Quale Chiesa / verso il convegno 2015
Se ripenso alla mia vita, scorgo la presenza costante della dimensione ecclesiale della fede. Molto diverse le espressioni e le forme incontrate: ogni realtà ecclesiale ha la sua storia. E io ho avuto anche la fortuna di vivere forme di chiesa differenti dal punto di vista confessionale, e di farlo in un’epoca segnata dalla sfida ecumenica. Nonostante che il mio tendenziale individualismo e la lettura critica di certe dinamiche perverse presenti nella realtà ecclesiale mi spingerebbero a battere la strada di una fede vissuta in solitudine, l’esperienza di far parte della chiesa non è mai venuta meno. Ci sto dentro criticamente; ed anche il cambio confessionale non è stato dettato da giudizi manichei: i problemi sono trasversali a tutte le chiese!
Perché questa presenza costante, pur nei profondi mutamenti del mio vissuto, nonostante l’aver visto povertà, incoerenze e persino scandali? Perché intuisco che la chiesa offre un’ermeneutica del vangelo. Mi spiego. La comprensione di quella Parola che ci raggiunge e ci chiama, che apre orizzonti inediti e promettenti, domanda un ascolto che si avvale di una pluralità di strumenti di comprensione. Non c’è solo la classica esegesi, impegnata a trarre fuori dal testo il suo senso profondo, ricorrendo a diversi metodi di lettura. E’ esegesi anche la spiritualità, la liturgia, l’azione sul territorio, la teologia, l’arte, la musica, l’architettura dei locali di culto ecc. Certo, sia l’esegesi in senso stretto che le sue molteplici espressioni sono sempre a rischio di fraintendimento della Parola. Ma qui mi interessa dire che questa pluralità di percorsi offrono solo la cassetta per gli attrezzi utili per operare quella comprensione dell’evangelo che è la chiesa. E’ quest’ultima ad offrire un’idea di vangelo che prende forma in un tempo e in un territorio particolare. Perché la questione della comprensione della Parola non è libresca ma storica, esistenziale. Il vangelo vuole dare forma alla vita.
Dietro queste considerazioni ci sta l’idea di una chiesa come “gruppo di ascolto”. Raggiunti da una Paola altra, che chiama (ec-clesia), i discepoli e le discepole di Gesù provano a discernere per il proprio tempo, in un particolare territorio, cosa comporti quel lievito per la pasta della storia. Un discernimento complesso, che nasce da uno sguardo sulla realtà intensificato dalla Parola. Un discernimento che non si riduce a distaccata analisi della situazione: perché la Parola interpella ed esige che si parta da sé. Che sia la chiesa stessa a vivere il vangelo. Che non si limiti ad annunciare il sogno di Dio ma inizi lei a porsi come “comunità alternativa”. Differente non perché settaria e distaccata ma in quanto segno di un’altra forma della storia, di quel mondo come Dio lo vuole che è il Regno annunciato da Gesù e che nella sua vita ha preso forma. Poi ogni chiesa storica esprime questo col proprio linguaggio interno: la chiesa come parabola, sacramento, luce ecc. Ed i discorsi differenziati individuano diversamente il soggetto ecclesiale, più o meno strutturato, più o meno visibile. Ma la grammatica è la medesima e la sfida è a questo livello: se la chiesa non vive il vangelo, quest’ultimo non risuona nella storia. Come per l’elezione del popolo d’Israele, dove Dio non sceglie qualcuno “al posto di” qualcun altro ma “in vista” di tutti: affinché diventi visibile nella storia il progetto divino; così per la chiesa.
Fin qui le ragioni dell’importanza dell’esperienza ecclesiale per dei discepoli di Gesù. Fin qui la narrazione di Atti, quando nei primi capitoli parla di un modello di chiesa, paradigmatico per tutte le espressioni successive: “unanimi nell’ascolto della Parola, nella comunione fraterna, nel gesto dello spezzare il pane e nella preghiera… avendo un cuor solo ed un’anima sola… mettevano tutto in comune… e non c’era alcun bisognoso in mezzo a loro”. Ma questo scenario ideale viene subito dopo messo in crisi con l’entrata in scena di Anania e Saffira. In quell’episodio Luca, dopo aver delineato l’ideale comunitario, narra del peccato originale della chiesa. I richiami a Genesi 3 sono forti: anche qui una coppia, Satana che riempie il cuore, l’interrogazione posta separatamente ai due, l’espulsione dal luogo comunitario. Come all’inizio della storia della salvezza il sogno di Dio viene visto con sospetto e rigettato, così all’inizio della storia della chiesa il mandato di essere testimoni della resurrezione nel mondo, divenendo operatori che promuovono la “resurrezione dei vivi”, viene messo in discussione in nome di un principio di realismo: pur recitando la parte di quelli che vendono tutto e depongono il ricavato perché venga redistribuito secondo il bisogno di ciascuno, il cuore di Anania e Saffira è riempito da altre preoccupazioni che li spingono a tutelarsi, a pensare a se stessi. L’ipocrisia denunciata con forza da Gesù nei confronti dei pii ebrei, si riproduce anche nella chiesa dei suoi discepoli. Ironia del narratore: proprio a questo punto, per la prima volta nel racconto di Atti, fa la sua comparsa la parola “chiesa” (5,11).
Quel luogo deputato ad essere ermeneutica del vangelo si ritrova ad esprimerne il fraintendimento e la simulazione ipocrita.
Siamo sale a cui perlopiù manca il sapore; siamo luce nascosta da secchi di tradimenti: è da questa consapevolezza auto-ironica che sorgono i tentativi di riforma, ovvero di recupero di quella forma evangelica che smarriamo. La comunità di ascolto dei discepoli di Gesù è chiamata a discernere non solo quale evangelo per questo tempo ma, insieme, anche quali tradimenti corriamo il rischio di compiere nel tentativo di dare forma al progetto divino. Un discernimento che riguarda la nostra chiesa, non quella altrui: almeno questo, l’ecumenismo dovrebbe avercelo insegnato. Dalla riproposizione dogmatica e dalla polemica confessionale al discernimento autocritico, consapevole di esprimere una delle molte possibili ermeneutiche del vangelo e di non potersi mai sottrarre al rischio del fraintendimento.
Quello che è stato il Vaticano II per la chiesa cattolica ha valore più di paradigma di uno stile e di una prassi sinodale che non di evento concluso in sé.
Detto questo, la riflessione è ancora alle premesse. Cui segue il compito di rispondere alla domanda: quale ermeneutica del vangelo propone la tua chiesa per questo tempo?
Solo una suggestione, nata dal comune ascolto della Parola. Nel nostro contesto post-moderno, respiriamo un’aria decostruttiva, dove le grandi parole della modernità sembrano evaporate e dove prevale lo smarrimento. In questo quadro, possiamo però cogliere “il dono dell’incertezza”, ovvero lo stimolo a ricominciare dall’inizio. Ammettendo di non sapere più bene cosa significhi seguire Gesù e provando a fare di nuovo i conti con la parola evangelica. La chiesa che prova a fare i conti con questo spirito del tempo assume la forma proposta da Marco, il racconto evangelico squisitamente decostruttivo. Quel vangelo, trattato da cenerentola praticamente fino al presente, risuona ora come bussola preziosa per ripensare il cristianesimo oggi.
Fisionomia del gruppo dei discepoli secondo Marco
Lungo tutto il racconto di Marco, il gruppo dei discepoli costituisce una presenza decisiva. Essi sono chiamati da Gesù a stare con lui e a compiere i suoi stessi gesti di liberazione dal male; vengono messi a parte del mistero del Regno di Dio; sono istruiti a lungo sul progetto divino che prende forma nella vicenda di Gesù.
Ma, una volta presentati come distinti dagli altri personaggi della storia, Marco decostruisce ogni loro presunta superiorità, narrando della loro incomprensione e incredulità, dell’inadeguatezza e dell’abbandono, fino alla fine, quando le luci si spengono su una scena di silenzio mortale, da cui, ancora una volta, i discepoli fuggono, in preda alla paura. Unica speranza: ritornare in Galilea per ricominciare daccapo, cercando di capire meglio, ma sapendo già che la ripresa sarà senza fine, di inizio in inizio.
Quale figura di comunità di lettori impliciti emerge da un racconto del genere?
Alcuni tratti possono evocare il profilo della chiesa marciana.
E’ una chiesa che non sa, che non presume di sapere. Neppure a riguardo del proprio maestro: sono i demoni a conoscerne l’identità (1,24; 3,11; 5,7). Per i discepoli, dall’inizio alla fine, Gesù rimane un enigma. Il senso delle sue parole e delle sue azioni resta misterioso. Quando credono di aver compreso, sono provocati a rimettere in discussione, a riesaminare tutto. Anche il silenzio, che Gesù intima a proposito della sua identità agli spiriti immondi, a quelli che guarisce ed ai discepoli (8,30; 9,9) gioca questa precisa funzione di ispessire il mistero e di rilanciarne la ricerca.
E’ una chiesa impossibilitata a fornire un’immagine definitiva di sé e, dunque, incapace di assumere una stabilità istituzionale. Nel racconto di Marco non si parla di doni o di ministeri, non c’è la preoccupazione di dotarsi di un minimo di struttura, non emerge una gerarchia di ruoli.
Il lettore collettivo implicato nel racconto del secondo vangelo, quello che Marco intende promuovere, non raggiunge certezze da difendere: conosce troppo bene i propri limiti, l’inadeguatezza costitutiva che non potrà mai venir meno. La fede è vissuta come esperienza di “vuoto”, non come entusiastica pienezza. L’incontro col Dio di Gesù avviene nella crisi, nello scacco. Semmai qualche fervore possa far capolino, il suo fuoco viene subito rintuzzato da quel Dio che mette alla prova e corregge quelli che ama. Come in quell’episodio di sequela mancata, quando Gesù incontra un tale che desiderava la vita eterna, a cui dice: «Una cosa ti manca! Va’, vendi tutto ciò che hai e dallo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi». Ma egli, rattristato da quella parola, se ne andò dolente, perché aveva molti beni (10,21-22). Occorre prima svuotarsi dei propri beni e poi provare a seguirlo.
Nessuna autogiustificazione viene rincorsa: la salvezza è affidata alla grazia di un Dio che invita a non disperare, a rialzarsi e riprendere il cammino, dopo le inevitabili cadute.
Il gruppo di ascoltatori proposto da Marco non si affida a progetti di crescita, a propositi volontaristici da perseguire. La domanda non riguarda il che cosa possiamo fare, gli obbiettivi che si vogliono perseguire, bensì il che cosa Dio ci chiede, a fronte delle nostre comprovate debolezze.
La comunità di Marco intuisce che deve svuotarsi per fare spazio a Dio. Dall’inizio alla fine è guidata unicamente da quella voce celeste che indica Gesù e suggerisce: ascoltatelo.
In questo orizzonte, la lettura comunitaria delle Scritture diventa un esigente laboratorio di ascolto, nel quale ai lettori viene chiesto di lavorare a lungo il proprio terreno, dissodandolo dei tanti impedimenti che non consentono al seme della Parola di sbocciare.
La chiesa è un gruppo di ascolto dove il leggere insieme le Scritture non si riduce all’operazione di accostare le diverse interpretazioni del testo biblico, di cui ogni lettore è portatore secondo la sua specifica sensibilità. Compiacendosi, alla fine, della pluralità di voci emerse, delle cose nuove apprese per bocca di altri, della ricchezza di intuizioni condivise.
Marco si diverte a frantumare ogni soddisfazione spirituale, a scompigliare quei nidi caldi nei quali i credenti stanno bene. Chiese dettate dal Super-io religioso che abita anche nei cuori dei discepoli, giustificate dal successo ottenuto, dal clima positivo instaurato.
Leggere insieme le Scritture è esperienza spiazzante, perché ci si pone in ascolto di una Parola “altra” rispetto al pensiero umano.
Occorre confessare di non capirla, nonostante si appartenga ad una chiesa da una vita e si sia additati come credenti doc.
Bisogna ammettere che siamo abitati continuamente dalla tentazione di fuggirla, dal momento che ci terrorizza, mentre vi cerchiamo consolazione.
L’atto di lettura per Marco diviene una dolorosa scuola di verità su noi stessi, sui nostri desideri ed illusioni, sulle resistenze che opponiamo all’ascolto dell’altro. Bisogna avere il coraggio di lasciar emergere quello che siamo, al di là dell’immagine pubblica che cerchiamo di veicolare. E’ la “grazia della realtà” che occorre assaporare per poter assolvere al compito di ascoltarlo.
Ogni atto di lettura è preceduto. Entriamo nel mondo del racconto carichi dei nostri pre-giudizi. E’ inevitabile che sia così. Tutto quello che possiamo fare è farli emergere, diventarne consapevoli, di modo tale che i pre-giudizi inconsapevoli diventino pre-comprensioni coscienti. Normalmente, pensiamo che si tratti di un’operazione preliminare all’atto di lettura, qualcosa che ha a che fare con la sanità psichica e l’onestà intellettuale. Marco ci dice che è l’esperienza stessa dell’incontro con la parola dell’altro a far emergere la storia aggrovigliata dell’umanità di chi legge.
Per questo, la chiesa di Marco si configura come laboratorio di ascolto non solo della Parola ma anche delle nostre resistenze e fallimenti; come luogo in cui esercitare quel “lavoro del cuore” che mira a smontare ogni presunzione per fare spazio alla Parola divina. La quale continua a domandarci: Non riflettete e non capite ancora? Avete il cuore indurito? Avete occhi e non vedete, avete orecchi e non udite? E non vi ricordate? (8,17-18).
C’è una sapienza spirituale che abita il mondo di Marco, che non potrà essere trascurata, pena l’impossibilità dell’ascolto. Una sapienza che domanda silenzio, più che parole, per ascoltarsi ed ascoltare.
Leggere insieme le Scritture non ha la forma accademica di un seminario tematico, dove più persone affrontano e approfondiscono una questione. E’ piuttosto un’esperienza di ascolto, fuori controllo, in cui si tenta di prepararsi e di conformarsi all’ “Evento della parola di Dio” (K. Barth), facendo di tutto per non neutralizzarne la portata. Nella consapevolezza di non essere mai all’altezza del compito, sperimentando nel vivo i propri fraintendimenti e resistenze.
Ma la strategia narrativa di Marco non è solo segnata dallo scacco, da guardare in faccia. Al fallimento, essa invita a far seguire la ripresa.
Per questo, il gruppo di ascolto marciano sa che deve continuamente riaccendere l’ascolto della Parola; che la vera lettura è la rilettura. La sapienza della ripresa, suggerita dal racconto, indica la via di una lettura ripetuta, intensiva più che estensiva.
La pluralità dei lettori non esaurisce la ricchezza del testo. L’altro, più che riempire con la sua interpretazione il deposito delle mie conoscenze, mette in discussione quanto da me raggiunto, ingiungendomi di riprendere daccapo la lettura. La comunità di ascolto, dunque, diviene scuola di cautela reciproca rispetto ad ogni lettura conclusiva che si affaccia come tale nel cuore del singolo. La molteplicità dei punti di vista con cui si legge il testo non riveste una funzione enciclopedica, moltiplicatrice del sapere, bensì è anticorpo all’assolutizzazione del mio punto di vista, è invito a riprendere in altro modo il filo del racconto.
Per lo stesso motivo il gruppo di lettura dipinto da Marco non cede al settarismo: non riduce l’ascolto solo a “quelli che ci seguono” (9,38). Anzi, l’orizzonte del confronto è ampio quanto l’umanità. Chi, infatti, ha sperimentato la fragilità della propria condizione, non può non sentirsi solidale con ogni essere umano, in dialogo con ogni tentativo di penetrare il mistero della condizione umana. L’umiltà, intesa come quell’aderenza all’humus di chi si ritrova a terra e muove i propri passi con impaccio, senza presumere di volare alto, caratterizza radicalmente il gruppo di ascolto ecclesiale. E si traduce nello stile dialogico del cercare insieme, aiutandosi a rimettersi in piedi, dopo ogni caduta, per cercare insieme quella luce che la cecità ci impedisce di scorgere. Sapendo anche che il cammino è fatto di piccoli passi, di acquisizioni parziali; e che solo l’intervento di Gesù può farlo progredire (8,23-25).
Da questi tratti emerge l’immagine di una chiesa come “laboratorio creativo”. Non c’è un “già dato” da difendere, una forma acquisita definitivamente. Quanti cercano Gesù ed il suo Regno sentono vivo quel “non ancora” che li spinge a ridiscutere continuamente la comprensione fin lì raggiunta del mistero del Regno di Dio.
Ma invece di interpretare tutto ciò come fallimento ed impossibilità di essere parte e segno di quel Regno inafferrabile, i discepoli sono sollecitati verso una sempre nuova creatività. Marco, infatti, li pone di nuovo all’ “inizio” (1,1), nella postura del Creatore (Gen. 1), sospinti dalla passione del tentativo; tenacemente intenti a riprendere in mano quella vita – individuale ed ecclesiale – che domanda di ricevere forma, nella mai conclusa dialettica della deformazione umana e della riforma divina.
Senza avere tra le mani le carte di un progetto architettonico definitivo, da eseguire come bravi artigiani. Bisogna essere creatori, avendo come unica risorsa la sua promessa: vi precederò (14,28; 16,7).
Se ripenso alla mia vita, scorgo la presenza costante della dimensione ecclesiale della fede. Molto diverse le espressioni e le forme incontrate: ogni realtà ecclesiale ha la sua storia. E io ho avuto anche la fortuna di vivere forme di chiesa differenti dal punto di vista confessionale, e di farlo in un’epoca segnata dalla sfida ecumenica. Nonostante che il mio tendenziale individualismo e la lettura critica di certe dinamiche perverse presenti nella realtà ecclesiale mi spingerebbero a battere la strada di una fede vissuta in solitudine, l’esperienza di far parte della chiesa non è mai venuta meno. Ci sto dentro criticamente; ed anche il cambio confessionale non è stato dettato da giudizi manichei: i problemi sono trasversali a tutte le chiese!
Perché questa presenza costante, pur nei profondi mutamenti del mio vissuto, nonostante l’aver visto povertà, incoerenze e persino scandali? Perché intuisco che la chiesa offre un’ermeneutica del vangelo. Mi spiego. La comprensione di quella Parola che ci raggiunge e ci chiama, che apre orizzonti inediti e promettenti, domanda un ascolto che si avvale di una pluralità di strumenti di comprensione. Non c’è solo la classica esegesi, impegnata a trarre fuori dal testo il suo senso profondo, ricorrendo a diversi metodi di lettura. E’ esegesi anche la spiritualità, la liturgia, l’azione sul territorio, la teologia, l’arte, la musica, l’architettura dei locali di culto ecc. Certo, sia l’esegesi in senso stretto che le sue molteplici espressioni sono sempre a rischio di fraintendimento della Parola. Ma qui mi interessa dire che questa pluralità di percorsi offrono solo la cassetta per gli attrezzi utili per operare quella comprensione dell’evangelo che è la chiesa. E’ quest’ultima ad offrire un’idea di vangelo che prende forma in un tempo e in un territorio particolare. Perché la questione della comprensione della Parola non è libresca ma storica, esistenziale. Il vangelo vuole dare forma alla vita.
Dietro queste considerazioni ci sta l’idea di una chiesa come “gruppo di ascolto”. Raggiunti da una Paola altra, che chiama (ec-clesia), i discepoli e le discepole di Gesù provano a discernere per il proprio tempo, in un particolare territorio, cosa comporti quel lievito per la pasta della storia. Un discernimento complesso, che nasce da uno sguardo sulla realtà intensificato dalla Parola. Un discernimento che non si riduce a distaccata analisi della situazione: perché la Parola interpella ed esige che si parta da sé. Che sia la chiesa stessa a vivere il vangelo. Che non si limiti ad annunciare il sogno di Dio ma inizi lei a porsi come “comunità alternativa”. Differente non perché settaria e distaccata ma in quanto segno di un’altra forma della storia, di quel mondo come Dio lo vuole che è il Regno annunciato da Gesù e che nella sua vita ha preso forma. Poi ogni chiesa storica esprime questo col proprio linguaggio interno: la chiesa come parabola, sacramento, luce ecc. Ed i discorsi differenziati individuano diversamente il soggetto ecclesiale, più o meno strutturato, più o meno visibile. Ma la grammatica è la medesima e la sfida è a questo livello: se la chiesa non vive il vangelo, quest’ultimo non risuona nella storia. Come per l’elezione del popolo d’Israele, dove Dio non sceglie qualcuno “al posto di” qualcun altro ma “in vista” di tutti: affinché diventi visibile nella storia il progetto divino; così per la chiesa.
Fin qui le ragioni dell’importanza dell’esperienza ecclesiale per dei discepoli di Gesù. Fin qui la narrazione di Atti, quando nei primi capitoli parla di un modello di chiesa, paradigmatico per tutte le espressioni successive: “unanimi nell’ascolto della Parola, nella comunione fraterna, nel gesto dello spezzare il pane e nella preghiera… avendo un cuor solo ed un’anima sola… mettevano tutto in comune… e non c’era alcun bisognoso in mezzo a loro”. Ma questo scenario ideale viene subito dopo messo in crisi con l’entrata in scena di Anania e Saffira. In quell’episodio Luca, dopo aver delineato l’ideale comunitario, narra del peccato originale della chiesa. I richiami a Genesi 3 sono forti: anche qui una coppia, Satana che riempie il cuore, l’interrogazione posta separatamente ai due, l’espulsione dal luogo comunitario. Come all’inizio della storia della salvezza il sogno di Dio viene visto con sospetto e rigettato, così all’inizio della storia della chiesa il mandato di essere testimoni della resurrezione nel mondo, divenendo operatori che promuovono la “resurrezione dei vivi”, viene messo in discussione in nome di un principio di realismo: pur recitando la parte di quelli che vendono tutto e depongono il ricavato perché venga redistribuito secondo il bisogno di ciascuno, il cuore di Anania e Saffira è riempito da altre preoccupazioni che li spingono a tutelarsi, a pensare a se stessi. L’ipocrisia denunciata con forza da Gesù nei confronti dei pii ebrei, si riproduce anche nella chiesa dei suoi discepoli. Ironia del narratore: proprio a questo punto, per la prima volta nel racconto di Atti, fa la sua comparsa la parola “chiesa” (5,11).
Quel luogo deputato ad essere ermeneutica del vangelo si ritrova ad esprimerne il fraintendimento e la simulazione ipocrita.
Siamo sale a cui perlopiù manca il sapore; siamo luce nascosta da secchi di tradimenti: è da questa consapevolezza auto-ironica che sorgono i tentativi di riforma, ovvero di recupero di quella forma evangelica che smarriamo. La comunità di ascolto dei discepoli di Gesù è chiamata a discernere non solo quale evangelo per questo tempo ma, insieme, anche quali tradimenti corriamo il rischio di compiere nel tentativo di dare forma al progetto divino. Un discernimento che riguarda la nostra chiesa, non quella altrui: almeno questo, l’ecumenismo dovrebbe avercelo insegnato. Dalla riproposizione dogmatica e dalla polemica confessionale al discernimento autocritico, consapevole di esprimere una delle molte possibili ermeneutiche del vangelo e di non potersi mai sottrarre al rischio del fraintendimento.
Quello che è stato il Vaticano II per la chiesa cattolica ha valore più di paradigma di uno stile e di una prassi sinodale che non di evento concluso in sé.
Detto questo, la riflessione è ancora alle premesse. Cui segue il compito di rispondere alla domanda: quale ermeneutica del vangelo propone la tua chiesa per questo tempo?
Solo una suggestione, nata dal comune ascolto della Parola. Nel nostro contesto post-moderno, respiriamo un’aria decostruttiva, dove le grandi parole della modernità sembrano evaporate e dove prevale lo smarrimento. In questo quadro, possiamo però cogliere “il dono dell’incertezza”, ovvero lo stimolo a ricominciare dall’inizio. Ammettendo di non sapere più bene cosa significhi seguire Gesù e provando a fare di nuovo i conti con la parola evangelica. La chiesa che prova a fare i conti con questo spirito del tempo assume la forma proposta da Marco, il racconto evangelico squisitamente decostruttivo. Quel vangelo, trattato da cenerentola praticamente fino al presente, risuona ora come bussola preziosa per ripensare il cristianesimo oggi.
Fisionomia del gruppo dei discepoli secondo Marco
Lungo tutto il racconto di Marco, il gruppo dei discepoli costituisce una presenza decisiva. Essi sono chiamati da Gesù a stare con lui e a compiere i suoi stessi gesti di liberazione dal male; vengono messi a parte del mistero del Regno di Dio; sono istruiti a lungo sul progetto divino che prende forma nella vicenda di Gesù.
Ma, una volta presentati come distinti dagli altri personaggi della storia, Marco decostruisce ogni loro presunta superiorità, narrando della loro incomprensione e incredulità, dell’inadeguatezza e dell’abbandono, fino alla fine, quando le luci si spengono su una scena di silenzio mortale, da cui, ancora una volta, i discepoli fuggono, in preda alla paura. Unica speranza: ritornare in Galilea per ricominciare daccapo, cercando di capire meglio, ma sapendo già che la ripresa sarà senza fine, di inizio in inizio.
Quale figura di comunità di lettori impliciti emerge da un racconto del genere?
Alcuni tratti possono evocare il profilo della chiesa marciana.
E’ una chiesa che non sa, che non presume di sapere. Neppure a riguardo del proprio maestro: sono i demoni a conoscerne l’identità (1,24; 3,11; 5,7). Per i discepoli, dall’inizio alla fine, Gesù rimane un enigma. Il senso delle sue parole e delle sue azioni resta misterioso. Quando credono di aver compreso, sono provocati a rimettere in discussione, a riesaminare tutto. Anche il silenzio, che Gesù intima a proposito della sua identità agli spiriti immondi, a quelli che guarisce ed ai discepoli (8,30; 9,9) gioca questa precisa funzione di ispessire il mistero e di rilanciarne la ricerca.
E’ una chiesa impossibilitata a fornire un’immagine definitiva di sé e, dunque, incapace di assumere una stabilità istituzionale. Nel racconto di Marco non si parla di doni o di ministeri, non c’è la preoccupazione di dotarsi di un minimo di struttura, non emerge una gerarchia di ruoli.
Il lettore collettivo implicato nel racconto del secondo vangelo, quello che Marco intende promuovere, non raggiunge certezze da difendere: conosce troppo bene i propri limiti, l’inadeguatezza costitutiva che non potrà mai venir meno. La fede è vissuta come esperienza di “vuoto”, non come entusiastica pienezza. L’incontro col Dio di Gesù avviene nella crisi, nello scacco. Semmai qualche fervore possa far capolino, il suo fuoco viene subito rintuzzato da quel Dio che mette alla prova e corregge quelli che ama. Come in quell’episodio di sequela mancata, quando Gesù incontra un tale che desiderava la vita eterna, a cui dice: «Una cosa ti manca! Va’, vendi tutto ciò che hai e dallo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi». Ma egli, rattristato da quella parola, se ne andò dolente, perché aveva molti beni (10,21-22). Occorre prima svuotarsi dei propri beni e poi provare a seguirlo.
Nessuna autogiustificazione viene rincorsa: la salvezza è affidata alla grazia di un Dio che invita a non disperare, a rialzarsi e riprendere il cammino, dopo le inevitabili cadute.
Il gruppo di ascoltatori proposto da Marco non si affida a progetti di crescita, a propositi volontaristici da perseguire. La domanda non riguarda il che cosa possiamo fare, gli obbiettivi che si vogliono perseguire, bensì il che cosa Dio ci chiede, a fronte delle nostre comprovate debolezze.
La comunità di Marco intuisce che deve svuotarsi per fare spazio a Dio. Dall’inizio alla fine è guidata unicamente da quella voce celeste che indica Gesù e suggerisce: ascoltatelo.
In questo orizzonte, la lettura comunitaria delle Scritture diventa un esigente laboratorio di ascolto, nel quale ai lettori viene chiesto di lavorare a lungo il proprio terreno, dissodandolo dei tanti impedimenti che non consentono al seme della Parola di sbocciare.
La chiesa è un gruppo di ascolto dove il leggere insieme le Scritture non si riduce all’operazione di accostare le diverse interpretazioni del testo biblico, di cui ogni lettore è portatore secondo la sua specifica sensibilità. Compiacendosi, alla fine, della pluralità di voci emerse, delle cose nuove apprese per bocca di altri, della ricchezza di intuizioni condivise.
Marco si diverte a frantumare ogni soddisfazione spirituale, a scompigliare quei nidi caldi nei quali i credenti stanno bene. Chiese dettate dal Super-io religioso che abita anche nei cuori dei discepoli, giustificate dal successo ottenuto, dal clima positivo instaurato.
Leggere insieme le Scritture è esperienza spiazzante, perché ci si pone in ascolto di una Parola “altra” rispetto al pensiero umano.
Occorre confessare di non capirla, nonostante si appartenga ad una chiesa da una vita e si sia additati come credenti doc.
Bisogna ammettere che siamo abitati continuamente dalla tentazione di fuggirla, dal momento che ci terrorizza, mentre vi cerchiamo consolazione.
L’atto di lettura per Marco diviene una dolorosa scuola di verità su noi stessi, sui nostri desideri ed illusioni, sulle resistenze che opponiamo all’ascolto dell’altro. Bisogna avere il coraggio di lasciar emergere quello che siamo, al di là dell’immagine pubblica che cerchiamo di veicolare. E’ la “grazia della realtà” che occorre assaporare per poter assolvere al compito di ascoltarlo.
Ogni atto di lettura è preceduto. Entriamo nel mondo del racconto carichi dei nostri pre-giudizi. E’ inevitabile che sia così. Tutto quello che possiamo fare è farli emergere, diventarne consapevoli, di modo tale che i pre-giudizi inconsapevoli diventino pre-comprensioni coscienti. Normalmente, pensiamo che si tratti di un’operazione preliminare all’atto di lettura, qualcosa che ha a che fare con la sanità psichica e l’onestà intellettuale. Marco ci dice che è l’esperienza stessa dell’incontro con la parola dell’altro a far emergere la storia aggrovigliata dell’umanità di chi legge.
Per questo, la chiesa di Marco si configura come laboratorio di ascolto non solo della Parola ma anche delle nostre resistenze e fallimenti; come luogo in cui esercitare quel “lavoro del cuore” che mira a smontare ogni presunzione per fare spazio alla Parola divina. La quale continua a domandarci: Non riflettete e non capite ancora? Avete il cuore indurito? Avete occhi e non vedete, avete orecchi e non udite? E non vi ricordate? (8,17-18).
C’è una sapienza spirituale che abita il mondo di Marco, che non potrà essere trascurata, pena l’impossibilità dell’ascolto. Una sapienza che domanda silenzio, più che parole, per ascoltarsi ed ascoltare.
Leggere insieme le Scritture non ha la forma accademica di un seminario tematico, dove più persone affrontano e approfondiscono una questione. E’ piuttosto un’esperienza di ascolto, fuori controllo, in cui si tenta di prepararsi e di conformarsi all’ “Evento della parola di Dio” (K. Barth), facendo di tutto per non neutralizzarne la portata. Nella consapevolezza di non essere mai all’altezza del compito, sperimentando nel vivo i propri fraintendimenti e resistenze.
Ma la strategia narrativa di Marco non è solo segnata dallo scacco, da guardare in faccia. Al fallimento, essa invita a far seguire la ripresa.
Per questo, il gruppo di ascolto marciano sa che deve continuamente riaccendere l’ascolto della Parola; che la vera lettura è la rilettura. La sapienza della ripresa, suggerita dal racconto, indica la via di una lettura ripetuta, intensiva più che estensiva.
La pluralità dei lettori non esaurisce la ricchezza del testo. L’altro, più che riempire con la sua interpretazione il deposito delle mie conoscenze, mette in discussione quanto da me raggiunto, ingiungendomi di riprendere daccapo la lettura. La comunità di ascolto, dunque, diviene scuola di cautela reciproca rispetto ad ogni lettura conclusiva che si affaccia come tale nel cuore del singolo. La molteplicità dei punti di vista con cui si legge il testo non riveste una funzione enciclopedica, moltiplicatrice del sapere, bensì è anticorpo all’assolutizzazione del mio punto di vista, è invito a riprendere in altro modo il filo del racconto.
Per lo stesso motivo il gruppo di lettura dipinto da Marco non cede al settarismo: non riduce l’ascolto solo a “quelli che ci seguono” (9,38). Anzi, l’orizzonte del confronto è ampio quanto l’umanità. Chi, infatti, ha sperimentato la fragilità della propria condizione, non può non sentirsi solidale con ogni essere umano, in dialogo con ogni tentativo di penetrare il mistero della condizione umana. L’umiltà, intesa come quell’aderenza all’humus di chi si ritrova a terra e muove i propri passi con impaccio, senza presumere di volare alto, caratterizza radicalmente il gruppo di ascolto ecclesiale. E si traduce nello stile dialogico del cercare insieme, aiutandosi a rimettersi in piedi, dopo ogni caduta, per cercare insieme quella luce che la cecità ci impedisce di scorgere. Sapendo anche che il cammino è fatto di piccoli passi, di acquisizioni parziali; e che solo l’intervento di Gesù può farlo progredire (8,23-25).
Da questi tratti emerge l’immagine di una chiesa come “laboratorio creativo”. Non c’è un “già dato” da difendere, una forma acquisita definitivamente. Quanti cercano Gesù ed il suo Regno sentono vivo quel “non ancora” che li spinge a ridiscutere continuamente la comprensione fin lì raggiunta del mistero del Regno di Dio.
Ma invece di interpretare tutto ciò come fallimento ed impossibilità di essere parte e segno di quel Regno inafferrabile, i discepoli sono sollecitati verso una sempre nuova creatività. Marco, infatti, li pone di nuovo all’ “inizio” (1,1), nella postura del Creatore (Gen. 1), sospinti dalla passione del tentativo; tenacemente intenti a riprendere in mano quella vita – individuale ed ecclesiale – che domanda di ricevere forma, nella mai conclusa dialettica della deformazione umana e della riforma divina.
Senza avere tra le mani le carte di un progetto architettonico definitivo, da eseguire come bravi artigiani. Bisogna essere creatori, avendo come unica risorsa la sua promessa: vi precederò (14,28; 16,7).