Da Pomigliano d’Arco al Meeting di Rimini
Guerra in famiglia
di Sergio Marchionne
A volte ho l’impressione che gli sforzi che la Fiat sta facendo per rafforzare la presenza industriale in Italia non vengano compresi oppure non siano apprezzati intenzionalmente. La verità è che la Fiat è l’unica azienda disposta a investire 20 miliardi di euro in Italia, l’unica disposta a intervenire sulle debolezze di un sistema produttivo per trasformarlo in qualcosa che non abbia sempre bisogno di interventi d’emergenza. Qualcosa che sia solido e duraturo, da cui partire per immaginare il futuro. La verità è che questo sforzo viene visto da alcuni con la lente deformata del conflitto. Non siamo più negli Anni Sessanta. Non è possibile gettare le basi del domani continuando a pensare che ci sia una lotta tra “capitale” e “lavoro”, tra “padroni” e “operai”. Se l’Italia non riesce ad abbandonare questo modello di pensiero, non risolveremo mai niente. Erigere barricate all’interno del nostro sistema alimenta solo una guerra in famiglia. L’unica vera sfida è quella che ci vede di fronte al resto del mondo. Quello di cui ora c’è bisogno è un grande sforzo collettivo, una specie di patto sociale per condividere gli impegni, le responsabilità e i sacrifici e per dare al Paese la possibilità di andare avanti.
Padrone è e deve esserlo
di Giorgio Bocca
L’amministratore delegato della Fiat Sergio Marchionne è un democratico perché non usa la galera o il confino per fare il suo mestiere di padrone, ma padrone lo è e deve esserlo, e quando afferma di non capire la differenza fra padroni e dipendenti , «un discorso di trenta anni fa», lo dice, lo racconta soave ma falso, perché lui si accontenta di un pullover e dei jeans, ma è l’amministratore delegato della più grande fabbrica italiana di automobili, e gli operai alle sue dipendenze non arrivano più in azienda con i gavettino della colazione, ci arrivano in automobile, ma la legge capitalistica è sempre la stessa: o obbediscono alla legge del profitto o saltano dalla finestra, come è avvenuto a Termini Imerese o è stato minacciato a Pomigliano d’Arco. Per essere vecchia, anche la sua lezione della ‘sopravvivenza produttiva’ è vecchia, la raccontavano già i riformisti Agnelli e Pirelli, ma i dipendenti li chiamavano ‘fascisti gemelli’.
Politica fiscale classista
di Eugenio Scalfari
Esiste una strada da percorrere per recuperare risorse ed è un trasferimento del carico tributario dalle fasce deboli alle fasce opulenti e dal reddito al patrimonio. In un paese dove le diseguaglianze sono enormemente aumentate negli ultimi vent’anni, un’operazione del genere dovrebbe esser fatta ma la casta politica fa finta che sia impraticabile. Diciamo che non è popolare perché colpirebbe in modo continuativo le corporazioni più potenti, le clientele più spregiudicate e una fascia di elettori preziosa per l’attuale maggioranza.
La verità è che la politica fiscale in atto ha connotati tipicamente classisti, colpisce in basso anziché in alto ed ha di fatto trasformato la progressività fiscale in una vera e propria regressività, con tanti saluti al principio costituzionale.
Eppure una modifica fiscale nel senso d’un ritorno al principio della progressività contribuirebbe fortemente al rilancio della domanda e della crescita. Contribuirebbe altresì al taglio effettivo degli sprechi e all’aumento della competitività.
Però non sta scritta nelle tabelle di questo governo, perciò fino a quando non ci saranno mutamenti politici sostanziali la finanza e la fiscalità classiste resteranno inalterate, con buona pace per chi sostiene che la lotta di classe non esiste più.
(Editoriale di La Repubblica 5.9.2010)