Sguardi dalla stiva
L’estate scorsa, mentre infuriava la polemica sull’art. 18, un operaio è stato costretto ad autolicenziarsi dalla Marcegaglia SPA, una grande azienda mantovana. Negli stessi giorni il quotidiano locale annunciava il raggiungimento di un accordo tra i sindacati ed alcune aziende locali, tra cui la Marcegaglia, sul mantenimento dell’applicazione dell’art 18. La documentazione che riportiamo sulla vicenda di un singolo lavoratore ha un valore emblematico perché esprime una situazione diffusa. L’esercito dei senza diritti sul lavoro è sempre più numeroso ed è presente anche nelle… migliori famiglie.
19 luglio 2002, all’una del pomeriggio suona il telefono e, all’altro capo, la voce concitata di un bambino mi invita a recarmi subito a casa sua perché il padre è rimasto, improvvisamente, senza lavoro.Nei dieci minuti di tragitto, mi chiedo cosa possa essere successo, quali gravi motivi avranno indotto una grande azienda, come la Marcegaglia S.p.a, a licenziare un padre di famiglia con moglie e tre figli a carico.
Salgo velocemente le scale che conducono al modesto appartamento e mi trovo di fronte un uomo prostrato che, esprimendosi confusamente, dice: “Ho firmato la lettera di dimissioni”. Lo investo di parole, ma interrompe il mio sfogo assicurandomi che la lettera di dimissioni l’aveva firmata due anni prima. Devo raccapezzarmi e non riesco a parlare, lui intanto prosegue: “Due anni fa, alla fine del mio contratto di Formazione e Lavoro, la Direzione dell’Azienda mi ha comunicato che, se volevo essere assunto a tempo indeterminato, dovevo firmare una lettera di dimissioni in bianco. Si trattava solo di una formalità, un modo per autotutelarsi…”. Riempie il mio silenzio aggiungendo: “Sono andato alla FIOM di Mantova e ho fatto presente quanto mi stava accadendo. Mi è stato risposto che potevo ritenermi fortunato per aver trovato un’occupazione. “E così ho accettato e sopportato, quotidianamente, che mi dicessero di stare attento, che qui ero solo in prestito…”.
Mi convinco che il padrone “buono”, Steno Marcegaglia, colui che conosce tutti i suoi operai per nome, non può essere a conoscenza di un fatto del genere. Probabilmente la decisione è stata presa solo dal capo del personale dello stabilimento di Casalmaggiore, in assenza del consenso del padrone.
Mi reco immediatamente alla Fiom di Mantova per chiedere ulteriori delucidazioni e qui, tal Buttasi, mi dice che si informerà con il Consiglio di Fabbrica e che mi farà tempestivamente sapere.
Passano due giorni e poi un altro e un altro ancora ma dal Sindacato non c’è nessuna notizia.
A questo punto, l’uomo, che divide la casa con me e non solo, parte per il sindacato dove trova il segretario dei metalmeccanici che, alla reazione spazientita di chi gli dice: “Ma ti rendi conto che quell’uomo è sul lastrico, deve pagare il mutuo, ha tre figli piccoli da mantenere, la moglie fa lavori saltuari, non ha soldi per fare la spesa quotidiana…” risponde “Non gli hanno mica puntato una pistola alla testa quando ha firmato la lettera di dimissioni, comunque ti telefonerò e ti farò sapere”.
Quel segretario – la cui faccia, in quel periodo, aveva troneggiato nella prima pagina della Gazzetta di Mantova che titolava: “Da noi l’articolo 18 vale ancora. Accordo pilota fra la Marcegaglia, Bondioli e Pavesi e il sindacato per mantenere l’articolo 18″ – non sembra molto interessato alla sorte di una persona che è rimasta senza lavoro. Addirittura, nell’articolo si leggeva che sarebbe stata creata la figura dell’operatore sociale all’interno della fabbrica, con l’obiettivo di aiutare gli operai in difficoltà.
Allora, nutrivo una fiducia incondizionata nel Sindacato e non mi passava lontanamente per la mente l’ipotesi che, aiutare gli operai in difficoltà, potesse significare insaponare la corda con la quale impiccarsi.
Successivamente a quel “Ti telefonerò, ti farò sapere” si susseguono le chiamate al sindacato: purtroppo la linea o è occupata, o è desolatamente libera, oppure raccoglie le mie implorazioni per sapere qualcosa attraverso la segreteria telefonica.
Ma i giorni passano e dal Sindacato nessuna notizia.
Un sabato sera, durante un incontro a Canicossa, Gianni mi assicura che telefonerà alla segreteria della C.G.I.L. di Cremona e Roberto decide di scrivere una lettera a Marcegaglia per chiedergli ragione dell’accaduto.
Ritorno a casa più sollevata con la certezza che Steno Marcegaglia non potrà non rispondere alla lettera di un prete, lui che si dichiara credente e devoto. Nei giorni successivi vengo a sapere che il capo del personale della Marcegaglia di Gazoldo sembra aver detto che, dopo le ferie, avrebbe risolto il problema.
Il segretario della Fiom, Lottardi, ben lontano dall’idea di telefonarmi, presenta, a un mio amico che lavora alla Marcegaglia di Gazoldo, l’operaio licenziato come un “lavativo”. Purtroppo di fronte alla domanda “ Ma che cosa ha fatto per essere considerato un lavativo?” viene innalzato il segreto, credo sindacale. Infatti, il sindacato lavora molto con i segreti, perché anche a mio marito che, telefonicamente gli chiedeva se avesse parlato con il capo dei personale di Gazoldo, risponde: “ Queste sono notizie riservate che non posso riferire”.
I giorni passano, siamo oramai nei primi dieci giorni di agosto e c’è qualcuno che compie il giro della provincia per fare domande di lavoro: Pioggia Carnevali, Iveco, Ival, Marconi, Corte Buona, ecc. Insieme compiliamo le domande che presentano aspetti sicuramente non attinenti ad una richiesta di lavoro. Infatti, non si capisce, ad esempio, che relazioni ci sia fra la necessità di guadagnare il pane quotidiano con la religione di appartenenza.
Dal Sindacato nessuna notizia e tanto meno dall’Azienda, ma siamo al quindici di agosto, dobbiamo aspettare. Divento meno fiduciosa sulla possibile risposta di Marcegaglia a Roberto e, di conseguenza, sulla possibilità di un reintegro lavorativo presso la Marcegaglia.
Così, coinvolgendo coloro che sono disposti ad essere partecipi – pochi per la verità – si continua a cercare un posto di lavoro, ma invano. C’è chi è chiuso per ferie, chi non assume e chi domanda come mai si è autolicenziato da una ditta sicura come la Marcegaglia.
Durante questo peregrinare scopro cose interessanti: parecchie ditte mantovane si premurano di avere le dimissioni in bianco al momento dell’assunzione.
Arriva, finalmente, settembre, rientra il capo del personale della Marcegaglia di Gazoldo, il quale liquida lapidariamente un amministratore locale che perorava la causa dell’operaio licenziato sentenziando che un lavativo così non l’avrebbe mai reintegrato. Anche in questo caso, di fronte alla richiesta di spiegazioni, viene opposto il segreto di azienda: come si può notare il segreto di sindacato e quello di azienda coincidono.
Mi arrovello per scoprire che cosa possa nascondere questo segreto così grave da non poter essere rivelato, ma non riesco ad andare al di là del fatto che il lavoratore aveva fatto una trentina di giorni di assenza (in un anno) perché colpito da una grave forma di ulcera che gli aveva “rubato” quasi quindici chili in pochissimo tempo. E non c’è bisogno di avere esperienza di fabbrica per capire che nessuno stomaco umano gradisce turni lavorativi che abbracciano tutte le ventiquattro ore e cambiano una volta alla settimana.
Si ritelefona alla varie fabbriche e, una mattina, mio marito riesce a parlare con il capo del personale di una grande azienda, gli spiega la situazione e riceve assicurazione circa la convocazione per un colloquio della persona che da due mesi è senza stipendio e che riesce a sopravvivere grazie all’aiuto di parenti e amici.
Le cose prendono una buona piega, il colloquio sancisce la decisione di provvedere all’assunzione, anche se per un tempo determinato.
Quando il neo assunto torna a casa, riceve una telefonata dal capo del personale della Marcegaglia di Casalmaggiore che lo invita a comportarsi bene, perché lui medesimo ha garantito sulla sua affidabilità. Inutile sottolineare l’incongruenza di questo dirigente che esprime un’assurdità paragonabile all’angolo segreto della casa rotonda.
Intanto, sincronicamente, la Fiom di Mantova comunica agli operai di Gazoldo che la situazione si è risolta grazie al determinante intervento del sindacato. In fondo, anche se si tratta di un lavativo con quindici chili di meno, ha diritto di restare al mondo e di trovare un lavoro, a tempo determinato, s’intende.
Non siamo ancora arrivati ad applicare la logica del grande fratello al mondo del lavoro. Tuttavia, ritengo che siamo sulla strada buona.
Intanto, Steno Marcegaglia non risponde all’accorata lettera di Roberto, non ce n’è bisogno, tutto è stato risolto…
Rimangono solo inquietanti coni d’ombra come quello del ruolo del sindacato e della relazione con i padroni, o come quello di un grande elettore del centro sinistra, come Steno Marcegaglia, che non esita a lasciare sul lastrico un povero cristo, o come quello di aziende mantovane che scelgono di tutelarsi nei confronti di quei lavoratori che non offrono, ad un primo sommario esame, due anni di lavoro nel caso specifico, garanzie sicure circa la completa fedeltà al padrone. Si tratta, in linea generale, di meridionali, neri, extracomunitari, giovani, donne…
È vero: è bene tutto quello che finisce bene, ma ho la netta sensazione che per una storia che finisce bene, a tempo determinato s’intende, molte altre rischiano di avere conseguenze e conclusioni drammatiche.
Isa Benatti
Lettera (senza risposta) al Sig. Steno Marcegaglia
Sig. Marcegaglia,
ci siamo incontrati molti anni fa assieme all’on. Franco Raffaldini, allora segretario generale della CGIL, ad una tavola rotonda a S. Nicolò Po. Le richiamo questo particolare perché, forse, Le potrà servire ad identificarmi.
Il motivo per cui Le scrivo riguarda la recente vicenda di un Suo dipendente, in servizio sino al mese scorso nello stabilimento di Casalmaggiore. Le informazioni delle quali mi avvalgo per scriverLe sono casualmente giunte al mio orecchio; non ho fatto particolari ricerche sulla loro attendibilità, però mi sento ugualmente in dovere di presentarle il “caso”. Sicuramente Lei ha in mano tutte le possibilità per accertare la verità delle cose e, nel caso, per intervenire.
Sorrentino Filippo di 35 anni, sposato, padre di tre figli, abitante a Castellucchio si ritrova tra le mani una comunicazione dell’Azienda, firmata dall’Ing. Ferrari, nella quale si dice che “viene accettata la sua lettera di dimissioni” e che “il suo ultimo giorno di lavoro sarà venerdì 19/07/2002”. Mi consta che lo stipendio della persona nominata è l’unica fonte di reddito sicuro per la famiglia.
A quanto mi riferiscono, il Sig. Sorrentino ha vissuto un periodo molto sofferto: negli ultimi mesi i problemi di salute di questa persona sono apparsi effettivi e rilevabili. Attualmente anche ad occhio nudo è constatabile una situazione di deperimento psico-fisico. Va da sé che, in queste condizioni, il suo rendimento sul lavoro non poteva essere ottimale.
Comunque il problema che sottopongo alla Sua attenzione è il seguente: la lettera di dimissioni a cui si riferisce la comunicazione del 16 luglio scorso firmata dall’Ing. Ferrari, con la quale si notificava l’accettazione delle dimissioni volontarie del Sorrentino, sarebbe stata richiesta dalla Direzione stessa e firmata in bianco dal dipendente circa due anni fa, al momento della assunzione dopo il periodo di Formazione e Lavoro. Ad essa ci si sarebbe richiamati a distanza di due anni per dichiarare l’accettazione delle sue “volontarie” dimissioni dal lavoro.
Se è così, una considerazione viene spontanea: nessuno si sogna di firmare al momento della assunzione una lettera in bianco nella quale dichiara di dimettersi volontariamente da quel posto di lavoro, se in qualche modo non ne viene indotto o costretto. Se è così, una domanda sorge spontanea: il Sorrentino è l’unico caso nel quale si è adottato un tale procedimento o ve no sono altri già attuali o che potrebbero venire a maturazione?
Nei giornali locali dello scorso 1 agosto si dava notizia di un importante e positivo accordo al quale sono pervenute Aziende mantovane, tra cui la “Marcegaglia Spa”, e il Sindacato territoriale in merito alla giusta causa per il licenziamento (Art. 18) e ad altri punti qualificanti, nel quale venivano assicurate maggiori garanzie e vantaggi per i lavoratori: un percorso diverso rispetto a quanto previsto nel cosiddetto “patto per l’Italia” recentemente firmato a livello nazionale. In particolare, l’articolo della “Gazzetta dì Mantova” riferendosi alla Sua Azienda, oltre che sottolineare vantaggi salariali per i lavoratori, mette in particolare evidenza elementi che concernono una attenzione per la qualità della vita delle loro famiglie quali: “l’istituzione di un delegato sociale che si dedicherà ai colleghi in difficoltà con la famiglia” e “congedi parentali anche per figlio maggiore di otto anni”. Ho sinceramente gioito all’annuncio di questo accordo dato dalla stampa locale.
Venuto a conoscenza della situazione del Sorrentino, non ho potuto non rilevare la stridente contraddizione tra il tenore degli accordi ed il procedimento messo in atto da Dirigenti della Sua Azienda nei confronti del suo dipendente. Ed è per questo che mi sono sentito in dovere di scriverLe, pensando anche alla possibilità che Lei non fosse personalmente al corrente della cosa.
Le ripeto, non so se le informazioni che mi sono state fornite siano in tutto esatte. Sicuramente non sono complete. È certo però che, a quanto mi riferiscono, il sig. Sorrentino non ha proprio l’aria di una persona che abbia rassegnato le dimissioni dal lavoro attuando una scelta volontaria.
Se le cose da me riferite non fossero vere, perché male informato, e Lei ha tutta la possibilità di accertarle, mi scuso per il tempo che Le ho fatto perdere con questo scritto. Se invece nella sostanza sono vere, penso che sia assolutamente ingiusto e iniquo abbandonare al suo destino questa persona e la sua famiglia.
Distinti saluti.
Don Roberto Fiorini
Mantova, 08.08.2002
Intervento all’assemblea in fabbrica
“La madre del peggio è sempre incinta”: con questo antico detto, che significa come ci si debba sempre attendere il peggio, iniziai il mio intervento durante un’assemblea di fabbrica che doveva preparare lo sciopero indetto dalla sola GCIL. Prima di me parlarono, in ordine rigorosamente sacro e inviolabile, i tre segretari provinciali di categoria. I due sindacalisti della Uilm e della Fim sostenevano la positività dell’accordo, definito Patto per l’Italia, da poco firmato; il terzo, della Fiom, contestava tale accordo e chiamava alla mobilitazione tutti i lavoratori in difesa dei diritti cosiddetti “sacrosanti”.
“Ma quali diritti? – continuai nel mio intervento – Non posso dimenticare le politiche di contenimento salariale concordate da CGIL, CISL e UIL con i governi di centrosinistra. Non posso dimenticare gli accordi sulla flessibilità che hanno portato le tre confederazioni sindacali ad accettare modalità di assunzione incivili e odiose: agenzie interinali, contratti di formazione lavoro, a termine, di collaborazione continuativa, individuali, atipici e, sempre e comunque, precari. Nuove forme di schiavitù moderna che costringono il lavoratore a subire, pena il licenziamento. Per non parlare di quella formula subdola di ricatto che consiste nel far firmare, preventivamente al lavoratore, senza data, la lettera di dimissione”.
E raccontai la storia di un uomo, assunto dalla Marcegaglia di Casalmaggiore e poi autolicenziato. Raccontai lo sconforto e la disperazione di un uomo che non sapeva che cosa raccontare alla moglie e ai figli e che si vergognava, a tal punto, da non uscire più da casa. Raccontai di pranzi e cene sempre più scarne, riempite da domande sempre più grandi. Raccontai del girovagare nelle fabbriche della provincia per trovare un posto di lavoro. Raccontai, soprattutto, dell’inerme silenzio del sindacato – nel caso specifico della FIOM di Mantova – che si era ben guardato dal mettere in atto una, seppur piccola, forma di protesta e che si era limitato a celebrare l’ineluttabilità della consegna della vittima sacrificale al padrone. Ricordai la denuncia, fatta anni prima, all’interno del Consiglio di Fabbrica, per verificare la vericidità delle voci circa la pratica delle dimissioni in bianco. Ricordai la risposta, chiara e definitiva, del Capo del Personale che chiudeva il discorso con un lapidario: “Qui queste cose non si fanno!”.
E conclusi la storia raccontando che dopo molti ni e forse, giunse, finalmente, il sì di una grande azienda che sanciva l’assunzione, anche se a tempo determinato, di quel padre di famiglia.
A questo punto domandai ai tre sindacalisti se ritenessero di essere in buona fede nel parlare con tanta enfasi dei diritti dei lavoratori. E, per la prima volta in ventisette anni di assemblee, non scattò l’applauso. Una cappa di silenzio, molto più assordante, colmò la mensa.
Ritornai al mio posto e, a conferma di quanto avevo poco prima sostenuto, un operaio seduto al mio fianco mi sussurrò: “dieci anni fa ho firmato anch’io la lettera di autodimissioni”.
Sandro Chizzola, operaio
Stabilimento Marcegaglia – Gazoldo degli Ippoliti