Incontro nazionale 2007
OPERARE GIUSTIZIA IN UN MONDO INGIUSTO
Memorie e prospettive

Interventi



La guerra del capitale

Ogni giorno muoiono uomini e donne
sul posto di lavoro. Uomini e donne
escono di casa alla mattina per fare
una cosa normale (lavorare)
e non tornano più.

 

Una mattina, tornando dalla quotidiana passeggiata, dalla pineta in spiaggia, con il cane, ho avvertito uno strano silenzio per essere una giornata di lavoro. Sul ponticello che mi porta a casa ho incrociato due uomini con uno striscione ripiegato e ho chiesto loro “Ma che succede?”.
Uno di questi mi è venuto incontro attraversando la strada e mi ha dato un volantino senza dire una parola. Ho letto: “Joubert è morto”.
Da alcuni giorni questo sudafricano di 23 anni era in coma irreversibile all’ospedale di Pisa dopo una rovinosa caduta dal ponteggio che fasciava lo yacht su cui era imbarcato, portato in banchina per una revisione.
Erano vent’anni che in tutta la Darsena di Viareggio non moriva qualcuno sul lavoro.
E la Darsena si era fermata tutta, come non accade nemmeno in occasione degli scioperi generali. Sono andato incontro al corteo dei manifestanti partito dal Municipio. L’ho lasciato sfilare ed era palpabile la commozione, la partecipazione davvero non formale, quel parlare a bassa voce che si assume quasi senza accorgercene quando si sente di rasentare l’indicibile. Eravamo veramente tanti.
Mi sono reso conto di come è cambiato il volto operaio della città. Alcuni “vecchi”, da tempo in prima linea per le battaglie per un lavoro dignitoso e giusto, ma soprattutto giovani. Bianchi, olivastri, neri. Un piccolo condensato di quel “villaggio globale” che sta diventando questo nostro mondo.
Siamo arrivati a poche decine di metri dal luogo dove Joubert è caduto e hanno fatto proseguire solo il sindaco, l’assessore alle attività portuali e due delegati sindacali che hanno portato un mazzo di fiori. Sarei andato anch’io e mi avrebbero fatto passare sicuramente. Sono conosciuto, e poi un prete ha il suo ruolo quando si tratta di morte. Ma sono rimasto con gli altri, nel silenzio rotto solo da un applauso al momento in cui il mazzo di fiori è stato deposto. E lì, in mezzo ai compagni, sentendomi ancora parte di loro, ho pregato in cuor mio perché questo stillicidio di croci sul lavoro finisse una buona volta. Perché ci fosse almeno una tregua in questo eterno sfruttamento dell’uomo sull’uomo. E pregavo anche per la Chiesa, assente, sorda, impegnata solo a far valere i propri diritti, impaurita da ogni confronto sullo stesso piano, capace solo di salire in cattedra, cieca alla dimensione umana della vita. La Chiesa nata dall’acqua, dal pane e dal vino e così assurdamente lontana dalla materia per predicare una interiorità astratta segnata da tanta disumanità… Poi il sindaco ha avuto parole forti e giuste per allontanare ogni ricorso alla fatalità e cercare risposte concrete alle domande di sicurezza sul lavoro. E così i delegati sindacali che hanno riproposto la durezza di un percorso di riconversione dell’area dalle barche da trasporto in ferro alla nautica da diporto, il silenzio dei media locali sulle condizioni precarie di lavoro più volte denunciate.
E nel venir via a malincuore da quel “cuore” caldo e appassionato di gente che reagisce e “canta” il lamento della lotta e della solidarietà, ripensavo a quanto mi aveva detto un amico tempo addietro, Queste barche da sogno vengono realizzate per persone “rampanti” e — diceva l’amico — quando a gente veramente ricca gli viene voglia della “barca” e vanno nei cantieri americani o nord-europei, questi mettono quattro, cinque anni a realizzarla con le regole. A Viareggio, in due anni è pronta. Allora vengono qui. E qui, non c’è una vera ricetta sul come far presto se non saltando le regole, comprese quelle della sicurezza. Il lavoro arriva, la città si fa bella, ma qualcuno deve pagare. Con la vita a 23 anni.

Il testo riprodotto fin qui è già stato pubblicato su “Lotta come amore” nel luglio scorso;
di seguito, il testo dell’intervento di Luigi Sonnenfeld al convegno di Bergamo
La recente morte di Joubert, marinaio sudafricano di 23 anni, schiantato al suolo dopo la caduta da un ponteggio che fasciava lo yacht su cui era imbarcato, issato a terra per alcune riparazioni, ha riportato anche a Viareggio l’angoscia della morte sul lavoro e la problematica complessa della sicurezza. Erano 20 anni che non accadeva un incidente mortale nell’intera area cantieristica delle darsene portuali.
In prima linea, anche stavolta, alla ricerca di una giustizia non formale, ma anche alla sensibilizzazione diffusa sul tema della sicurezza nei luoghi di lavoro, il locale Comitato Matteo Valenti, morto a Genova, al centro grandi ustionati, dopo due giorni di terribile agonia, avendo preso fuoco investito dall’esplosione del “pentolone” in cui stava sciogliendosi la cera alla base di un prodotto per l’igiene della casa di nome “Fata” (cera per pavimenti). – Il Comitato, composto da amici di Matteo, i suoi familiari, lavoratori di diversi settori produttivi, ha messo a fuoco alcuni nodi:
– Nuove tecnologie all’avanguardia, disponibili a costi accessibili, che coesistono con:
– strutture produttive vecchie, frutto di continui adattamenti, sempre alla rincorsa di standard che risultano irraggiungibili. Votate quindi al compromesso come requisito. Inevitabilmente “alla meno”.
– Organizzazioni di imprese che stanno in piedi contando sull’omertà e la difesa corporativa delle associazioni di categoria (il padrone di Matteo – tre dipendenti, buon fatturato, “bomba” ecologica a ridosso di negozi e abitazioni – era presidente provinciale della Confartigianato e capofila per l’associazione della 626 d’impresa…!).
– Una struttura di controllo del tutto inadeguata (ASL).
– Una giustizia penale che rincorre più i propri problemi che il significato della propria funzione, dando vita alla pratica di veri e propri “mostri” quali il rito abbreviato e il patteggiamento che vanificano la ricerca di responsabilità e quindi non si fondano sui diritti più o meno violati, ma sulla convenienza “complice” tra gli interessi delle parti, Stato compreso.
Una giustizia governata da codici che prendono in esame solo i diritti degli attori direttamente implicati, ma tagliano fuori, senza riconoscere alcun diritto, le relazioni vitali sociali ed affettive senza le quali la vita non è vita. La famiglia (cui è consentito l’accesso solo all’eventuale risarcimento) e i lavoratori in essere anche se organizzati, tanto per fare un esempio.
Questa dimensione della giustizia legata all’intera vita sociale, relazionale, affettiva, l’ho avuta chiara quando – in occasione del 50° della Chiesetta del Porto, in un clima di incontro e di scambio, ho dato una copia del testo teatrale scritto da don Sirio, “Una fede che lotta”, che si occupa per una parte della morte sul lavoro. Un testo di 25 anni fa, il linguaggio di Sirio complesso e “difficile”, gente giovane…, mi pareva un incontro impossibile. Mentre invece il testo è stato letto e raccolto come testimonianza che non è cambiato nulla. Una sensibilità, quella del testo, che incontrava la loro proprio nell’emergere consapevole e dichiarato di tutti i reali “interessi” che avvertono la terribile ingiustizia del lavoro che trafigge la vita e, insieme, il desiderio, il lamento, il richiamo forte e urgente per una giustizia finalmente giusta.
Una aspirazione dell’esistere umano che attraversa tutta la Scrittura. E se, nell’Antico Testamento la virtù sociale per eccellenza è la giustizia (sedaqah) e il rapporto più sottolineato è il diritto (mispat), fino al punto che il culto e l’Alleanza stessa perdono sostanza senza di essa (il digiuno è vano se coesiste con l’oppressione), è Dio, il Giusto per eccellenza perché indefettibilmente fedele, che orienta la giustizia umana verso la misericordia (hesed):
“Chi segue la giustizia e la misericordia troverà vita e gioia” (Prov. 21, 21), un percorso che culmina nella tensione escatologica della “pace”: “Effetto della giustizia sarà la pace” (Is. 32, 17), percorso di vita in cui il giusto si identifica sempre di più con il povero, l’oppresso e, più in generale, con quanti ripongono la loro speranza nel Signore. Fino ad irrompere come energia motrice nella intera realtà umana con la donazione di Gesù che comporta una giustizia superiore in cui è compresa tutta la legge.
Giustizia solidale con tutta la miseria e l’indigenza umana fino ad identificarsi con i più bisognosi. Giustizia che non sottovaluta l’ingiustizia, ma concede ancora maggiore importanza al rispetto dei diritti di quei fratelli e sorelle innocenti che andrebbero rispettati e perdonati perfino se colpevoli. E se si devono perdonare le offese ancora di più si deve non offendere il prossimo, per cui amore e giustizia non sono in parallelo, ma l’una è continuità ed espressione dell’altra.

C’è questo respiro nella Chiesa di oggi? O piuttosto prevale la lettera della legge, la riproposizione dell’amore, l’ancoraggio a modelli di vita che inseguono le tradizioni piuttosto che lasciarsi guidare dall’ascolto che nutre la fede?

Luigi Sonnenfeld


 

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