Sguardi dalla stiva


 
Quanto è avvenuto a Rosarno non solo era prevedibile, ma lo troviamo anticipato in un libro di Marco Rovelli, giornalista e scrittore: “Servi. il paese sommerso dei clandestini al lavoro” pubblicato nel settembre dello scorso anno.
Il terzo capitolo è dedicato proprio a Rosarno e ha per titolo “Caccia al nero” (pagg. 28-38). La caccia era già cominciata molto tempo prima: “Lo sport più praticato dai giovani di Rosarno è la caccia al nero. Dove “nero” non designa un subsahariano, ma indica indistintamente — senza discriminazione — un africano: di pelle scura o chiara è lo stesso” (pag. 30). Certo c’era anche il volontariato che li aiutava, ma in una situazione generale di illegalità, di assenza dello stato di diritto, di sfruttamento sistematico del lavoro, oltre alle condizioni di vita subumane a cui erano condannati. Era come una pentola a pressione priva della valvola di sicurezza che da un momento all’altro poteva esplodere. L’ennesima caccia al nero l’ha fatta saltare.
Ci informa anche che era la ‘ndrangheta a dettare ai produttori della zona la paga dei migranti: non più di 25 euro per 12 ore di lavoro. Ma non tutti finivano nelle loro tasche: ci sono i caporali che vantano i loro diritti come pure i conducenti dei furgoni che li portano al lavoro. Non rubano il posto a nessuno perché nessun giovane di Rosarno andrebbe a raccogliere mandarini con la paga da neri.
Viene da chiedersi: perché mai il ministro degli interni, sicuramente a conoscenza di questi, e altri, luoghi dove si concentrano i clandestini non abbia dato attuazione alla legge da lui ferocemente voluta, che prevede la loro espulsione, in presenza del reato di clandestinità. Non c’era bisogno di andarli a cercare: di giorno lavoravano negli agrumeti e di notte si ritiravano in ripari fatiscenti e abbandonati e a tutti ben noti.
Vi è un’unica risposta. I clandestini sono carne da lavoro a bassissimo prezzo. Quando c’è bisogno di loro si usano, quando non servono più si buttano. Solo ora gli irregolari dì Rosarno, diventati ormai troppo ingombranti, vengono cacciati dal Ministro Maroni (salvo quelli che sono stati impallinati dagli italiani). Non prima, quando era prevalente la loro funzione economica.
D’altronde essi non possono rivendicare alcun diritto, perché non sono nessuno, non hanno cittadinanza. La loro stessa persona è il “corpo del reato”, ovunque si trovi. In qualunque causa o contenzioso essi sono sempre dalla parte del torto, appunto perché clandestini. Pende sul loro capo la perenne minaccia di espulsione. La paura è la loro compagna inseparabile.
Però sono loro — i clandestini — che permettono di affrontare la concorrenza imposta dalla globalizzazione. “Noi vendiamo i pomodori all’industria di trasformazione dai quattro ai sei centesimi al chilo. È una miseria. I pomodori oggi arrivano dalla Cina e Turchia a prezzi stracciati. Noi come dobbiamo fare?” (Ibidem 15).
La clandestinità è la nuova schiavitù. E le leggi sull’immigrazione servono a produrre clandestini. Una carne sempre sfruttabile al sud come al nord. Sì, anche al nord vi sono cantieri pieni di lavoro nero. Nonostante il quotidiano “Libero” dopo l’esplosione di Rosarno abbia titolato in prima pagina “Mandiamoli a quel paese”, dando ragione ai “cacciatori del nero”, rimane il fatto oggettivo che settori importanti dell’economia italiana, legale e criminale, non vogliono assolutamente, o non possono, rinunciare ai vantaggi ed alla ricchezza assicurati dalle braccia che i nuovi schiavi sono costretti a vendere.
Uno degli slogan che i migranti gridavano alla manifestazione di Rosarno era: “Noi non siamo animali”. È l’urlo che emerge da una coscienza di dignità che, pur oppressa con lo sfruttamento del lavoro e l’atmosfera alimentata dalla subcultura razzista, si appella alla comune umanità.
Negare agli altri il diritto di essere uomini significa condannarsi alla disumanità. È quanto sta avvenendo in Italia.
 

Roberto Fiorini


 

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