In vista del Convegno 2009
L’IDOLO È NUDO: METAMORFOSI DEL CAPITALISMO
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Rimasi molto impressionato nel leggere, alcuni anni fa, il titolo di un libro di Giorgio Bocca “Il dio denaro”. Ancora più impressionato quando mi addentrai in quel serrato ragionamento lucido, documentato, impietoso. Non era bello scoprire che 1700 anni di cristianesimo erano stati la via più lunga per l’idolatria. Alle stesse conclusioni giunge Arturo Paoli, nel 2007, in una profetica intervista dall’identico titolo: “Il dio denaro”.
Certamente rimane una sorta di amaro in bocca nel doverlo ammettere, ma, in fondo, il vero problema dell’uomo oggi non sta tanto nel sapere se crede o non crede, se prega o non prega, ma in che Dio crede e quale Dio rifiuta. Sono infinite le trappole in cui si annida l’ateismo più sofisticato e l’idolatria più subdola. Sono infinite le maschere che un sedicente credente può attribuire a Dio, colorando di assoluto i suoi capricci e sacralizzando le sue smanie di potenza. Stiamo parlando dell’uomo di qualsiasi latitudine e tempo, dunque anche di noi, cristiani e chiesa del terzo millennio.
Ritengo che l’apostasia dal “Dio del nostro Signore Gesù Cristo” e la nostra conversione a Mammona, spesso avvenga davvero in punta di piedi. Quasi senza accorgercene. Di fronte a certi nostri comportamenti, che giustifichiamo con calore anche se sembrano usciti da un antivangelo, difficilmente troviamo l’onestà di chiederci cosa vogliamo contrabbandare con la scusa di un discorso pio su Gesù.
Ancora più rara è la domanda se per caso non pieghiamo il vangelo alle nostre esigenze narcisistiche, invece di farci illuminare dalle sue prospettive di vita. Il mondo dell’inconscio non riguarda affatto solo meccanismi legati alla sessualità, può contenere visioni su noi, sulla vita, sul nostro destino, che reprimiamo perché orribili o scomodi. Può essere anche la camera buia delle nostre inautenticità l’inconscio, delle falsità esistenziali, delle nostre nascoste e inconfessabili paure a consegnarci davvero all’Amore.
Ma in certe occasioni ci pare di toccarla con mano l’apostasia, tanto è evidente e sfacciata. In che mondo vivono, che ambiente cristiano respirano quei ragazzi che a Nettuno bruciano un poverocristo su una panchina? Quale Dio possono adorare ed avere in cuore quei cristiani che approvano la conclamata voglia ministeriale di essere “cattivi” coi clandestini, rei di cercare vita tra noi? Può esserci pure capitato, che durante una esplosione di pietà popolare, oppure di fronte ad inveterate arcaiche superstizioni, sia scappata anche a noi di bocca la domanda decisiva: ma in che crede la nostra gente, questa nostra Italia? Anche di fronte ad una assemblea domenicale piuttosto nutrita, al solo pensiero di cosa si sarebbe occupato quel “gregge” del buon Dio appena uscito di chiesa, qualche volta ci è venuto il sospetto che le loro facce assorte dai nostri discorsi o dalle preghiere, non promettessero affatto di prenderci sul serio.
Non è mia intenzione affermare che oggi i nostri battezzati siano più “cattivi” di ieri. Più confusi, sì, certamente. Più espliciti nella loro idolatria anche. Ma non coglieremmo per nulla quanto succede oggi se non ci rendessimo conto che dietro le spalle hanno secoli e secoli di nostre segrete lotte e crociate contro il Dio di cui ci ha parlato un Gesù. Un Dio che ci vuole a sua immagine, mentre noi vorremmo Lui, proprio Lui, a nostra immagine e somiglianza.
Penso si possa tranquillamente affermare che di Dio si è tanto abusato, si continua tanto ad abusarne, da sfigurarlo. Difficile decidersi a definire quel dio che avrebbe fatto da supporto sacro all’abominio della Shoah, al massacro di milioni di ebrei, zingari, malati di mente e “diversi”. Nel 1945 si conia la parola Shoah per indicare l’inedito, l’impensabile. Solo che quel dio fu “pensato”, adorato come ovvio da milioni di persone. Con questo dio si venne a patti tramite concordati e rispettosi ossequi anche di alti prelati. Non ebbero vita facile quei (pochi) vescovi tedeschi che fiutarono un idolo nel dio delle SS e di Hitler, ed osarono dirlo in pubblico. Fu criticato dallo stesso cardinale di Monaco quel Pio XI che aveva parlato della svastica come di “croce nemica della croce di Cristo”. Il mistero della enciclica contro il nazismo mai pubblicata (Mit brennender Sorge) trova il suo naturale humus in una Europa che poco o nulla era attenta a Dio, mentre era molto sensibile ai bisogni di industriali, grandi proprietari terrieri e banchieri, cioè al dio denaro.
Nei giorni della carneficina di Gaza si è fatto scialo di parole sui nazisti vecchi e nuovi, e sul ritardo con cui si prese coscienza che il Gott mit uns di Hitler e delle SS non aveva nulla da spartire col Dio di Gesù ma era un idolo, una assurda, beffarda, sanguinaria divinità nata da una mente malata e da una cultura antica. Si trattava dell’edizione riveduta e corretta di un vecchio dio che aveva fatto fin troppe scorribande nella nostra storia dell’umanità. C’era lui nel genocidio degli indiani di America, degli armeni, dei curdi e di ogni popolo oppresso. C’era lui al comando delle navi negriere e negli alti comandi di eserciti cristiani che cercavano “grandi spazi e spazi vitali”, blaterando di “razze superiori” con ogni diritto, e di “razze inferiori” con ogni dovere.
Fu così che dal monoteismo nacque una tragica maschera: la riduzione di Dio ad un bonario e cinico contemplativo delle nefandezze umane. Abbiamo fatto di lui un supremo bipartisan che sta con tutti e con nessuno. Lascia che ci trucidiamo. A ben guardare neppure questa maschera è nuova di zecca. Prove in grande stile di questo idolo a nostro uso e consumo le avevamo fatte al tempo delle crociate, delle guerre di religione, dei roghi alle streghe, delle “sante inquisizioni”. Forse ancora prima, al cosiddetto tempo della “guerra per le investiture”, quando lo stesso Dio veniva invocato dal regalismo assoluto e dalla teocrazia papale.
Ad oltre 60 anni dall’Olocausto noi non siamo diventati innocenti. Non lo siamo mai stati. In tutte le nefandezze del secolo passato ed in quelle dell’inizio millennio, è doveroso constatare che di Dio si è fatto scempio nelle due parti opposte: tra le vittime ed i carnefici, tra chi rivendicava per sé le vette del bene e chi veniva indicato a pubblico ludibrio come “impero del male”. Saddam Hussein, non meno di George W. Bush, aveva Dio dalla sua parte. Noi italiani in nome della nostra civiltà cristiana da preservare dall’influsso della “barbarie asiatico/sovietica” — come si esprimeva E. Nolte – abbiamo appoggiato Pol Pot che sterminava 3 milioni di cambogiani in esubero. Per conto della cristiana America (con le cui truppe “Dio marcia ancora”) un vecchio collaboratore del Pentagono, Andrew Marshall, dopo avere inventato quella piccola “cosa da niente” che è il macello iracheno, sta organizzando “la prossima guerra con la Cina, tra una ventina d’anni, sotto l’acqua e nello spazio”. Lo fermerà Obama? Meglio: sarà in grado il nuovo Presidente degli Stati Uniti di schierarsi contro il dio-denaro?
Così mi accorgo di avere smesso di meravigliarmi quando a ricordarci l’apostasia passata sopraggiunge la cronaca. Malavitosi addestrati allo slogan “Dio, patria e famiglia” possono sentirsi benefattori dell’umanità quando bruciano campi rom o si coalizzano contro “islamici che attentano alla nostra identità”. E nel campo opposto c’è chi brama di morire “martire”, facendosi esplodere, pur di sterminare i nemici del “Profeta”. Come sarebbe possibile tutto questo se fossimo ancora adoratori del “Dio vivente” rivelato da Gesù, reso presente dalla sua tenerezza e compassione per gli uomini?
Negli ultimi anni, di fronte agli integralismi ed ai fanatismi, spesso assassini, barbari quanto meno, è venuta fuori una questione dibattuta ed inquietante. Se in gran parte l’apostasia dell’Occidente dal Cristo è venuta in nome del dio- denaro, non bisogna forse scorgere nella violenza una diversa radice che addirittura indica come del tutto illusorio il Dio di Gesù, e dunque l’orizzonte da cui ogni persona onesta deve allontanarsi? Abbiamo sentito tutti, nei giorni caldi di qualche scempio di creature umane, che “se questa è la religione, è molto meglio essere atei”. Probabilmente anche la campagna degli “ateo-bus” intrapresa dall’ “Unione Atei e Agnostici Razionalisti” (Uaar) ha questa radice. Si sostiene che una connotazione fondamentalista è radicata nel profondo di tutte le religioni cosiddette “del libro”, cioè la cristiana, la ebraica e la mussulmana.
Mi sto riferendo allo studio fondamentale di Erik Peterson uscito in Germania nel 1935: “Il monoteismo come problema politico”. L’Autore voleva opporsi al nazismo ed al suo teismo, ma in realtà va ben oltre e cerca di dimostrare che proprio nel monoteismo si annida la radice della dittatura, della violenza e della guerra. Il monoteismo sarebbe un sistema di guerra che si ammanta di pace, una oscura ipocrisia che non suscita interrogativi morali, anzi riesce ad abbassare tanto le difese etiche e psicologiche da fare accettare la violenza in nome di Dio come bene supremo e prova della pienezza umana. Il Dio unico sarebbe la cifra assoluta dell’aggressività umana. Non si uscirebbe mai dalla cultura di guerra se non si esce dalla cultura del monoteismo.
A questo punto non è una domanda retorica chiedersi di che Dio stiamo parlando nelle nostre assemblee liturgiche, così perfette, così spettacolari, ma anche così spesso prive di carica di vita nuova nello Spirito. E non è neppure retorico chiederci perfino se è vero che esistono oggi atei e credenti. Forse siamo tutti idolatri, e quindi tutti “credenti”, perché qualche dio, comunque lo si chiami (mercato o razza, etnia o religione, benessere o rassegnazione alla miseria, soldi o prestigio, vendetta o giustizia) lo abbiamo tutti. O forse siamo tutti atei in Occidente perché anche i cristiani pare che abbiano rinunziato da tempo ad adorare il Padre del loro Signore Gesù e si sono rifugiati in qualche “assoluto di sostituzione”, in un dio che non esiste. Ne deriva che quando si invoca la fine dell’etsi Deus non daretur, quando si auspica un veluti Deus daretur, forse la prima cosa davvero decisiva è sapere di che dio stiamo parlando, se di un idolo come il “dio-denaro” o del “dio-mercato”, oppure dell’Unico che noi conosciamo: il volto mite di Gesù Cristo, crocifisso per amore, e per la nostra risurrezione risorto. Senza questa precauzione fare tornare Dio in campo può essere pericoloso come l’averlo cacciato via. Un dio sanguinario è bene lasciarlo perdere, ci guadagna l’uomo. Se questo stesso antico dio-idolo ritorna e si intronizza, l’uomo è perduto.
Come si può constatare il discorso è molto serio. Se Dio è il nostro Principio e il nostro Fine, l’alfa e l’omega; se con la parola Dio intendiamo Colui che è verità ultima e definitiva della nostra vita, principio strutturante di ogni nostra scelta etica, “fondo della nostra anima” – per dirla con Meister Eckhart – termine ultimo del cammino di umanizzazione; se Cristo è colui alla cui luce soltanto vogliamo vivere e morire; allora forse dobbiamo dircelo che nulla è più urgente nella chiesa oggi del rimuovere ogni dubbio sulla purezza di una nostra fede nel Dio di Gesù. È importante interrogarsi su quale chiesa, quale Azione Cattolica, quale liturgia, quale papa, quale etica, quale politica. Ma la questione delle questioni è “quale Dio”. O, se si vuole, fare in modo che “Dio sia Dio” – direbbe Y. Congar. Riteniamo devastante che qualcuno ci possa chiamare monoteisti pensandoci però volenterosi e lieti idolatri.
Giorno dopo giorno, contemplando la nostra vita e quella del Pianeta, osservando ciò che emerge dalla stessa esistenza piatta di tanti credenti, come dalla ostinata sonnolenza di tanti preti (paghi non si sa bene di chi e di che), mi convinco che saprebbe di condanna a morte, gronderebbe sangue e lacrime una ulteriore stabilizzazione del dio dei potenti, di quel “dio degli eserciti” che sacralizza il potere assoluto dei padroni del mondo. Forse questo dio darebbe ulteriore lustro ad una gestione autoritaria del mondo e delle coscienze, forse darebbe altro splendore anche al nostro potere sacro, ma per non essere “bugiardi fin dall’inizio” dovremmo avere ben chiaro che diciamo “dio” ma non intendiamo affatto riferirci al Dio del “regno” annunziato da Gesù.
Già all’inizio del secolo scorso, Maria Zambrano affermava che la religione che si era radicata in Europa, non era il cristianesimo, ma, al massimo, “una versione del cristianesimo” che autorizzando la violenza si manteneva abbastanza lontana da una vera fede cristiana. Che scriverebbe questa insigne filosofa se vivesse ai nostri giorni? Forse che il cristianesimo storico tenta ancora di completare la sua opera: uccidere di nuovo Cristo, svuotare del tutto il cristianesimo evangelico.
Diciamo tutto ciò attraversando con occhi dolenti la pena intima che ci provoca questo ammanco di fede. Parliamo cioè nella speranza: una ripresa cristiana non è alle porte ma è come una promessa infallibile. Cristo è risorto, e torna solo se lo si dissocia dalla violenza e dal denaro, dal fasto e dalla voglia di prestigio, se lo si fa amico “dei piccoli e dei poveri” come Lui si è mostrato, “buon Samaritano che fascia le ferite antiche e nuove dei figli del Padre. C’è da partire dal ripudio della violenza (militare, economica, culturale, comunque la si chiami e giustifichi) se veramente noi cristiani vogliamo incontrare il Dio paziente, il Dio che soffre nell’uomo dopo avere dato se stesso nel “pane” e sulla croce.
Ma ne siamo ancora lontani. Possiamo forse ammettere tutti (pessimisti analizzatori delle nostre fragilità ed entusiasti celebratori delle grandezze della nostra fede) che viviamo ad un doppio livello: di fede quando siamo in chiesa o quando richiediamo i sacramenti, e degli “schemi di questo mondo” (Rom 12,2), quando siamo nei nostri uffici, nei nostri negozi, costretti a “guadagnarci il pane” ed a pensare alla famiglia.
Mi si permetta un esempio. Nessuno ha dubbi nel ritenere religiosa la Campania. Ma nessuno può dimenticare che ad un altro livello è una delle regioni dove più che altrove sembra che si viva di delitto, di sfruttamento, di coinvolgimento malavitoso in ogni settore della imprenditoria. Non si ha il coraggio di portare a termine la lettura di un reportage giornalistico come “Gomorra” di Saviano. E abbiamo forse dubbi sulla religiosità che anima così spesso il Duomo di Milano o le sue mille parrocchie? Ma ad un altro livello, in certi momenti di sciacallaggio in doppio petto, pare proprio che le vere chiese che contano siano le banche dove custodiamo i nostri “tesori”. Non ha meridiani né paralleli il cinismo e la voglia dell’accumulo, ed allora è patetico domandarsi come possono dei cristiani giungere a tanta ferocia. Molti battezzati, cristiani, in effetti, pensano di esserlo, ma sono usciti dalla fede da tempo, ed ancora non se ne sono accorti.
Portata su un piano più generale, questa è l’accusa che oggi l’Islam fa all’Occidente: siete atei e non ve ne accorgete neppure; voi avete perso il senso della vita, non servite più Dio. E da questo, un qualche o tanto disprezzo, che in giorni non lontani potrebbe portare ad un esplicito razzismo generalizzato, ad una “cristianofobia”. Senza alcun dubbio, simili giudizi sembrano tipici di un islamismo radicale, ma in fondo noi sappiamo che stanno ripetendo con parole religiose ed arroganti le nostre più profonde convinzioni. Solo che noi ci esprimiamo in termini secolari. Parliamo di obbiettivi geostrategici, di necessità di accesso e accumulo in esclusiva dei beni essenziali per il nostro benessere (petrolio, bauxite, alluminio, coltan, rame, uranio…), di vantaggi politici, della sicurezza delle vie di commercio e della libertà di mercato, e in base a queste “assolute nostre necessità”, vogliamo ridisegnare il mondo, disposti a sterminare chi ci ostacola e non si piega ai nostri bisogni, siano essi individui o nazioni. Non ci vuole molto a concludere che la stiamo facendo da “dei”. Oppure che le nostre “assolute necessità” sono i nostri dei, i nostri idoli. Continuiamo noi occidentali a parlare di Dio, possiamo mettere il suo nome anche nelle nostre costituzioni, ma bisogna confessare che mentre l’Islam parla di religione in modo attendibile, fino a viverla magari in modo integralista e fanatico, l’Occidente fa solo una parvenza di discorso religioso, tanto è vero che quando un cattolico vuole seguire con una certa coerenza il vangelo, viene tacciato anche lui di fanatismo.
“La Prima Comunione è una bella festa, ma non esageriamo con l’innocenza ed una vita nella condivisione. Voglio un figlio che viva in questo mondo…”: parola di un papà fin troppo adeguato agli schemi correnti. In quest’ottica riusciamo a comprendere perché noi occidentali possiamo essere chiamati “infedeli”. I valori che per l’islamico sincero sono davvero sacri, nei fatti, noi li percepiamo solo come secondari e spesso con funzione di orpello.
Quanti hanno a cuore il vangelo e pensano che solo dal Cristo possa venire una piena salvezza dell’uomo, dovrebbero prendere sul serio questa situazione, perché di questo passo ci si avvia verso una dicotomia paradossale: se il cristianesimo è la religione del ricco Occidente, l’Islam sta diventando la religione dei poveri. Ma non era il cristianesimo la religione dei poveri? Dovremmo pure pensarci a quella parola di Gesù: “il regno vi sarà tolto e sarà dato ad altri”. Se le cose continuano ad andare per il corso che oggi hanno preso, il cristianesimo da annunzio di gioia e speranza ad ogni oppresso, si dimostrerebbe la “via sacra” per legittimare le pretese dei ricchi. E addio a quel sempliciotto che si spende ancora per il “regno di Dio e la sua giustizia”.
So bene che sulla chiesa vigila uno Spirito che la preserva da tali sbandamenti. Essa custodisce ancora la speranza di ogni uomo angosciato nello spirito e piagato nella carne. Non diventerà dunque mai automaticamente la religione dei ricchi, ma le sarà sempre difficile rinunziare alla tutela di quei sistemi che per la loro superiorità economica e militare garantiscono aiuti economici e titoli onorifici. Il guaio è che, in contraccambio, le chiese cristiane non prenderanno mai nette distanze dalle scelte di tali potentati. Diranno e non diranno qualcosa contro la guerra o contro il dio-mercato. Si arroccheranno sul diritto a nascere, mentre chiuderanno un occhio sulla negazione del diritto di ogni uomo a mangiare, bere acqua potabile, curarsi, istruirsi, vivere in libertà e dignità. In situazioni simili è proprio difficile essere “testimoni del Dio vivente”. Perché è difficile “imboccare la via stretta che conduce alla vita”. Passeggiamo in carrozza “per la cruna dell’ago” e ci crediamo seguaci del Dio di Gesù. Un po’ di saggia umiltà non guasterebbe. Duemila anni di cristianesimo non ci autorizzano a crederci al sicuro, radicati una volta per tutte nella fede in Dio.
Il pericolo di un passaggio dalla vita alla morte, dal Dio vero agli idoli, è sempre di fronte a noi. La Bibbia è piena di esempi in merito. Gesù rimproverò a scribi, farisei e sommi sacerdoti che avevano trasformato il tempio, la “tradizione degli uomini” e la stessa Legge, in idoli. Può succedere anche a noi qualcosa del genere. La penuria di preti che priva per mesi e mesi intere comunità della celebrazione eucaristica, non è cosa di poco conto per una religione che è essenzialmente sacramentale. Ma se gli usi umani, le condizioni poste dagli uomini per ammettere al sacerdozio diventano intoccabili, non c’è il rischio che il vero “Assoluto” sia sostituito da ciò che, pur importante, è secondario?
Diventiamo idolatri tutte le volte che ad un ateo (magari divenuto tale per essersi scandalizzato delle controtestimonianze di uomini di chiesa) non riusciamo a dire che egli sta forse rinunziando ad un Dio a cui anche noi rinunziamo, proprio perché ancorati al Padre del Signore nostro Gesù Cristo.
Diventiamo idolatri se il presbiterio o la comunità credente in cui viviamo, invece di aprirci a Dio ci chiude negli interessi della “corporazione”, della istituzione-chiesa. In pratica quando dimentichiamo che la stessa chiesa è “penultima” nel piano di Dio, penultima rispetto al Cristo. Essa non è il fine, ma solo un mezzo al “regno”. La si stravolge erigendola a realtà “ultima”, cioè ad idolo.
Tutto si va radicalizzando ed allora ci si permetta di dire che il problema della nostra fede oggi ci obbliga non tanto ad interrogarci sulle nostre scelte teologiche, quanto, in modo prioritario, sull’orientamento di fondo che ha preso la nostra vita.
Tra il “drago” e la “Nuova Gerusalemme” dell’Apocalisse noi cristiani del terzo millennio, abbiamo veramente scelto? Abbiamo sposato o ripudiato Babilonia? Una risposta diretta sarebbe oltremodo di parte, e forse falsa. Proprio perché non ci stiamo addentrando nel terreno illuminato dalla coscienza, ma in quel groviglio di desideri e attese, di fede e incredulità, di fiducia e diffidenza dove un uomo gioca ordinariamente la sua vita.
Qualche criterio esterno allora ci giova di più. Chiediamoci, ad esempio, chi è l’uomo per noi. La fede cristiana, facendoci nominare Dio come Padre, ci permette di parlare dell’uomo in genere, di qualsiasi uomo, come di un fratello. Ora i fratelli si amano quasi a priori, appunto perché fratelli. I fratelli stanno davvero bene se includono, se accolgono, se si scambiano il perdono. Essi sanno di essere misteriosamente e realmente “uno”; hanno a cuore questa unità. Ma se, al contrario, noi viviamo di esclusione, di emarginazione, sotto tanti speciosi motivi (basta una tifoseria opposta o gli isterismi di un “pacchetto sicurezza”!), se l’impegno volenteroso dei nostri giorni consiste nell’individuare chi è degno del nostro affetto e chi deve essere “scomunicato”, forse stiamo adorando un idolo. Perché ad autorizzarci ad escludere non può essere il Dio di Gesù, ma quell’idolo che Paolo chiama il “dio di questo mondo” (2 Cor 4,4). Allo stesso modo, parliamo di pace evangelica, esultiamo per il “dono della pace”, ce la scambiamo (forse un po’ formalmente) anche con gli sconosciuti, a messa.
Ma quando poi ci rassegniamo ad accettare, senza battere ciglio, di far parte di un Occidente che la guerra la vuole, la riabbraccia dopo averla ripudiata, forse stiamo perdendo di vista Dio ed il suo “regno di amore, di giustizia e di pace”. E quando, almeno fino a ieri, ci sembrava ovvio parlare di “guerra infinita” e “guerra preventiva”, di “nazioni-canaglia” contrapposte a “nazioni cristiane”, ci accorgevamo o no di ragionare secondo una logica che non ha nulla da spartire con Gesù di Nazareth? Con la guerra ci stanno “i signori di questo mondo”, il “principe di questo mondo”, qualche “dio straniero” che noi non dovremmo per nulla conoscere.
Scandalizzò molti agli inizi degli anni ‘80 un giudizio perentorio di Karl Rahner: “Oggi i cristiani vivono dappertutto in una tale situazione di diaspora che gli individui decisamente e veramente cattolici sotto ogni aspetto costituiscono solo una modesta minoranza, pure all’interno di gruppi ufficialmente organizzati dalla chiesa. Questi cattolici della diaspora parlano dappertutto il linguaggio del loro ambiente, che è pagano”. Così, chiaro e tondo: “pagano”.
Questo affermava quasi tre decenni fa l’illustre gesuita, intuendo verso dove si andava. Ebbene c’è da dire che fu facile profeta, e che oggi di strada ne abbiamo fatta tanta in quella direzione, anche se continuiamo a parlare di Cristo e definiamo in suo nome ciò che è bene e ciò che è male.
Felice Scalia