Evangelo ed evangelizzazione
Nel n. 2 di PRETIOPERAI è pubblicata la parte precedente di questa meditazione di Biagio Turcato (qui).
Non è gusto del paradosso, ma esigenza di autentica sequela dove Gesù il Nazareno vive e opera in silenzio:
– l’immersione del Penitente nelle acque del Giordano si giustifica con una sola parola: “bisogna adempiere ogni giustizia”;
– la vita anonima e oscura del Figlio del falegname si interrompe con un’altra parola misteriosa per i suoi genitori: “devo occuparmi delle cose del Padre mio”;
– l’itinerario di Gesù l’evangelizzatore è descritto come quello di colui che passa “beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo” (At. 10,38);
– inoltre il cammino di Gesù porta ad incontrare persone per le quali la parola, anche evangelica, è “inutile”.
Ecco ora alcuni aspetti in cui bisogna adempiere il Vangelo nel silenzio e nel pudore della parola.
a. Il silenzio della conversione
1. Ormai è luogo comune dire che i pretioperai, entrati in ambiente operaio per convertire, sono stati convertiti.
In sintesi ecco una testimonianza.
I pretioperai entrarono nella fabbrica per affrontare “l’apostasia delle masse popolari” e, con nuovo stile di azione dal dentro come “lievito nella pasta”, evangelizzare il mondo operaio.
Ma l’impatto fu brutale:
– la scoperta dello sfruttamento operaio stravolse la visione del mondo che nella loro educazione era stata data;
– la complicità della chiesa con le classi dominanti, così come l’inconsistenza della dottrina sociale della chiesa, provocò in essi una crisi di appartenenza ecclesiale e ministeriale;
– nel frattempo si impose loro un nuovo modo di fraternità e di solidarietà: quello degli sfruttati impegnati a difendere collettivamente la loro dignità;
– e avvenne l’incontro tra credenti (preti) che sperano nel Vangelo e militanti (spesso atei) che lottano per la giustizia. E il clima ideale che risveglia la coscienza operaia, che anima il sindacato e il movimento operaio è strettamente legato al socialismo e al marxismo.
2. In realtà l’ambiente industriale è impregnato (e questo non da oggi, ma fin dall’inizio della rivoluzione industriale) di ateismo e vi si incontrano diverse forme di umanesimo ateo, quello scientifico, quello borghese e quello socialista. La convinzione della presenza di Dio è una “ipotesi inutile” che frena lo sviluppo scientifico e tecnico;
– è negazione del vero umanesimo: la “morte di Dio” è la condizione essenziale della vita e della salvezza dell’uomo;
– è “alienazione”: “più l’uomo mette in Dio e meno serba in se stesso…”
Il riferimento all’evangelo di Gesù di Nazareth è rifiutato dagli uni (i borghesi) perché sembra destinato a favorire dei “sottoprodotti umani”, dagli altri (i socialisti) perché sembra un messaggio di fatalità e di rassegnazione.
La chiesa poi è considerata come istituzione che frena il progresso scientifico e tecnologico; essa non accoglie le istanze di libertà che provengono dalla rivoluzione borghese, anzi favorisce e appoggia il dominio della classe che domina, che è alleata al potere del denaro…
3. D’altra parte però entro l’ambiente culturale industriale maturano valori tali che saranno in seguito ricuperati anche dalla chiesa.
Ne indico tre filoni e nelle citazioni ne è già percepibile la consonanza:
– entro l’industria si compie una parte di “quell’ingente sforzo col quale gli uomini, nel corso dei secoli, cercano di migliorare le proprie condizioni di vita” (Gaudium et Spes, n. 34);
– si verifica in parte quell’indissolubile rapporto tra diritti e doveri che regge la convivenza umana (Pacem in Terris);
– inoltre si vive quel segno dei tempi che è “l’ascesa economico-sociale delle classi lavoratrici: nel loro movimento d’ascesa i lavoratori concentrarono la loro azione nel rivendicare diritti a contenuto soprattutto economico – sociale; la estesero quindi ai diritti di natura politica, e infine al diritto di partecipare ai beni della cultura” (Pacem in Terris, n. 20).
Forse l’esperienza di vita in fabbrica è secolare nella semplice valenza che il termine importa, e come opposizione al religioso e come emergenza di valori umani autentici, che hanno risonanze – dicono i credenti – cristiane.
4. Entro tale ambiente culturale si verifica una seria, profonda e radicale, conversione.
Direi che, diventando docili alle critiche e alle istanze, si acquista una “sapienza”; cioè, senza rifiutare i riferimenti valutativi e operativi della fede, si impara a dire in modo nuovo il nome di Dio, a confessare in maggiore completezza Gesù Cristo, a valorizzare l’uomo che “non ha” piuttosto che l’uomo del possesso e del potere, a rifare il quadro delle proprie solidarietà.
Così dice un autore che non è certo di ispirazione marxista: “al termine del lungo processo che l’ateismo ha intentato, non senza motivo, alle immagini idolatriche di Dio:
– il dio dei teismi, chiave di volta dei sistemi del mondo e “tappabuchi” delle nostre speranze,
– il dio-imperatore dei tempi della cristianità,
– il dio-gendarme e il ‘padre sadico’ della società borghese,
– l’anti-Dio di tutte le inquisizioni, pseudocristiane o anti-cristiane”, più credendo in silenzio che parlando dell’annuncio al mondo d’oggi, si deve nominare
– “il Dio vivente che ama l’uomo di un ‘amore folle’, lo vuole libero e responsabile, vuole che divenga sempre più un vivente e un creatore;
– il Dio vivente, appassionato dell’uomo fino alla croce, che gli apre, qui ed ora, la resurrezione, rompe la dialettica del padrone e dello schiavo…” (Clement).
– E, aggiungo io, il Dio che viene pregato come Padre, ama di amore di predilezione non solo il Prediletto ma i piccoli, e nel grido del Figlio in croce ascolta il grido di tutti i poveri.
Ed evocando un altro autore di area culturale diversa (Sobrino), credo che si riscoprano gli aspetti (trascurati) del mistero di Gesù.
Al Gesù, che viene memorizzato nella dolcezza e interiorizzato nell’amicizia,
al Gesù il Cristo, che viene confessato nell’astrazione (pure in verità) vero Dio e vero Uomo,
che viene eternizzato nella regalità universale
e celebrato nella liturgia in canti e melodie, si aggiunge e si dà rilievo al Gesù storico:
Gesù che si situa in tutta la sua esistenza terrena dalla parte degli oppressi,
che opera sulla realtà circostante per trasformarla in direzione del regno di Dio,
che associa seguaci che proseguano nella sua via e nella sua missione.
Tutta l’esistenza storica di Gesù è mistero che non solo deve essere celebrato ma operato.
Anche la comprensione sull’uomo ne viene modificata.
Il centro di riferimento sapienziale non è l’uomo, ma più particolarmente il mendicante e il povero.
L’abbondanza di letteratura religiosa in proposito spero (di speranza teologica) che non sia uno sfiatatoio terapeutico, un vizio (borghese), per cui il libro scritto è il culmine dell’attività, ma testimoni la fede confessante e operante della chiesa.
5. Può darsi che tutto questo appaia una divagazione.
Invece una Persona è presente non tanto nelle parole che compongono il discorso ma nelle situazioni che ne sono evocate.
È Gesù che, all’udire la Voce che grida e interpella a conversione, parte da Nazareth e si fa penitente.
Egli, che è stato mandato in una carne simile a quella del peccato, senza ipocrisia ma in sincerità, trova il suo posto tra la folla dei peccatori, ed entra in solidarietà con loro, condivide la situazione peccaminosa del popolo che si fa battezzare (“è fatto peccato…”) e partecipa all’anelito di liberazione che scaturisce dal messaggio del Battista.
Lui, che è in tutto simile agli uomini concreti (eccetto il peccato), entra in una ‘società’ dove sono distinti i giusti e i peccatori; si fa commensale con gli uomini che sono indicati come trasgressori della legge e nel contatto con i pubblici peccatori delinea la sua missione, fino a rischiare l’accusa del “mangione e beone”.
Egli, che nessuno può accusare di peccato, camminando con coloro che si sottopongono al battesimo di penitenza e accusano il loro peccato, non rivela l’ira incombente di Dio, ma annuncia “l’anno di misericordia” e pone i gesti che realizzano la nuova giustizia:
– è abolito il dominio della menzogna e dell’ipocrisia e subentra a comunione della parola retta;
– è interrotta la catena violenta della vendetta e la legge della mitezza (di colui che dona bene per male) rinnova la terra;
– il cuore che odia cessa di battere e sorge l’uomo che prega e opera per il “nemico”. Lui, che compie i gesti della giustizia migliore, incontra l’uomo nemico che lo condanna a morte, e lascia un grande esempio: “oltraggiato non rispondeva con oltraggi, soffrendo non minacciava vendetta” (1Pt. 2,23), maledetto invocava benedizione.
6. Il discepolo, e quello che lo seguì nella sua esistenza e quello che nella storia spirituale della chiesa cerca di ‘imitarlo’, trova aspra la via del Maestro e solo da lontano ardisce di seguirlo.
Ecco, un credente (laico, prete, religioso, vescovo) entra dentro in condizione esistenziale-storica con gli uomini che guadagnano il salario con un lavoro manuale.
Cosciente della sua fede, sa di non essere uno dei “santi” che vanno all’inferno, si cala nella pelle del manovale ritenendo che il peccato degli uomini subalterni sia quasi “contraccolpo” all’ingiustizia che grava su di loro, e desidera riproporre il vangelo agli operai e renderli attivi membri della chiesa.
Ma trova un ostacolo quasi insormontabile:
“Anche in quei lavoratori (che non sono venuti meno nella fede e nella fedeltà alla chiesa) vi è, se non la convinzione almeno un sospetto ineliminabile che la chiesa stia con i ricchi e i potenti, con ‘quelli che stanno in alto’, che la chiesa sia ‘contro il lavoratore’; per i lavoratori, poi, influenzati dal marxismo la chiesa è il ‘nemico di classe” (Chiesa tedesca e Lavoratori, in “Aggiornamenti sociali”, n. 7, 1976), e il ‘peccato’ della chiesa è addossato al credente.
b. Il silenzio degli anni oscuri
1. Gesù che viene da Nazareth, è presentato con poche notizie evangeliche:
è un uomo che proviene da un paese sconosciuto;
un artigiano che si è formato un’abilità tecnica;
un suddito, un sottomesso, sia nella fase adolescenziale che nel periodo giovanile.
In altre parole, riprendendo concetti dell’Antico Testamento, egli è membro del popolo minuto, compie un lavoro che impedisce l’acquisizione della sapienza (Sir. 38, 24-34), è un “umile della terra” (Sof. 2,2).
2. Il credente, che in verosimiglianza si sente fotografato in queste ‘briciole evangeliche’, rimane sconcertato:
vede un profondo iato tra la vita anonima del Nazareno e la vita di Gesù che evangelizza,
teme che il richiamo al figlio del falegname sia per indurlo a vivere una vita come quella di una formica, di un’ape operaia,
si meraviglia che la chiesa non celebri il “mistero” del nascondimento e del lavoro di Gesù (come fa memoria del Battesimo…).
L’operaio non possiede intelligenza e cultura, tempi e strumenti, per superare quel distacco che esiste nella ‘storia’ di Gesù: non riuscirà mai a capire (e forse neanche il cultore di scienze bibliche lo potrà!) come l’artigiano di Nazareth abbia assorbito il meglio della sapienza dell’Antico Testamento e l’abbia incanalato nell’annuncio di “quell’unica cosa che lo affascinava: la causa di Dio come causa dell’uomo” (Schillebeeckx).
Non ha l’intuizione luminosa (quasi mistica?) dell’uomo che percepisce che la sua vocazione e la sua perfezione stanno nell’imitare il più perfettamente possibile nostro Signore nella sua vita nascosta di Nazareth, vivendo poveramente nell’imitazione della sua povertà, operando in umiltà e in oscurità come egli fece passando trenta anni in un oscuro lavoro, e restando per tanto tempo sconosciuto praticando l’obbedienza (De Foucauld).
Non fa la scelta del ‘monaco’ che nella contemplazione integra nella liturgia il lavoro compiuto con le mani che costruisce fraternità, intercalando tempi di preghiera, momenti di solitudine e lavoro per il bene della comunità; che sa intuire nel lavoro un’esperienza ‘sacramentale’ che lo unisce al mistero di Gesù di Nazareth.
3. L’operaio, come la moltitudine di uomini del popolo minuto, vive per necessità l’antica legge del lavoro che costa sudore; è costretto a ‘mendicare’ un posto quando è disoccupato, a sottostare nell’occupazione al volere del padrone; aspetta con ansia, alla fine della giornata, il salario.
È la necessità, non la libera scelta, che caratterizza l’esistenza del proletario. La sua sussistenza e la sua durata di vita, l’elevazione e la promozione della sua persona, l’inserimento nella società avvengono entro un lavoro gravoso che l’accompagna per tutta la vita.
Anche Gesù di Nazareth vive la stessa necessità non solo come fatalità storica per cui la nascita da genitori poveri pone in condizione di povertà, neppure per sola nemesi storica, in quanto il discendente del re Davide ora nasce da parenti poveri. È necessità “teologica” la sua, quella stessa che lo condurrà al Giordano per essere battezzato e poi lo sospingerà verso la passione.
La “dimora” (la tenda) di colui che doveva venire, non è posta genericamente tra gli uomini, ma nel paese dove abitano “gli umili della terra”, dove per volere del Padre si trova; e colui che sarà ripetutamente invocato figlio di David, non ha nascita e crescita in Gerusalemme (la città costruita dal re), ma a Betlemme (Nazareth) dove era stato pescato il “più piccolo” che stava a pascolare (1Sam. 16).
L’incontro delle due “necessità” è sacramento: è la “grazia” che viene dal Padre ed è l’assunzione del grido e della preghiera del povero.
È un sacramento che si vive nella sostanza (“res”) così:
“Metti tenda tra la dimora degli umili della terra e veglia (Lc. 2,8).
Bada a non inventare preghiere,
ma canta umilmente col libro dei poveri in ispirito,
e attendi (cfr. Lc. 2,25).
Bada a non sederti in troni alti,
ma cammina con la speranza dei nomadi
e ascolta l’evangelo per quelli che stanno nelle tenebre”
(Milosz, cfr. Lc. 1,48.79; 2,14; 4,18)
4. Per una moltitudine di uomini e di donne l’Evangelo è accolto, integrato e operato nelle deboli esperienze, che caratterizzano la vita di Gesù a Nazareth.
Il gesto delle loro mani, che procurano, spezzano e offrono il pane quotidiano (= che non possono tesaurizzare e accumulare per tutta la vita) può inserirsi nel Vangelo dell’eucarestia.
Nel lavoro che compiono cresce il rispetto e la socialità, l’amicizia e l’amore, per cui possono entrare in comunione con tutti coloro che ascoltano e celebrano l’Evangelo dell’uguaglianza.
Anche il Siracide ammette l’utilità del contadino e dell’artigiano, del fabbro e del vasaio: senza di loro sarebbe impossibile costruire una città (Sir. 38,26), e questa povera e meschina utilità può diventare occasione per annunciare l’evangelo dei poveri, per fondare l’esperienza dell’ospitalità, che è segno che l’evangelo è stato accolto, ed è veicolo entro cui i messaggeri diffondono la parola a tutte le genti.
Anche la rassegnazione, quando la via della giustizia diventa difficile, quasi eroica, può avere un segno evangelico: forse è la “notte oscura” umana e spirituale di credenti (e non credenti), durante la quale “la lampada deve rimanere accesa”; forse nel volto rustico
“così quasi si estingue,
così cova l’incendio
l’immemorabile evangelio” (Luzi).
A volte sembra che dalla terra di Nazareth non sia partito Gesù a predicare la buona novella del regno e impietoso scende l’aforisma di Qohelet:
“ecco il pianto degli oppressi che non hanno chi li consoli; da parte dei loro oppressori sta la violenza, mentre per essi non c’è chi li consoli” (Qo. 4,1).
5. A questo livello, forse, si attua la sentenza di un esegeta: “sono i poveri i clienti di Dio” (Léon-Dufour).
Con ciò né a nome del Vangelo né contro le aspettative degli indigenti, vorrei entrare in polemica coi credenti che pongono nella situazione di mendicità il livello ‘connaturale’ per l’entrata nel Regno.
Neppure d’altro canto vorrei distaccarmi dai credenti per i quali i soggetti per eccellenza del regno sono gli uomini poveri (o disponibili al ‘depauperamento’), che aspirano alla giustizia. Poiché l’itinerario che percorre il Nazareno coinvolge i mendicanti (cf. Lc. 18,43) e i ‘ricercatori di giustizia’ (Mt. 6,33 s.), il cammino solidale con gli uni e con gli altri diventa un’esigenza della sequela.
Invece un sospetto vorrei iniettare contro le categorie di persone che per utilità pubblica o per esigenza ecclesiale sono di fatto lontane (verso l’alto) da simili situazioni.
È un sospetto che proviene dal Vangelo di grazia che spinge a discernere l’autenticità del distacco, che provoca una conversione in direzione della fraternità, che piega a mettere a ‘servizio’ qualità e professionalità, cultura e potere, che lascia la ‘porta aperta’ a quanti hanno capacità innate per verificare se nella posizione privilegiata non si annidi la tentazione di orgoglio e della superiorità.
E vorrei esemplificare all’interno della chiesa: quando nell’ordine monastico contemplativo si distinguono i ‘conversi’ che sostengono le cose materiali, e la loro preghiera riguarda i lavori del mestiere (Sir. 38,39); quando nell’ordine clericale si accolgono i ‘fratelli coadiutori’ che vengono addetti ai lavori manuali domestici, auguro che sia operante la parola evangelica: “voi non fatevi chiamare Rabbi, perché uno solo è il vostro maestro e voi siete tutti fratelli” (Mt. 23, 7-1 1).
c. Il silenzio dell’attività
1. La vita dell’operaio e del militante è galvanizzata da esperienze che non lo racchiudono nella disperazione né lo intristiscono nella rassegnazione. Nevralgiche e cariche di utopia sono alcune esperienze: la passione per il raggiungimento di maggior giustizia, l’azione e la lotta che si intraprendono perché gli obiettivi vengano raggiunti, la solidarietà e la tenacia con cui vengono perseguiti i fini. Sono parole che possono sembrare retoriche a quanti si fanno osservatori esterni, mitiche a quanti studiano le vie della storia umana e scrutano l’egoismo che è dentro ogni uomo, false a quanti ‘guardano la pagliuzza che è negli occhi degli altri (Lc. 6,42).
Accetto le critiche, ma confermo che entro il mondo operaio vibra autentica la passione per la giustizia; e che da una condizione di comune subalternità e di individuale egoismo è sorta una solidarietà operativa e una verità storica; e che la vita del movimento operaio è ricca di slancio altruistico.
L’interrogativo nasce almeno per il credente: che consonanza c’è tra questo mondo di valori e l’Evangelo?
È, credo, un punto capitale: parlo di consonanze, ma devo percepire anche le dissonanze.
Gli stessi termini che sono trascritti nei Vangeli e che sono usati nel movimento operaio (giustizia, lotta… fino al sangue…) non facilitano un discernimento.
I contenuti poi, oltre a differenziarsi per il fatto che quelli evangelici provengono dalla persona che è confessata il Signore, si distanziano anche per il diverso contesto culturale.
Nella sequela il credente, povero di nascita e di condizione e soprattutto povero di scelta, ma che “cerca la migliore giustizia”,
– non trasforma il privilegio e la preferenza in chiusura e in arroganza, ma riconosce chi “pratica la giustizia a qualunque popolo appartenga”, e in qualunque contesto culturale operi;
– non trasforma il suo spirito sotto l’incalzare dell’ingiustizia o a contatto di quanti nella stessa condizione (proletaria) fanno leva sull’odio e ricercano la giustizia per le vie della violenza, ma testimonia che “forte come la morte è l’amore” (Cant. 8,6);
– non verifica il messaggio delle beatitudini nell’ottica storica di quanti disarcionando gli oppressori di oggi fanno degli oppressi di oggi i prepotenti di domani, ma opera la gioia del povero che viene elevato e del ricco che viene abbassato (Gc. 1,9-11) e si incontrano nella comunione fraterna.
2. Proseguo con una citazione che affronta il nucleo centrale del messaggio di Gesù:
Da quale prospettiva va considerato, giudicato il messaggio di Gesù? Dove si trova il punto centrale da cui tutto si sviluppa? Dov‘è il nucleo magnetico che tiene unita ogni cosa e a partire dal quale si compone l’immagine?
Nel caso di Gesù appare qualcosa di assolutamente unitario nelle sue ‘azioni’ e nelle sue ‘parole’. Le une e le altre sono strettamente collegate tra loro e si sostengono reciprocamente.
[Si può] lasciare aperta la questione di come si possa determinare in modo più preciso questo rapporto tra azione e parola: se il comportamento di Gesù sia la cornice della sua predicazione o se le sue azioni siano l’elemento principale al quale fanno da sponda, in posizione subordinata, le sue parole.
In ogni caso questa corrispondenza tra il fare e il dire depone in modo determinante a favore dell’ipotesi che in Gesù ci sia qualcosa di unitario, di inconfondibilmente caratteristico, qualcosa che tende a uno scopo preciso (Trilling).
La corrispondenza tra parola e azione non è tanto il nucleo del messaggio evangelico, ma più ancora il “cuore”, la “coscienza” del Cristo Signore, a cui mira il seguace. Questi intravvede
– l’Evangelizzatore che incide sul suo itinerario la legge della gratuità, e nel suo cammino dispiega la norma della generosità;
– il Testimone che impegna la sua vita in azioni così discrete che non umiliano e così efficaci che trasformano (“la sinistra non sappia quel che fa la tua destra”);
– la Persona che, operando, scuote le false sicurezze e raduna quanti ricercano la giustizia e la pace.
Emerge in Gesù di Nazareth la causa ideale che lo anima nella sua esistenza, la passione che lo coinvolge nel rapporto con le persone e le istituzioni, l’azione e la lotta tenace e resistente che lo impegna nel suo peregrinare.
3. Il regno di Dio è per Gesù l’ideale, il perno dell’attività, il centro di tutti i pensieri, il comune denominatore delle riflessioni e delle parabole, la base della struttura logica, anche di certe conseguenze delle contraddizioni interne (M. Machovec, Gesù per gli atei).
In un concetto poco accessibile, anzi un po’ ostico alla nostra mentalità, è racchiuso l’ideale che affascinava Gesù il Cristo: “la causa di Dio come causa dell’uomo”.
A questo riguardo aggiungo qualche osservazione.
L’annuncio del regno è strettamente legato alla causa dei poveri:
– la preghiera per l’avvento del regno si unisce alla richiesta del dono del pane quotidiano;
– la beatitudine proclama l’appartenenza dei poveri al regno di Dio;
– alla mensa del regno sono condotti poveri, storpi e ciechi.
Scrive un teologo che il messaggio di Gesù sulla venuta del regno di Dio deve essere interpretato nell’orizzonte degli interrogativi che gli uomini si pongono sui temi della pace, libertà, giustizia e vita (Kasper). Ma io preferisco dire che l’annuncio della venuta del regno debba essere ascoltato, interpretato e compiuto nell’orizzonte delle persone che sono i privilegiati agli occhi di Dio e (tali) sono coloro che non contano agli occhi degli uomini (Dupont). I poveri, i bambini e i ‘semplici’ hanno qualcosa in comune: sono persone che per ragioni diverse costituiscono la parte inferiore della società (idem).
Nel canto prefaziale è esaltato il “regno di verità e di vita, regno di santità e di grazia, regno di giustizia, di amore e di pace”. È quello che la speranza anticipa e desidera in questa memoria liturgica.
Ma il credente, che vive l’oggi della storia, auspica che la memoria liturgica non debba snervare la tensione che è insita nell’esperienza del regno quale Gesù iniziò nello spazio terreno, quale lo Spirito dona la forza di realizzare nel cammino della storia della chiesa e quale sarà compiuta nella fine.
Il credente auspica che la celebrazione non avvolga nel rituale la comunità dei credenti così che non odano più il “grido dei poveri” che proviene dalla terra e che costituisce la ‘molla’ della tensione del regno: “e Dio non farà giustizia ai suoi eletti che gridano giorno e notte?”
4. La causa di Gesù è la sua passione, provoca tutto il suo slancio vitale, è oggetto del suo intenso desiderio, è motivo della sua dedizione, è giustificazione delle sue sofferenze (cf. Lc. 12,48-50; 22,14). Gesù è un uomo “passionale” che si lascia coinvolgere, che reagisce con tristezza e con esultanza, con commozioni interiori e con grida esteriori, con tenera dolcezza e con ira terribile.
Tutta la vita di Gesù vibra di questa “passione” intesa come desiderio di portare a termine la sua “missione”, e come disponibilità di “soffrire” per la realizzazione del suo ideale.
Egli ha la passione “giudaica” di cercare in tutto la volontà del Padre (Gv. 3,24); possiede la passione messianica di accendere il fuoco dello Spirito sulla terra e di sopportare la sofferenza perché questo avvenga (Lc. 12, 49-50), vive la passione “umana” di vedere un “gregge senza pastore” (Mc. 6,34; 9,36) e di ricostituire una comunità umana, in cui entrino i lebbrosi segregati, i ciechi mendicanti, gli zoppi esclusi.
Evitando di fare psicologia è giusto richiamare i vertici in cui si manifesta la “passione” di Gesù che evangelizza:
– è l’ira che si indigna e si tramuta in tristezza (Mc. 3,1-6);
– è la commozione profonda che consola oppure si trasforma in pianto (Lc. 7,13; Gv. 11,35);
– è l’esultanza nello Spirito che condivide la gioia dei discepoli (Lc. 10, 18-22).
In queste reazioni “passionali” alcuni sottolineano che Gesù si manifesta come uomo vero, autentico, concreto (non astratto), storicamente collocato; altri indicano che in esse si rivela il volto del Figlio del Padre e la sua ira è indice della “gelosia” di Dio; la sua commozione è il riflesso della misericordia divina, e la sua gioia l’epifania del Dio che vuole la vita di tutti.
Io credo che debba essere richiamato pure il legame che è posto (anche nella lettura del vangelo) con la condizione dei poveri:
– l’ira di Gesù esplode quando viene rimproverato di aver guarito una donna inferma in giorno di sabato (Lc. 13,10);
– la commozione è vissuta nel samaritano che si accorge dell’uomo aggredito;
– l’esultanza proviene dall’intuizione che i “misteri del Regno” sono rivelati ai piccoli.
Gesù vive, in sintesi, le reazioni “passionali”, e in esse compie la legge dell’amore.
Certo il credente, che nella “passione” di Gesù il Cristo vuole coordinare le aspirazioni del suo spirito, non può accontentarsi di ridurre tutto ad una “devozione”; come la sua causa non può essere avvolta nella sublimità di una celebrazione liturgica, così la sua “passione” non può essere ridotta ad un sentimento devozionale.
5. Gesù opera per l’avvento del Regno, lotta perché si compia, dona la sua vita perché si inserisca nella storia.
La ‘dottrina’ di Gesù ha incendiato il mondo non a motivo della presentazione pubblica di un programma teologico: ha incendiato il mondo soprattutto perché lui stesso si identificava con il suo programma, perché lui stesso lo realizzava con passione (Machovec). Gesù è il regno di Dio in persona (Origene).
Vorrei rilevare tre aspetti dell’attività di Gesù: la lotta, la pacificità e la resistenza.
– Egli non solo agisce, ma lotta mettendo in moto tutta la sua energia vitale (etimologicamente “con violenza” e con aggressività), senza arrivare alla distruzione della vita fisica o sociale degli altri;
– contrasta gli uomini che con la violenza impongono un ordine ingiusto (una pace falsa), e difende gli uomini che subiscono l’ingiustizia, senza ricorrere all’uso di mezzi brutali della spada e della guerra;
– di persona irrompe e risolutamente aggredisce le istituzioni (il tempio, la legge, la sapienza) che invece di favorire la giustizia sono divenute luogo di ladrocinio e di oppressione avida (Mc. 11,17; 12,40), ma quando sta per essere fatto fuori vieta sovranamente l’uso della spada e sana l’avversario ferito (Lc. 22,49 ss.).
L’uomo che vive in ambiente conflittuale (e tale è quello operaio), pur tenendo fissa l’attenzione nel “re che viene… mite, seduto su un’asina” (Mt. 21,5), trova difficile coordinare i diversi aspetti del comportamento del Maestro; trova difficile attingere unità d’ispirazione per conformare lo spirito e modalità d’azione per realizzare il vangelo di liberazione.
Non l’aiuta l’intuizione umana che nella morte dell’altro vede lo sviluppo della propria vita (mors tua vita mea), mentre in Gesù di Nazareth è valida la legge assoluta che la morte propria è vita degli uomini (mors mea vita tua); egli deve versare il proprio sangue, non uccidere versando il sangue degli altri; e la legge vale anche per il discepolo.
Non serve la storia degli uomini (e la riflessione relativa) dove gli avvenimenti si susseguono (e si giustificano) in un intreccio di violenti guerre, che distruggono l’avversario oppure lo riducono all’impotenza e alla schiavitù, mentre la via che con risolutezza percorre il Maestro ha mete e obiettivi opposti):
– fa violenza al violento che opprime, ma in questo scontro ha di mira la riconciliazione;
– affronta l’avversario che è carico di invidia e di odio ed è trascinato dalla brutalità della legge della vendetta; ma in questa lotta vive la legge dell’amore e fa balenare la possibilità di vita piena (cf. Mt. 23,38) anche a coloro che gli sono contro;
– difende con energia i deboli (Lc. 11,14 ss.) e assicura che “nessuno rapirà dalla sua mano” (Gv. 16,28) le persone miti, ma nella resistenza difensiva rifiuta di usare i mezzi dei sanguinari.
Anche le indicazioni spirituali (quelle che provengono dalla storia dei discepoli di Gesù il Cristo) non danno la misura completa del suo combattimento:
– certo egli combatte la battaglia (mitica o personale) contro il potere di Satana;
– certo il suo rapporto con il Padre non sempre è un idillio gioioso, ma è agonia e lotta;
– certo c’è un aspetto interiore del combattimento, là dove il “cuore” violento si converte in persona che si costruisce per la pace.
L’attività di Gesù però è pubblica, non solo interiore, privata, solitaria:
– si svolge in mezzo agli uomini, nelle loro città che abitano, nelle piazze dove regolano i loro affari, nelle sinagoghe dove è letta e pregata la “parola” antica;
– è un’azione profetica che denuncia il peccato degli uomini (e non deresponsabilizza incolpando della situazione “colui che fu omicida fin dall’inizio” o i peccati dei genitori) e contrasta gli uomini che ai suoi tempi volutamente gravano con pesi insopportabili su persone inermi (“divorano la casa della vedova…”);
– è compito regale: per volontà del Padre sto dalla parte delle persone che subiscono soprusi (“della povera vedova che getta due spiccioli”, Mc. 12,42), rende giustizia e porta salvezza ai figli dei poveri (Salmo 72).
L’operaio (e il preteoperaio), come anche il cittadino, è solo se vuole, in conformità con l’evangelo di pace, seguire la via pacifica per realizzare una convivenza umana dove si respira l’utopia della giustizia e della libertà:
– è posto tra credenti che per dottrina tradizionale teorizzano la guerra per giusta causa o l’insurrezione rivoluzionaria (P.P. 31), e tra uomini che giustificano la violenza cruenta per la conservazione e l’affermazione dei propri diritti;
– si trova solo e in compagnia di pochi uomini di buona volontà, qualcuno ateo, altri credenti (non cristiani), e qualche profeta cristiano, che sembra donchisciottesco…
Che sia arrivato l’oggi impellente della via della pace è ormai detto da tale concerto di voci e sorge da forti istanze che non si può non considerare il “segno dei tempi” per antonomasia nel quale progettare il destino degli uomini.
6. “Imparate da me, umile e mite…”.
Gesù, l’umile figlio della terra di Nazareth nella fame e nella sete non si lascia travolgere dal bisogno ma si richiama alla parola che vivifica e alla volontà del Padre che stimola;
l’artigiano che si sottomette alla legge del lavoro, fiducioso nella bontà del Padre (Mt. 6,25ss.), attende dalla terra il frutto del proprio lavoro, e insegna la preghiera del dono del pane quotidiano,
nel grano di frumento che deve essere sepolto entro la terra per fruttificare (Gv. 12,24)
e vive la fiducia nel Padre come grazia che fa crescere (Mc. 4,26) il pellegrino evangelico che si interpreta contemporaneamente come seminatore e come seme,
conosce la sorte del grano gettato per le vie dove abitano gli uomini dal cuore duro come pietra;
tuttavia intravede già il frutto: il frutto è il pane degli uomini, ed egli si rivela come il pane dato per la vita degli uomini (Gv. 6, 48).
È breve la parabola della vita terrena di Gesù, dal giorno in cui fu deposto nella mangiatoia al giorno in cui fu deposto in una tomba. Ma non consuma i giorni della sua esistenza nel gemito (Sal. 31,11), nel grido di Giobbe e neppure nella rassegnazione alla morte tipica dell’Ecclesiaste.
Gesù è presente alla terra: l’ama intensamente, se con le parabole si rivela poeta della creazione, non è perché sogni una terra ideale che ignorerebbe sofferenze e morte, ma perché percepisce l’irruzione costante della vita e del regno di Dio nel tempo presente” (Léon-Dufour).
Alla fine dei suoi giorni di carne, il volto di Gesù tocca la terra e “il suo sudore diviene come gocce di sangue che cadranno per terra” e prega, gridando e piangendo.
Ecco, il Figlio diventa il Servo, arriva alla sottomissione muta, e questa comincia con chiarezza solo nel momento dell’arresto, poco dopo la lotta interiore del Getsemani, allorché Gesù rinuncia ad ogni resistenza attiva (Ben Chorin).
Ecco, il sudore e il sangue e le lacrime del giusto Gesù scendono nella terra e si uniscono al sudore e al sangue e al grido sparsi sulla terra dal tempo del giusto Abele, ucciso in campagna, fino al tempo di Zaccaria, ucciso tra il santuario e l’altare (Mt. 23,36).
Ecco, il servo, chino per terra, continua a dire la preghiera del Figlio e, costretto all’obbedienza, è esaudito per la sua pietà (Ebr. 5,8); e andando verso la morte violenta, ricapitola il martirio dei giusti e lo rende offerta gradita.
Gesù il mite è amante della vita e della terra.
Il tenero germoglio spuntato dal tronco di Jesse (Is. 11,1) ha cura di ogni minima traccia di vita e di ogni segno di luce (Mt. 12,20):
– premuroso tocca e rende degno della vita piena quel segregato vivo, morto civile e religioso che è il lebbroso (Mc. 1,41);
– compassionevole si avvicina e cura quel mezzo morto che, percosso e spogliato, è destinato a morte (Lc. 10,30);
– deciso difende il discepolo che si sfama cogliendo le spighe di grano in giorno di sabato (Mt. 12,1).
Compie azioni sconvolgenti, come l’infrangere le leggi della purità, non per provocare la reazione violenta dei farisei, ma piuttosto per invitarli a modificare la mentalità anche per quanto riguarda l’osservanza della legge; e quasi timido si sottrae ai loro disegni di morte;
agisce con tale discrezione e richiede silenzio (Mt. 8,4) non solo per rispettare la rivelazione progressiva del “segreto messianico” ma anche per essere in consonanza con il suo insegnamento: la tua sinistra non sappia ciò che fa la tua destra (Mt. 6,3);
assume uno stile così delicato che non solo provoca la domanda del Battista sulla sua identità (“sei tu colui che deve venire?”), ma con ciò stesso vuole delineare la vera autentica figura del Messia che Egli intendeva interpretare; inoltre, proponendosi come colui che “non spezza la canna infranta e non spegne il lucignolo fumigante”, rivela il modo di operare del Regno e indica la qualità di zelo che devono avere i discepoli.
Il Maestro ama la terra come dono ed eredità.
Come un figlio nato dal popolo ebreo (Is. 9,5) egli riceve la terra come dono della promessa e del giuramento di Dio, ed è data al popolo intero ed è distribuita alle diverse tribù.
L’Emmanuele cresciuto a Nazareth e acclamato profeta dalla folla (Mt. 21,11), conosce e sa come la terra “santa” sia stata profanata non solo dall’idolatria ma anche dall’ingiustizia: “calpestano come la polvere della terra la testa dei poveri e fanno deviare il cammino dei miseri profanando così il mio santo nome” (Am. 2,7).
Come pio israelita che canta il salmo (37) e povero che non possiede terra, attende il giorno in cui dai giusti sarà abitata la terra e non sarà più profanata;
e, iniziando il suo ministero di evangelizzazione nella Galilea delle genti, sulla strada per dove gli sconfitti erano deportati nel pianto (Ger. 31,9) e i liberati erano ritornati nella gioia, Egli annuncia l’oggi del giubileo della ridistribuzione della terra ai poveri (Lc. 4,19: “predicare un anno di grazia del Signore”).
Egli che raccomanda di non mettere “vino nuovo in otri vecchi” (Mt. 9,17) e impone al discepolo di non fermarsi a “seppellire i morti”, rivaluta una legge che non è stata mai applicata ma che propone un ideale di giustizia e di uguaglianza che non è mai stato realizzato.