“Abita la terra e vivi con fede” (Sal 37)
Rileggiamo oggi la Gaudium et Spes

Convegno di Bergamo 2014 / Contributi


 

La Chiesa diocesana a cui appartengo, diocesi di Vittorio Veneto, ha celebrato nel marzo 2012 il suo quarto Convegno, proprio con i versetti “ Abita la terra e vivi con fede”. Credo di essere stato tra i suggeritori di questo titolo. E’ un versetto del Salmo 37/36.
Vengo da Vittorio Veneto dove è stato vescovo Albino Luciani nei primi 10 anni di episcopato.

Il sogno dell’ et – et

Questo versetto mi suggerisce sempre l’interrogativo che i miei compagni di lavoro negli anni 70 mi ponevano: “ perché tu vivi così?”.
Questa è la domanda più bella che mi sono sentito rivolgere in quei primi anni. Perché desideravo appunto abitare la terra, essere cittadino di questo mondo, uomo del lavoro e nutrirmi di fede, nutrirmi di fedeltà. Voglio sottolinearlo perché per me è stato molto importante: rappresenta una sintesi di vita. Ho sempre rifiutato gli aut-aut: se vuoi essere
prete non puoi più essere operaio, se continui ad essere operaio, io Vescovo non ti ordino prete. Nella parabola della mia vita, con ostinazione, con cocciutaggine, e anche con fierezza e parzialità, ho sempre sostenuto che la vita è una composizione. Il testo biblico lo attesta:non sono solo terra, in me c’è una ruah, non sono solo terra, sono anche una forza che non mi spiego, una energia, una vitalità.
Luigi stamattina parlava di Spirito, mi ritrovo molto. Sono una terra abitata dallo Spirito di Dio: convinzione per me fondamentale che poi ho tentato di approfondire nei tempi della mia formazione e della mia umanizzazione.
Per me l’ideale fondamentale del vivere è diventare umano e mi rende umano la capacità di stare nella vita come uno che, continuamente guardandosi intorno, punta ad un’essenzialità da un lato e a un’armonizzazione dall’altro. E’ diventato decisivo ciò che scrive Bonhoeffer: il senso dell’esperienza cristiana è “pregare e fare ciò che è giusto in mezzo agli uomini”.
Nell’ evangelo Gesù ci dice: amerai il Signore Dio tuo e amerai il prossimo tuo. Nella regola di San Benedetto si legge: prega e lavora. Ancora Bonhoeffer: resistenza e resa, ortodossia e ortoprassi, parola di Dio e solidarietà umana, evangelizzazione e promozione umana. Mi ritrovo in ciò che Don Tonino Bello di più caro mi ha affidato, quando scriveva “Stola e grembiule”. Ripeteva spesso: “Ama la gente, i poveri soprattutto e Gesù Cristo”. E’ importante sottolineare che non dice: ama Gesù Cristo, ma ama la gente, i poveri soprattutto e Gesù Cristo; “il resto non conta niente”.
Allora vivo, continuo in qualche maniera a vivere così perché questa è l’impostazione della mia vita e vale la pena di viverla con ciò che di più prezioso ho intuito. Don Sirio Politi diceva: “Ama il tuo sogno, se pur ti tormenta. Senti Gianpietro, fà così: trovati un sasso ben levigato, su un lato scrivi: ‘ama il tuo sogno’, sull’altro lato ‘se pur ti
tormenta’, per cui nei giorni tristi guarderai ‘ama il tuo sogno’, nei giorni lieti ricordati ‘se pur ti tormenta’”.

Abitare la terra…diventare umani

Da molti anni vivo in una terra/territorio dove ho lavorato, in cui lo slogan fondamentale era “lavorar, taser e no pensar”. Oggi non c’è più questo slogan perché non c’è più da lavorare e quindi lo slogan è diventato “no saven pì cosa far, continuen a taser e se rifiuten de pensar”, perché altrimenti uno impazzisce. Amo la terra e la gente che vi abita però il primo compito che mi ritrovo è quello di annunciare l’evangelo che è soprattutto una buona notizia e un’arte di
umanizzazione.
Ridiventare umani, ridiventare uomini, re-impossessarsi di un senso dell’esistenza. Come? Stare secum: stare con me stesso, stare nella solitudine, stare nel silenzio e nella compagnia di tutti. Un carissimo amico presbitero, don Giancarlo Vendrame insegnava e viveva il primato di Dio nella compagnia di tutti. Non c’è più separazione, non deve esserci separazione, deve esserci questo abbattimento radicale, quindi una grande passione per l’annuncio dell’evangelo che, naturalmente per primo, devo pazientemente accogliere nelle mia esistenza, ad esso fare spazio.

Oggi come ieri: garzone del Regno

Oggi non mi chiedo più a che cosa è servita o a che cosa serve la mia vita. Su questo ho pianto molto nei miei anni, soprattutto negli anni in cui c’era chiusura, incomprensione e ostilità, quasi una espulsione da un corpo. Mi chiedo piuttosto come continuare ad essere semplicemente un ‘garzone del Regno’ . Non ricordo chi tra di noi ha forgiato questa bellissima espressione: essere garzoni del Regno, neanche servi, proprio garzoni. Il termine garzone mi fa ricordare che
già a 10 anni andavo a spazzare in un laboratorio di falegnameria davanti a casa mia e fu lì che ricevetti per la prima volta non una tuta da lavoro, perché già una tuta da lavoro era una roba nobile, ma un grembiule, e così per anni. Poi, in qualche maniera sono stato un po’ riconosciuto, mi hanno fatto uno sgabello e mi hanno messo a sciogliere la colla. Era una colla di una puzza incredibile, e naturalmente a me sembrava già di aver una mansione nobile.
Battute per ricordare la preziosità di un percorso, di un’esistenza che io ritengo essere una esistenza niente affatto nell’inutilità. Non mi piace la traduzione dell’evangelo dove si parla del ‘servo inutile’, perché io non credo di essere venuto a questo mondo per essere inutile; non è secondo l’evangelo pensare che uno viene a questo mondo come un essere inutile: ‘che tu ci sia o non ci sia -come mi si diceva negli anni 70- è la stessa cosa’. Credo che ciascuno di noi è
venuto a questo mondo per essere un garzone del Regno, un servo che non cerca utilità propria, chiamato a esprimere nell’esistenza una gratuità che ho ricevuto, perché la vita io non me la sono fabbricata, queste mani tozze non me le sono fatte io, o questa testa – come dice qualcuno – di intellettuale prestato alla classe operaia. No, non sono venuto a questo mondo per niente.
Ciascuno di noi deve essere consapevole di fare opera di umanizzazione. Educare chiunque incontriamo alla scoperta della
propria identità, della propria originalità, della propria bellezza. Il mondo è salvato grazie alla forza della bellezza che ciascuno di noi riesce ad esprimere. Nel 25° della ordinazione presbiterale ho fatto scrivere un’icona sul ‘Filius Dei faber’, Figlio di Dio falegname. Anche la rivista l’ ha pubblicata. Una icona alla quale sono molto affezionato, perché c’è la figura di Gesù lavoratore nella bottega di Giuseppe. Anche lì si può vedere la composizione di quella sintesi,
quella grande armonia espressa dal Figlio di Dio: Figlio di Dio falegname a Nazaret.

Occhi che scrutano…cuore caldo

Mi pare molto importante ricordare, vedere la realtà, guardare l’oggi per vedere il mio tempo, le trasformazioni avvenute in me e intorno a me per constatare le mutazioni antropologiche, addirittura genetiche.
Nella Chiesa di oggi, nella comunità cristiana, nei fratelli con cui condivido la fede ci sono occhi che vedono la realtà, ma quel che manca, a mio parere, o non è così sufficientemente presente, è un cuore che arde. Credo sia uno dei compiti affidatici oggi, in base a un percorso che deve rimanere anche nella sua parzialità. Noi non abbiamo generato figli, ma non dobbiamo neanche preoccuparci; però far ardere il cuore, questo sì. Forse ci è chiesto di soffiare su una brace che tende sempre più a spegnersi. Invece la brace va riattivata: è la parola di Dio ed è la vita della gente, non l’una senza l’altra.
Forse il compito più difficile per noi oggi è mantenere questo fuoco, mantenere questa circolarità. La bellezza del fuoco: è una forma di educazione accendere il fuoco, vedere come si muove, partire dalla carta e da pezzi di legno più piccoli che devi tagliare… e poi…
Concludo semplicemente ricordando che anch’io mi rallegro e dico: beh, insomma posso morire contento perché in fondo sento dire dal Vescovo di Roma parole che dicevo 30 anni fa e forse più. Non credo che noi dobbiamo essere preoccupati di una vittoria di idee, non mi interessa tanto; meglio continuare ad essere una semente posta nella terra che porti frutto a suo tempo.

GIANPIETRO ZAGO


 

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