fronte al catastrofico impatto sul pianeta del modello del “vivere meglio”, della delirante visione di uno sviluppo infinito in un mondo finito.

Se il buen vivir è considerato come la più importante riflessione generata in America Latina, un altro grande motivo ispiratore nella ricerca di nuovi modelli di civiltà è dato dal concetto africano di ubuntu, con il suo richiamo all’esistenza di un legame solidale tra tutti gli esseri umani e non umani. Un concetto anch’esso estraneo alla nostra cultura individualista, esprimendo una visione in cui “una persona è tale attraverso altre persone”, ossia “io sono perché noi siamo e, poiché siamo, io sono” o, ancora, “io posso essere io solo attraverso te e con te”, in un legame permanente di tutti con tutti. Un’interazione tra esseri umani e altri esseri o entità cosmiche che è, a livello primordiale, finalizzata a generare, curare e trasmettere la vita.

Un pilastro, questo, della spiritualità, dell’etica e dell’antropologia africane, con il loro accento sulla forza vitale – quell’energia che circola all’interno della comunità che il muntu (essere umano) è chiamato a introiettare, rafforzare e trasmettere – e sulla fecondità, lo strumento attraverso cui si entra nella catena vitale che unisce il mondo visibile a quello invisibile, iniziando con i bambini, passando attraverso gli adulti, continuando con gli anziani e finendo con gli ancestrali, coloro che sono passati all’altra riva, da cui proteggono gli altri.

I tanti volti del Buen Vivir

Non mancano, tuttavia, neppure tradizioni critiche e alternative all’interno dello stesso pensiero occidentale. Il Buen Vivir, si potrebbe dire, non appartiene solo al mondo indigeno, ma sta nascendo in modi diversi in distinti Paesi e per iniziativa di differenti attori sociali, come un concetto in costruzione.

Come sottolinea il sociologo uruguayano Eduardo Gudynas, il Buen Vivir non si riduce, insomma, al sumak kawsay o suma qamaña andini; non esiste neppure un Buen Vivir “indigeno”, in quanto tale categoria «è un artificio che serve solo per omogeneizzare molti e diversi popoli e nazionalità, ciascuno dei quali con la propria concezione del Buen Vivir». È un concetto plurale che può essere definito, evidenzia il sociologo, come una piattaforma che serve a raggruppare diverse posizioni, ciascuna con la sua specificità, ma tutte accomunate:

– dal rifiuto dello sviluppo convenzionale e dalla denuncia dei suoi effetti negativi;

– dalla difesa di un’altra relazione con la Natura, riconosciuta come soggetto di diritto, riconcettualizzando l’idea occidentale di una Natura esterna a noi e riposizionando l’essere umano come parte integrante della trama della vita;

– dalla considerazione della qualità della vita come qualcosa che non dipende soltanto dal possesso di beni materiali o dal livello di reddito, ma che è legato in maniera profonda a un buen vivir spirituale.

A tale piattaforma possono essere senz’altro ricondotte tanto l’ecologia profonda (il cui padre è il filosofo norvegese Arne Naess) – che respinge l’antropocentrismo della Modernità e difende una posizione biocentrica legata al riconoscimento dei diritti della Natura – quanto la bioeconomia dell’economista rumeno Nicholas Georgescu-Roegen, secondo il quale la scienza economica non può prescindere dalle leggi della fisica, a cominciare dal secondo principio della termodinamica, in base a cui alla fine di ogni processo la qualità dell’energia (cioè la possibilità che questa possa essere riutilizzata) è sempre peggiore rispetto all’inizio. Cosicché, qualsiasi processo economico che produce merci riduce la disponibilità di energia nel futuro e quindi la possibilità futura di produrre altre merci e dunque le materie prime possono essere reimpiegate nel ciclo economico solo in misura minore e con un maggiore dispendio di energia. Da qui, secondo Georgescu-Roegen, la necessità di ripensare radicalmente la scienza economica, rendendola capace di incorporare il principio dell’entropia e più in generale i “limiti alla crescita”.

Su questa linea si pone anche la critica allo sviluppo di Serge Latouche, con la demistificazione del concetto di sviluppo sostenibile, essendo il concetto di sviluppo indissolubilmente legato a quello di crescita economica, una crescita che già allo stato attuale supera di gran lunga la capacità di rigenerazione dell’ecosistema. Si tratta, per usare la celebre espressione dell’economista Kenneth Boulding, dell’«economia del cowboy», quella dello sfruttamento totale delle risorse naturali, contrapposta all’«economia del cosmonauta», in base alla quale è necessario riconoscere che la Terra non è diversa da una capsula spaziale, in cui gli astronauti possono contare soltanto sulle risorse che si trovano al suo interno e solo al suo interno possono mettere i loro rifiuti. Non a caso, misurando l’impatto ambientale del nostro stile di vita secondo il concetto di “impronta ecologica”, risulta evidente l’insostenibilità del quadro attuale, tanto dal punto di vista dell’equità dei diritti di prelievo sulla natura quanto da quello della capacità di rigenerazione della biosfera: se tutti gli abitanti del Pianeta avessero un’Impronta Ecologica come quella del Qatar avremmo bisogno di 4,8 Pianeti e se avessero uno stile di vita di un tipico residente degli Stati Uniti necessiteremmo di 3,9 Pianeti.

Siamo dunque lontanissimi, evidenzia Latouche, dall’uguaglianza planetaria, e più ancora da una civiltà sostenibile. Né si tratta solo di trovare tecnologie più pulite: per quanto pulita possa essere una tecnologia, produrrà sempre rifiuti e inquinamento e sempre accrescerà l’entropia del sistema. C’è anzi un “effetto rimbalzo” a smontare l’illusione che il progresso tecnologico – consentendo di produrre di più con un sempre minore impiego di materia e di energia – porterà di per sé la soluzione della questione ecologica, come indica, per esempio, l’avvento dell’informatica, che avrebbe dovuto portare, tra l’altro, alla riduzione del consumo di carta e del prelievo di risorse naturali e che, invece, grazie alla maggiore facilità nella produzione di documenti, ha decuplicato tale consumo, con relativo inquinamento legato alla fabbricazione, al funzionamento e allo smantellamento dei computer e dei loro accessori. Non si tratta allora di domandarsi solo, di fronte a ogni nuova tecnologia, se questa sia più o meno efficiente della precedente, ma di ripensare le strutture economiche secondo forme e dimensioni tali da garantire una duratura capacità di produrre benessere in condizioni di minima dissipazione entropica: in direzione, cioè, di una nuova localizzazione dell’economia e degli scambi, di una limitazione delle dimensioni delle aziende, dello sviluppo di un’agricoltura locale e biologica. In questo quadro, pianificare la decrescita significa, secondo Latouche, rinunciare alla credenza che “di più” significhi “meglio”, mirando – attraverso il «circolo virtuoso» delle otto “R”: «rivalutare, riconcettualizzare, ristrutturare, ridistribuire, rilocalizzare, ridurre, riutilizzare e riciclare» – a «una società nella quale si vivrà meglio lavorando e consumando di meno».

La decrescita, pertanto, come evidenzia Maurizio Pallante, non ha niente a che fare con la recessione, per quanto comporti anch’essa una diminuzione del Pil. Perché, se la recessione è una diminuzione del Pil non guidata – e dunque una diminuzione che, in una società fondata sulla crescita del Pil, comporta un aumento ulteriore della disoccupazione e del disagio sociale – la decrescita è una riduzione selettiva, guidata, del Pil, attraverso l’introduzione di elementi di valutazione qualitativa nell’attività umana. E, in quanto tale, rappresenta una vera rivoluzione culturale, in grado di costruire un diverso immaginario collettivo, di definire un diverso sistema di valori e persino di favorire la ripresa di quell’opera sapiente e paziente con cui gli esseri umani hanno aggiunto nel corso dei secoli bellezza alla bellezza originaria dei luoghi in cui vivono.

In realtà, come chiarisce Serge Latouche, «propriamente parlando non esiste una “teoria della decrescita»: «La decrescita è semplicemente uno slogan, lanciato da coloro che procedono a una critica radicale dello sviluppo, con lo scopo di spezzare il conformismo economicista e di delineare un progetto di ricambio per una politica del dopo-sviluppo». La decrescita, insomma, sarebbe «piuttosto la matrice che permette di costruire delle alternative», «una proposta necessaria per riaprire gli spazi dell’inventività e della creatività, bloccati dal totalitarismo economicista, sviluppista e progressista». A rigore, continua, bisognerebbe parlare più di una “a-crescita”, che di una “de-crescita”, così come si parla di a-teismo, tanto più che si tratta proprio «di abbandonare una fede e una religione»: quella della crescita, che non è più «né sostenibile, né auspicabile, né durevole sia socialmente che ecologicamente».

E la costruzione di una società fuori crescita è, secondo Latouche, necessaria e auspicabile anche nel Sud del mondo oltreché nel Nord, se le società del Sud vogliono evitare «di ritrovarsi più tardi nell’impasse alla quale questa avventura le condanna». «Per loro si tratterebbe, sempre che siano ancora in tempo, di “de-svilupparsi”, cioè di levare gli ostacoli che si ergono sulla loro strada, per realizzarsi altrimenti». E ciò senza comunque dimenticare «che la decrescita nel Nord è una condizione per la realizzazione di tutte le alternative nel Sud».

Verso un nuovo paradigma

Se non mancano i nomi per l’alternativa all’attuale modello di civiltà, come iniziare a costruire tale percorso, avviando la transizione a una società post-capitalista? Nel momento in cui si assiste a un’erosione progressiva del modello di sviluppo prevalente negli ultimi 500 anni, messo sempre più in discussione dalla coscienza che la terra non è una risorsa inesauribile e dalla conoscenza più precisa dei danni irreversibili agli ecosistemi dovuti all’attività industriale, è evidente che le regolamentazioni non sono più sufficienti, tanto più che il sistema dominante è diventato così dogmatico da tollerare solamente regolamentazioni leggere e provvisorie.

Si tratta allora di porre seriamente la questione della transizione verso un nuovo paradigma, passando da una concezione che vede l’essere umano ergersi contro o sopra la natura a una concezione in cui l’essere umano si riconosce parte di una comune “famiglia terrestre”, generando nuove forme di “cittadinanza” ecologica che riconoscano dignità a tutte le forme di vita. Ne consegue la necessità, per i movimenti popolari di opporsi in maniera unitaria, forte e decisa, a qualsiasi politica destinata ad avere ricadute negative sugli ecosistemi e sui popoli che li abitano, seguendo il criterio di sostenere tutto ciò che favorisca una transizione verso una società post-estrattivista e post-capitalista e di combattere tutto ciò che la ostacoli, generando passo dopo passo un cambiamento reale.

Ma se la nostra unica possibilità di sconfiggere l’attuale modello è nella capacità di mobilitazione della società, a livello nazionale e mondiale, questo non può che avvenire attraverso quel vecchio lavoro di base che richiede dai militanti tempo, pazienza e umiltà, colpevolmente trascurato da troppi movimenti sedotti da una lotta meramente istituzionale. Attraverso un processo permanente di controinformazione, di formazione e di organizzazione politica, di riflessione sui necessari passi da compiere per una transizione verso un nuovo modello di civiltà, che lo si chiami buen vivir, ecosocialismo o decrescita: un altro paradigma della vita umana sulla Terra Madre, centrato sul diritto all’esistenza di tutte le forme di vita, sull’equità inter e intragenerazionale tra gli esseri umani per l’uso sostenibile delle risorse naturali, sul mantenimento e sulla rigenerazione dei cicli vitali della natura, sul recupero della visione degli antichi abitanti di Abya Yala, secondo cui non è la terra che appartiene a noi, ma siamo noi ad appartenere ad essa.

Ma, per farlo, è anche necessaria una presa di coscienza spirituale ispirata a un nuovo rapporto con la Terra, la nostra casa comune, e con la nostra storia cosmica.

Le Scritture giudaico-cristiane hanno fondamentalmente mostrato la natura come lo scenario posto da Dio affinché l’essere umano si sviluppi servendosi di essa e sottomettendola con il proprio lavoro, con la conseguenza che abbiamo considerato il mondo come un mero deposito di “cose” inanimate. Una visione che ci ha reso “a-naturali”, alienandoci dalla natura per collocarci su un piano radicalmente altro, quello della storia della salvezza, e “anti-naturali”, convinti della necessità di fuggire dal mondo e di andare oltre la materia “per divinizzarci”.

In realtà, gli esseri umani non sono al di sopra della natura: non veniamo da sopra, né da fuori, ma da dentro e da sotto, dalla Terra, dal Cosmo. Tutti gli atomi del nostro corpo sono gli stessi atomi che compongono le stelle dell’universo. Siamo, letteralmente, polvere di stelle, formati della stessa materia del Pianeta. Quando guardiamo le stelle, siamo idrogeno che contempla idrogeno, ci ricorda Cardenal nel suo Canto Cosmico. Come scrive Leonardo Boff, «siamo la Terra stessa che in un momento avanzato della sua evoluzione ha cominciato a sentire, pensare, amare e venerare».

Ancora, se la Genesi dice che l’essere umano è l’unico plasmato a immagine e somiglianza di Dio, la scienza attuale ha constatato l’unità della materia nell’universo, rivelando che non ci sono differenze sostanziali fra il corpo umano e quello di altri esseri viventi. Tutti gli esseri viventi, dai primi batteri comparsi sulla terra passando per i dinosauri e arrivando fino a noi, presentano gli stessi elementi di base che costituiscono la vita e possono quindi essere considerati cugini o fratelli, membri di un’unica famiglia, di un medesimo corpo vivo, il corpo di Gaia. In ciascuno di noi vi sono atomi che prima sono stati presenti, chissà, nelle montagne, nelle tartarughe, nei girasoli, nelle libellule e anche in altri umani.

La storia dell’Universo si rivela dunque come parte della nostra stessa storia, della nostra identità. Come evidenzia il teologo Manuel Gonzalo, «siamo la somma di conquiste che la Comunità della Vita su questo pianeta è andata faticosamente realizzando» nel corso di un lunghissimo tempo. Conquiste che portiamo inscritte dentro di noi, nel nostro stesso cervello: nella parte più antica, nella vecchia scatola cranica, abbiamo un cervello come quello dei rettili, che presiede agli istinti primari. Intorno, c’è il cervello limbico, a cui la vita ha dato forma con i mammiferi, portatori della novità dell’affetto, della cura materna nei confronti dei piccoli. E con noi, infine, si è aggiunto un terzo cervello, la corteccia cerebrale, capace di pensiero astratto, formale, riflessivo, e di linguaggio. Un giorno, questo terzo cervello, ancora così giovane, avrà il pieno controllo sui nostri istinti primari, e diventeremo migliori di quello che siamo oggi.

Un giorno, forse, comprenderemo che, come afferma Boff, «il cuore del mondo, il cuore dell’essere umano, il cuore di Dio sono un unico grande cuore». E questo aiuterà l’umanità a vivere in questo pianeta proteggendolo, riscattando quello che abbiamo perduto in Occidente: il senso del rispetto e della venerazione. Ed è così, allora, che potrà nascere una nuova era e una pace perenne con gli esseri umani e con la terra, la nostra Casa Comune.

Claudia Fanti


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