Scritti di Carlo Carlevaris (6)


 

Uno scritto pubblicato sulla nostra rivista nel maggio 2007.

 

Le confederazioni sindacali di Torino hanno dedicato una giornata ai problemi della vecchiaia. Anche a me hanno chiesto di dire qualcosa e sono stato sorpreso da quanto sono state apprezzate le cose che ho detto. Ve le offro come le ho scritte per loro.
Desidero offrire una semplice testimonianza della vecchiaia vissuta da un uomo che ha scelto tipi di vita che lo condizionano e arricchiscono nei suoi ottant’anni. È indubbio che viviamo oggi, noi anziani, dopo un lungo percorso con vicende diverse, una sintesi o una somma del vissuto che ha profondamente marcato la nostra personalità e quindi questa nuova, irripetibile avventura di anziani. Siamo un po’ la sintesi di quello “che eravamo”, che amiamo ricordare e raccontare, un po’ delusi o inorgogliti, quando altri ce ne ricordano qualche tratto vissuto insieme.
Il rammarico è di dover constatare che troppe cose, sensazioni, persone, non trovano più posto nella nostra mente: quella nostalgia e insieme quella umiliazione di non ricordare quanto altri ci raccontano di noi, di amore, anche di minute sconfitte o di tragici eventi.
Abbiamo vissuto di rivoluzioni, di grandi successi e scoperte, di battaglie vissute, magari da soli, spesso con altri. Allora c’è un ingenuo compiacimento e quasi un rammarico di non avere più in memoria la persona che al momento ci parla a cui non osiamo dire che non ricordi quasi più nulla di lei. Qualche volta hai anche delle gradite sorprese e torni a casa a cercare se c’è qualcosa nel cassetto delle carte o un ritaglio dei giornali di quel giorno, di quelle vicende con quella persona.
La mia vita è passata su strade un po’ inconsuete: da studente e poi insegnante tra i ragazzi del Cottolengo. Ero finito lì perché un prete di corso San Maurizio, ad un ragazzino dodicenne che frequentava l’avviamento al lavoro e l’oratorio, lui, il canonico Cantoni, sociologo, esiliato dal partito fascista, pose l’interrogativo: “non vorresti farti prete?”. A quella domanda, la mia risposta molto sorpresa, aprì un percorso imprevisto alla mia vita. Gli studi, la guerra, i bombardamenti, poi la pace e il termine del mio giovanile percorso: 1950, ora ero prete tra la gente. Ma quegli anni hanno marcato irrimediabilmente la mia vita.
Non scelsi di restare al Cottolengo. La figura di papà, operaio generico, dopo varie vicende di piccolo imprenditore, mi aveva aperto gli occhi su quelle vite di fatica e di lotta per una famiglia operaia, con moglie e tre figli… Non so se succede a tutti, ma quei ricordi sono ancora vivissimi nella mia mente: via Roma vecchia, dove abitavo, terzo cortile dove il sole non arrivava mai, il cinema Minerva, sotto casa, in cui ci cacciavamo sfuggendo al controllore. I giardini di Porta Nuova dove si giocava sempre a “guardia e ladri”. La famiglia, scuola di vita.
Il Cottolengo, storia e amore per i poveri. Poi preteoperaio: la scelta della fabbrica come prete cappellano del lavoro non sapevo che sarebbe stato il primo passo verso una condizione più travolgente.
Dopo dieci anni, i dirigenti dell’azienda allontanarono un prete scomodo “che faceva politica”, che incoraggiava gli operai all’impegno sindacale e alle lotte per i contratti.
I lavoratori, la gente semplice che lotta per la propria vita, in difesa e realizzazione di suoi diritti, divennero per me i testimoni di un Vangelo che molti di loro non conoscevano, ma vivevano così. La scelta del lavoro mi fece “come loro”: compagno. E poi il quartiere, la soffitta di via Belfiore, dove abito ancora oggi. Dal 1966 al 1986: 20 anni di preteoperaio alla Lamet – costruzione-stampi. Ora 20 anni da pensionato, ancora tra la povera gente, quella che oggi viene da lontano, quella che oggi “fa il mestiere” agli angoli delle strade, i ragazzi che vendono droga.
Se mi si chiede delle mie memorie, le racconto così. Io le sogno ancora spesso e le rivivo nel mio carteggio che le ripercorre. Sento che la mia memoria non è più quella di prima, anzi!
Vivo la mia presenza ancora “fra la gente”. Con un grande uomo, come padre Pellegrino, vescovo di Torino, in quegli anni, con i miei compagni operai, con la gente in difficoltà nel mio quartiere ho cercato e cerco ancora di dare un senso alla mia vita e l’ho trovato nella condivisione e nella fedeltà alla pagina del Vangelo dove Gesù, figlio di Dio, operaio a Nazareth, morto vittima dei potenti, dice: “sono venuto tra i poveri e per i poveri”.
La vecchiaia forse è incominciata in questi ultimi anni quasi senza accorgermi, ma ora la vivo, la sento, a volte mi pesa. Non ho consigli da dare. Cerco ancora di imparare a vivere questa stagione, l’ultima della vita, in fedeltà alla scelta iniziale: stare tra la gente, lottare con chi lotta, difendere e servire i poveri. A dirla tutta, sono contento di vivere questi ultimi anni nella soffitta di San Salvario con i neri, i musulmani e le prostitute dell’angolo che mi salutano con un sorriso.
C’è ancora qualcosa da fare. Auguro a tutti la scoperta dei poveri, dei deboli, degli ultimi. Invecchiare con loro non è disdicevole: c’è ancora molto da imparare e ci sono anche delle soddisfazioni che fanno da sale e danno gusto alla vita, anche da vecchi come noi.

CARLO CARLEVARIS

CFR. PRETIOPERAI N. 74-75


 

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