“Dicevano che era un prete” / Atti del convegno (2) 


 

Descriverei il tracciato della mia esperienza con Carlo attraverso fasi diverse.

Una prima fase è caratterizzata dal fatto che non lo conoscevo ancora personalmente. Ero giovane vice-curato in provincia, senza alcun contatto con gli ambienti che sarebbero poi diventati anche i miei in anni successivi, ma con attenzione alla Chiesa conciliare che ci stava a cuore con passione. Ero quindi non solo incuriosito, ma affascinato dalle posizioni e dal ruolo di Carlo nella Chiesa torinese. Gli stimoli per una Chiesa in missione, la forza liberatoria delle tre piste della lettera pastorale Camminare insieme, la testimonianza di libertà di cappellano di fabbrica che sa schierarsi, l’espulsione conseguente dalla fabbrica e il ritornarci non più come cappellano ma come operaio. Per me, giovane prete, ancora alla ricerca di come vivere il Concilio vaticano II e un po’ in crisi per l’impatto con quello che chiamavo il “cristianesimo reale”, granitico e all’apparenza refrattario alla ventata conciliare, quegli stimoli che venivano da Torino erano boccate di fiducia. Dal mio isolamento provinciale guardavo queste ventate conciliari torinesi come segni ecclesiali stimolanti, con uno sguardo esterno, senza ancora contatti o coinvolgimenti diretti. Successivamente definii Carlo, Toni Revelli e quanti hanno vissuto quella stagione come quelli che ci hanno aperto strade, ci hanno reso possibili anche successivi nostri cammini: stima e riconoscimento per un ruolo ancora solo interno di rinnovamento ecclesiale. Questa fu la mia percezione in questa fase.

Una volta in fabbrica entrai subito nel gruppo dei preti operai, uscendo dal mio isolamento, e fu un arricchimento inatteso. Ci trovavamo il sabato con regolarità; ci scambiavamo le esperienze molto liberamente; era un travaso di sensibilità e di diversi cammini, cosa che nel clero difficilmente avviene. Portavamo la revisione di vita sia su tematiche personali, sia su situazioni ecclesiali o analisi di conflitti sindacali. Cosa quest’ultima, per me (uno degli ultimi arrivati senza alcuna esperienza in questi campi) determinante per il mio inserimento graduale.

Scoprivo man mano di essere inserito in una lunga storia, quella del movimento operaio, particolarmente di quello torinese; entravo in contatto con l’altra storia dei cristiani torinesi che la Chiesa torinese non mi aveva per nulla trasmesso. Nella Chiesa torinese si cresce con una specie di orgoglio ecclesiale trasmesso sulla memoria dei “santi sociali”, ma mai accenni all’altra storia anch’essa cristiana. Entrare in contatto con grandi figure di cristiani militanti sindacali, le loro storie, il loro isolamento ecclesiale, le loro testimonianze diventava per me esplorare una storia della quale cominciavo a sentire di fare parte.

E’ in questo cammino che Carlo assumeva ai miei occhi una nuova dimensione. Scoprivo in lui una ristretta fascia di uomini di Chiesa che viveva il “salto del fosso” (come dicevamo a volte), riconoscendo la portata del movimento operaio nelle sue diversificate componenti; passando dalla diffidenza se non dalla contrapposizione alla condivisione. La cosa che più trovavo interessante in questa fase era il fatto che uomini di Chiesa riconoscessero nelle fabbriche e nel movimento operaio tanti cristiani arrivati molto prima di noi e che avevano vissuto militanze dure, molte volte nella diffidenza delle loro comunità ecclesiali. In una recente assemblea, sentendo un prete operaio parlare della nostra esperienza in toni che ritenevo ancora eccessivamente trionfali, mi rivolsi a un vecchio militante esprimendo il mio disagio per questi accenti: «Non siamo noi ad avere aperto strade nelle fabbriche. Voi molto prima di noi». Mi rispose:

«Sì, certo, però il vostro arrivo è stato per noi un segno importante. Finalmente con noi c’erano uomini di Chiesa e questo dopo tanti anni di isolamento ha voluto dire molto per noi».

Negli anni dalla condivisione e dal confronto siamo passati a posizioni anche molto differenziate non senza qualche tensione tra noi, sia in campo sindacale (nella Fim Cisl torinese differenziazioni e anche scontri erano apertissimi), sia sul modello di prete operaio. Carlo ha vissuto coerentemente fino alla fine un modello francese tipico, che non prevedeva inserimenti in strutture ecclesiali. La maggioranza del gruppo invece sceglieva presenze parrocchiali e inserimenti nel cristianesimo popolare come pure nella pastorale del lavoro della diocesi di Torino. Credo ne abbia sofferto, ma tra noi le scelte personali si sono differenziate liberamente, senza posizioni subalterne o sudditanze psicologiche.

È il destino dei padri che trasmettono grandi utopie aprendo strade; se poi i figli non ripetono semplicemente quei passi, non diminuisce per nulla la grandezza di quella trasmissione.

Silvio Caretto


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