Il vangelo nel tempo
Da giovane prete inserito subito in ambienti cosidetti “scristianizzati” mi sono dovuto preoccupare più di “essere” e “vivere” che di “predicare” o “celebrare”. Ho avuto poi la fortuna di lavorare con don Vivarelli, allievo e amico di don Mazzolari e quindi arricchirmi leggendo i suoi scritti.
Un po’ come don Mazzolari,
“ senza accorgermi e quasi senza volerlo, sono andato oltre le definizioni di scuola. Ho per esse, tuttora, un ossequio reverenziale: un tempo, sia pure con poco gusto, le imparavo anche a memoria. Ma appena posso farne a meno, allora come adesso mi si dilata il cuore, come quando torno a casa dopo una corsa obbligata in città. Qui, nei campi, c’è respiro per tutti, e tutto è vasto, a cominciare dal cielo. Ecco perché, senza chiudere il trattato De Fide, tengo volentieri aperto il Vangelo. Anche i più sapienti trattati nulla aggiungono alla Rivelazione, la quale, nella persona adorabile di Cristo Figlio di Dio, è piena, fresca e sempre attuale.
Del resto, le stesse definizioni teologiche, quando sono capite veramente bene, introducono al Vangelo, di cui sono riassunto e ampliamento sul piano logico.
‘La Fede è il libero assenso della ragione e della volontà, sotto l’azione della grazia di Dio, alle verità che Dio ha rivelato’. In questa definizione, tutto è ugualmente necessario. Se non è Dio che rivela, se non è Dio che con un movimento interiore della sua grazia ci porta a credere, se l’assenso non è libero, se non è insieme atto d’intelligenza e di volontà: se una sola di queste condizioni viene a mancare, non abbiamo più la Fede.” (Primo Mazzolari, Della Fede, ed. La Locusta)
Nello stesso volumetto scrive: “La Fede non è un atto parziale, ma una vita che investe tutto l’uomo; una ‘nuova nascita’ che fa nuova ogni cosa nostra”. Uomo di fede, uomo divino. “Uomo divino è colui che, dall’intimo commercio col mondo superiore della verità sussistente, trae la norma costante della vita, la regola assoluta dei giudizi sulle azioni e sugli avvenimenti umani” . È una ricerca continua, un itinerario:
“non è più quindi un itinerario della mente, né un itinerario del cuore, ma un itinerario di tutto l’uomo, un vero itinerario umano … Fermarsi non si può. ‘Se resto qui muoio di fame’, dice il Prodigo … Nessun uomo, nemmeno il più illuminato e purificato dalla Fede, può sentirsi un arrivato. ‘Credo, Signore, ma tu aiuta la mia incredulità…’”
Sono ritornato su queste riflessioni anche nella meditazione sulle letture della festa dei Magi.
Il loro punto di partenza è “l’oriente”, parola magica che evoca la luce del mattino, la freschezza degli inizi, la promessa della vita. È la patria di coloro che si aprono alla ricerca, alla speranza, al sogno. E la Bibbia esalta la condizione di coloro che sono in cammino, che si “orientano” verso il regno della luce perché Dio sta dalla parte di coloro che camminano. In contrapposizione con Gerusalemme, la città di coloro che non cercano, per i quali la fede è diventata una professione (mestiere). E il fatto dello scrutare la stella e di vederla brillare anche nello sguardo limpido di un bambino mi fa pensare che tutto nella natura ha una voce; se solo avessimo la pazienza del silenzio e dell’ascolto. Anche Maria nel Vangelo è spesso in viaggio: città di Giuda, Betlemme, Egitto, Nazareth, Gerusalemme.
Credere quindi è “cammino” verso un futuro che non va inteso solo come “credere” che ci sarà un futuro. È un futuro sì ma che illumina l’attendere e propone atteggiamenti e impegni che conferiscono significato e rendono umano e umanizzante il vivere/attendere: “attesa” del pieno compimento della promessa, dell’avvento definitivo della seconda venuta del Signore. Secondo la pagina del capitolo 25 di Matteo che riguarda il giudizio finale, il modo autentico dell’essere in cammino “attenti” al Signore invisibile viene individuato nelle molte attenzioni al prossimo visibile e nell’”attendere” alla risposte, ai bisogni e sofferenze di quest’ultimo. E allora “credere” lo sento come l’immergermi nel presente per affrettare la venuta del Regno, sapendo che “cieli nuovi” e “terre nuove” sono anche l’esito del mio lavoro storico. È vero che l’escatologia cristiana postula l’esistenza di un futuro assoluto – il futuro di Dio – ma un futuro che anziché essere visto in radicale alternativa al presente è in rapporto dialettico con la mia esperienza storica; infatti il regno è già nella storia anche se non pienamente realizzato. Ma nello stesso tempo, la consapevolezza che non tutto si esaurisce quaggiù conferisce a tale lavoro quel senso di leggerezza che fa evitare tentazioni di fretta o addirittura totalitarie.
È certamente non priva di momenti difficili questa tensione tra impegno e attesa. San Paolo esprime la fiducia che lo sostiene in mezzo ai disagi e pericoli della sua attività ed esorta i Tessalonicesi a vivere in maniera degna di quel Dio “che vi chiama al suo regno e alla sua gloria” (1 Tess. 2,12). È irrilevante essere vivi o morti al momento della sua venuta perché in ogni caso tutti saranno associati alla condizione gloriosa di Gesù. Quello che conta è vivere in modo coerente con questa prospettiva di fede (1 Tess. 4,13). La coscienza della svolta storica segnata dalla resurrezione di Gesù, non sottrae all’impegno fiducioso e responsabile ma libera dall’idolatria delle realtà effimere e dall’assolutizzare uno stato di vita rispetto a un altro (1Cor. 12). Ciò che conta è la relazione con il Signore da viversi in ogni condizione di vita.
Anche la lettera agli Ebrei sostiene che la fede non è un’adesione a formule ma consiste nell’essere resi parte di una storia e di una attesa. Infatti nella lettera vengono citate tutte le figure bibliche da Abele, Noè, Abramo fino a giungere all’epoca dei profeti e dei Maccabei: tutti costoro vissero e agirono per fede. Per fede Abramo andò verso un paese ignoto soggiornando sotto le tende come straniero e si comportò così perché aspettava la città dalle salde fondamenta, il cui architetto e costruttore è Dio stesso” (Ebrei 11, 10).
Quindi un orientarsi verso un “altro da sé” e non verso una risposta già stabilita da me. Il futuro potrà anche essere diverso da quello in cui credo e per cui vivo. La fede è attesa ma l’aspettare non produce autonomamente la propria soddisfazione. Si può persino arrivare alla delusione. Una delle pagine più ardite del primo testamento “il canto della vigna” contenuto nel libro di Isaia parla di Dio il quale sperava che, dopo aver predisposto e ben custodito il terreno, la vigna producesse uva. Anche per il Signore aver fede e attendere significa consegnare l’oggetto della propria speranza alla libera risposta di “altri” che si possono comportare ben diversamente dalla maniera sperata.
E la dura esperienza della delusione patita, nella Bibbia, è patita, oltre che da Dio, anche dal popolo: “Rinsecchite sono le nostre ossa, la nostra speranza è perduta; noi siamo periti” (Ezechiele 3, 7-11). … Penso ai tanti momenti di sfiducia, alla tentazione di mollare perché tanto non si vede non dico il risultato ma neanche un qualche miglioramento…
Il futuro verso cui si cammina per fede non si riferisce al “mio” bisogno di salvezza ma si radica nella promessa di Dio a cui non si voltano le spalle anche quando essa sembra non adempiersi. È esprimere la propria fiducia nel Dio che “cela il proprio volto”. “Signore, non resisto più. Fa’ presto, rispondimi, non rimanere nascosto; senza di te la mia vita si spegne” (Salmo 143, 7).
Fede è completa affidabilità alla parola di Dio; prendersi cura della “sua” parola, non di se stessi.
Scrive la Simone Weil nel saggio intitolato Riflessioni sull’utilità degli studi scolastici al fine dell’amore di Dio : «Il pensiero deve essere vuoto, in attesa; non deve cercare nulla ma essere pronto a ricevere nella sua nuda verità l’oggetto che sta per penetrarvi… è soltanto Dio che discende ad afferrare l’anima e ad elevarla, ma soltanto il desiderio costringe Dio a discendere. Egli viene soltanto per quelli che gli chiedono di venire; a quelli che glielo chiedono spesso, a lungo, ardentemente, egli non può rifiutarsi».
Vorrei ritornare ancora sulla “storicità” del futuro. È un “oltre” o un “altro” che è oltre il presente ma che entra nella storia presente.
Quando abbiamo fatto degli incontri nel 1994 su “teologia della dislocazione” comunicavo questa riflessione “Fare teologia diventa credere in un Dio che passa ed entra nella storia attraverso la mia libertà, una libertà chiamata a farsi “buona”, a diventare responsabile nei confronti di Dio con il quale sono chiamato a costruire un mondo felice e ordinato come dono per l’uomo. Se il disegno di Dio che è la felicità dell’uomo entra nella storia solo attraverso la responsabilità di ciascuno di noi, Dio non abita la casa del “futuro” nel senso dell’al di là ma la casa della mia esistenza, per quanto povera o dislocata essa sia. Il mio “quotidiano” è l’unica porta alla quale Dio bussa per chiamarmi e affidarmi la felicità del fratello. Ma un “quotidiano” nel quale c’è l’appello di Dio non è più quotidiano essendo illuminato dall’”eterno” (dal futuro).
Mi avvio alla conclusione con l’aiuto di un altro maestro.
Ho trovato di estrema attualità per raccontare del mio vivere la fede queste riflessioni (del 1972) di Turoldo ripubblicate sull’ultimo numero di Servitium a dieci anni dalla sua morte dal titolo “dramma all’interno del credente”.
Padre Davide soffriva nel constatare come mentre da una parte c’era stato un Concilio dall’altra abbiamo avuto un’opera di restaurazione postconciliare e quindi l’ostacolo per le comunità creato dal permanere delle vecchie strutture: da ciò il verificarsi di un dramma che si combatte non solo all’interno della chiesa ma prima ancora all’interno dello stesso individuo, dello stesso credente… Andare? Restare? Andare, dove e con chi? Fede e vita, in che rapporto si trovano? La chiesa, in questo senso, deve sparire dai nostri discorsi, e dobbiamo trovare il senso della nostra esistenza non nella fedeltà o nel servizio alla chiesa, ma nell’appartenenza irrinunciabile al mondo – al mondo uscito dalle mani di Dio – e nelle fedeltà al regno che continuamente ci sottopone alla sua crisi. Una piena solidarietà col mondo, una piena partecipazione alla sua cultura, alla sua speranza, alla sua tensione verso il futuro; e insieme un atteggiamento critico, di contestazione al mondo di ciò in cui più crede, la sua filosofia e la sua etica, la sua capacità di progettare il proprio futuro.