Davanti ai giudici (1)


 

L’impegno di Bruno sui licenziamenti è stato anche un impegno per una giustizia migliore. Dinanzi ai soprusi ed alle ingiustizie Bruno ha sempre praticato con metodo il ricorso al giudice. Non credeva nella magistratura e non si faceva illusioni sulla “giustizia di uno stato borghese”, come spesso diceva. Ma non credeva nemmeno che la rivoluzione si facesse con l’assalto al Palazzo d’Inverno. Credeva piuttosto nella quotidiana rivoluzione permanente che mobilita la coscienza di ciascuno, che rende consapevoli e forti, che suscita la solidarietà di altri sfruttati. E in questo senso, il ricorso al giudice diventava occasione di mobilitazione e d’impegno sui temi fondamentali della convivenza civile. Nello stesso tempo Bruno, che non credeva nei giudici, li provocava: chiedeva loro sentenze e pronunzie a misura degli oppressi e non dei potenti. Quando fummo processati per vilipendio della magistratura, ai giudici popolari e togati che in Assise ascoltavano in silenzio, fece un elenco lunghissimo e spietato di sentenze e orientamenti giurisprudenziali tutti favorevoli ai padroni. E quando il pubblico ministero osservò risentito che la sentenza che decideva sul suo licenziamento aveva dato torto al padrone, Bruno replicò: è vero, ho già riconosciuto che questa è una sentenza giusta, ma voi giudici non potete cavarvela con una sentenza che è un’eccezione in un panorama di sentenze che mantengono intatto lo strapotere dei padroni.

Linguaggio senza incertezze e senza alcuna concessione, come si vede. Eppure, anche nei momenti di maggior durezza Bruno era capace di richiamarci ai valori più alti, tralasciando qualsiasi accenno polemico. E, infatti, al termine della sua difesa, rivolto direttamente ai giudici dice:

“E anche voi siete obbligati a scegliere tra il potere e il popolo. O scegliete il potere che permette ai padroni di disporre della vita di altri uomini, di sfruttarli, di affamarli, di licenziarli: la manifestazione più propria e il simbolo della potenza distruttrice del capitalismo che opprime in Italia, tortura in Brasile, distrugge i popoli in Asia, fa morire milioni di uomini in tutto il mondo. Oppure scegliete a favore della richiesta e della lotta per un nuovo potere che sale dai luoghi stessi dove avviene lo scontro: la fabbrica, il carcere, i campi, le scuole; l’unico potere che potrà farvi nuovamente sentire la nobiltà di essere giudici, cioè garanzia degli oppressi”.

In questo passo ritroviamo un altro tratto profondo di Bruno: nel momento in cui violentemente critica i giudici prospetta loro un’occasione di riscatto e ne indica la strada. È la strada della speranza che Bruno teneva viva soprattutto quando diventava per gli altri segno di contraddizione e di divisione. Bruno non ha mai perso la speranza in un mondo migliore.

 

Beniamino Deidda


 

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