Verso il Convegno Nazionale ’92
DOCUMENTI


 

Materiali per alcune tesi “secolari”
sulla presenza / assenza di Dio


Tesi 1: LA VERA POVERTÀ DEL NOSTRO TEMPO

Cerco di indicare disordinatamente alcuni aspetti di questa “povertà”:

1. Fallimento dei compiti fondamentali della politica

La tradizione occidentale fissa alla politica due mete fondamentali (Cfr. G. Nardone, “Valore e ambiguità della prassi politica”, in Servitium, 14-15, III serie, pag. 43): «La liberazione della violenza dell’uomo sull’uomo e la liberazione dal bisogno». Qui “bisogno” deve essere preso in senso forte: “ciò che paralizza come un vincolo e che disarticola come una ferita. L’immagine del bisogno non è dunque molto lontana da quella della violenza”.
Si tenga presente che trattandosi di politica, il tipo di liberazione è piuttosto negativo: liberazione “da” che indica l’assenza di un male determinato piuttosto che la presenza di un bene. “scompare un male determinato senza che compaia un bene determinato”. Nessuna attesa utopica, ma semplicemente condizioni irrinunciabili per poter procedere oltre.

Bisognerebbe a questo punto analizzare i motivi di questa situazione. Mi limito a segnalarla; una carenza – una “notte” – che appare drammatica e visibile soprattutto se superiamo il discorso eurocentrico.

2. Una politica di potenza qualitativamente diversa dal passato

Questo fallimento deriva (anche) dall’ignorare totalmente l’altro. Per “spirito di potenza” intendo la volontà di ridurre tutto a sé, considerarsi come centro e misura del mondo, cancellare il diverso. Pretese “totalitarie” e “totalizzanti”, anche se espresse in maniera formalmente democratica. Non a caso Simone Weil afferma che il vero si definisce precisamente per ciò che non è riducibile allo spirito di potenza.
Può essere utile sottolineare, in questa sede, che un certo monoteismo porta alle stesse conclusioni. La realtà supera sempre il nostro pensiero (non c’è identità fra ragione e realtà), per cui né Dio, né l’uomo possono essere ridotti a “logos”. Ridurre Dio a “logos” significa imporre un monoteismo totalitario, repressivo, che cancella il diverso e l’altro.
Questo spirito di potenza è oggi qualitativamente diverso dal passato, perché sostenuto e realizzato attraverso la tecnologia. Sarebbe da sviluppare, a questo punto, il tema del dominio della tecnologia, dominio tale (cf. Manifesto del P.C.) che l’uomo che l’ha creata non riesce più a dominarla: “è disarcionato dal cavallo che cavalcava”. Ricordo la conclusione dell’ “Etica protestante e spirito del capitalismo” di Weber, per il quale oggi i beni acquistano una forza autonoma, si liberano dagli ideali che avevano spinto l’uomo a trasformare la terra e lo rinchiudono in una “gabbia d’acciaio”.

3. L’espropriazione dell’identità più profonda dell’uomo

Mi limito ad alcune citazioni. Nella “Crisi delle scienze europee”, scritto prima della seconda guerra mondiale, Husserl osservava che «il pensiero scientifico è in crisi per aver perso ogni legame con la sua origine e la propria finalità: il mondo della vita. La scienza ha subìto una obbiettivazione e una tecnicizzazione che non lasciano alcuno spazio all’uomo, al suo mondo vitale. L’esclusività con cui nella seconda metà del secolo XIX la visione del mondo complessiva dell’uomo moderno accettò di venir determinata e con cui si lasciò abbagliare dalla prosperity che ne derivava, significò un allontanamento di quei problemi che sono decisivi per un’umanità autentica. Le mere scienze dei fatti creano meri uomini dei fatti… Nella miseria della nostra vita (…) questa scienza non ha niente da dirci. Essa esclude per principio proprio quei problemi che sono più scottanti per l’uomo (…). Che cosa ha da dire questa scienza sulla ragione e sulla non-ragione, che cos’ha da dire su noi uomini in quanto soggetti di questa libertà? Ovviamente la mera scienza dei fatti non ha nulla da dirci a questo proposito: essa astrae appunto da qualsiasi soggetto».
Inutile insistere sulla pretesa di questa scienza, applicata alla tecnica, di determinare essa stessa che cosa è razionale o non razionale. Una pretesa di onnipotenza con la conseguente politica di potenza, in cui il posto dell’uomo è cancellato. Sentiamo quanto scriveva Jonesco a proposito del suo “Il rinoceronte”:
«Mi domando se non ho messo il dito su una piaga bruciante del mondo attuale, su una strana malattia che infierisce sotto diverse forme, ma che è sostanzialmente sempre la stessa. Le ideologie divenute idolatrie, i sistemi automatici di pensiero innalzano una specie di schermo tra lo spirito e la realtà, falsano il giudizio, accecano. Esse costituiscono anche le barricate fra uomo e uomo, disumanizzano, rendono impossibile l’amicizia nonostante tutto tra gli uomini; impediscono ciò che si chiama coesistenza, perché un rinoceronte non può mai mettersi d’accordo con chi non lo è, né un settario con chi non è della stessa setta».
 
Ora, e vengo alla mia tesi, il rischio, soprattutto dell’Occidente, è quello di imparare a sopportare la situazione in cui siamo. Rabbi Baruch soleva dire «L’esilio vero di Israele in Egitto fu che gli Ebrei avevano imparato a sopportarlo». Parlando della “notte del mondo”, Heidegger la vedeva nella sua terribile pienezza (“giunge al suo apice”) quando «il tempo misero non si rende neppure più conto della sua indigenza. Questa incapacità per cui la stessa indigenza della povertà è dimenticata, è la vera e propria povertà del tempo».
 

Tesi 2: COME CAPOVOLGERE QUESTA LOGICA

M. Weber, sempre nella conclusione già citata de “L’etica protestante e spirito del capitalismo”, riprendendo il discorso sulla “gabbia di acciaio”, scrive: «Nessuno sa ancora chi nell’avvenire vivrà in questa gabbia e se alla fine di questo enorme svolgimento sorgeranno nuovi profeti od una rinascita di antichi pensieri ed ideali…». È questa la svolta radicale che oggi dobbiamo cercare tutti insieme. Ma condizione prima è riconoscere l’abisso – l’esilio – in cui siamo.
Ancora Heidegger nel testo già citato, osservava: «Posto che in genere a questa epoca sia ancora riservata una svolta, questo potrà aver luogo solo se il mondo si capovolge a partire dall’abisso. Nell’epoca della notte del mondo l’abisso deve essere riconosciuto e subìto fino in fondo. Ma perché ciò abbia luogo occorre che vi siano coloro che arrivano all’abisso… Gli Dei “di prima” “ritornano” solo al “tempo giusto”, cioè solo se gli uomini, per quanto li concerne, avranno compiuto una svolta nel luogo giusto e in modo giusto».
Ma quali le condizioni per questa svolta?. Mi limito ad enumerarne alcune:
 

1. Si esce insieme, partendo da ciò che nel politico vi è di comune in particolare con la coscienza della propria finitezza

Normalmente si dice che la filosofia politica si chiude là ove si apre il discorso sulla credenza religiosa, come se quest’ultima fosse totalmente altro rispetto al politico. A. Zanardo (cfr. “La filosofia politica di fronte all’esperienza religiosa”, Pratiche, Parma 1988, pp. 32-33) si chiede invece, e dà una risposta che condivido, se “la coscienza della finitezza e della razionalità infinita”, proprie della filosofia politica, siano veramente altro rispetto alla credenza religiosa e non siano invece la forma interna e profonda di essa. L’aspetto secolare, il farsi storia della fede, gli appare come il coesistere “di coscienza dell’inesauribilità del reale”. È chiaro, e vi tornerò, che la credenza e la coscienza religiosa non si riducono a questo; ma siamo di fronte a un aspetto, anzi al punto di partenza, che diventa comune e porta a una visione della politica assai lontana da quella sopra descritta.
A questo proposito sarà utile ricordare anche personaggi che hanno sottolineato, pur da posizioni politiche diverse, i rischi di una politica e di attese rivoluzionarie che dimenticavano questa “coscienza della finitezza”. Per restare all’Italia, non si può dimenticare la posizione di Del Noce quando ricordava che «l’idea moderna di risoluzione negava il riferimento religioso al peccato originale e concepiva la storia come un cammino nel quale la verità della filosofia, della grande filosofia tedesca idealistica, avrebbe dovuto progressivamente realizzarsi politicamente …sino all’avvento della rivoluzione marxista». In pagine che oggi appaiono profetiche osservava pure che «il fallimento del marxismo avrebbe travolto la fede nella storia e rafforzato il proprio avversario, il mero meccanismo del dominio economico, in quanto il marxismo prima di cadere avrebbe indebolito l’unica forza capace… di opporsi all’ideologia del puro sfruttamento e consumo economico, ossia lo spirito religioso». (Cfr. C. Magris, Corriere della sera, 3 gennaio 1992).
 

2. La necessità di far propria la realtà della differenza riconoscendo l’irriducibilità sovrana dell’altro

Un filo conduttore al crescere di una nuova coscienza può oggi esser trovato nelle riflessioni sempre più presenti e comuni riguardanti il problema dell’”altro” e nel discorso (e realtà) della “differenza”.
«Quello del volto, del faccia a faccia sembra essere stato e sembra essere tuttora il nostro problema e la nostra soluzione. Un volto da stabilire in sede teorica, da rispettare in sede morale, da accarezzare in sede affettiva; ma al di là della risoluzione morale o sentimentale, quello che pare stare prima come il problema di tutti i problemi sembra che si possa riassumere in questa proposizione: il nostro mondo per viverci, amare e santificarci non è dato da una neutra teoria dell’essere che subordina a sé la libera e rocciosa realtà degli enti; non è dato dagli eventi della storia o dai fenomeni della natura, ma è dato dall’esserci di questi inauditi centri di alterità che sono i volti… Dire come possano e debbano stare insieme questi volti …rappresenta la maniera nuova di studiare e proporre il tema dell’uomo… Compreso bene questo significa il primato del mondo sociale come comunità di volti…, il primato della vita morale su quella del mero conoscere o del solo sentire…». (Cfr. I. Mancini, “Tornino i volti”, Marietti, Genova 1988, pag. 49-51).
 

3. Le teologie della liberazione

Fondamentale per cogliere questa alterità, che è salvifica, è, per l’uomo europeo, superare il metro con cui fino ad oggi ha guardato il mondo. In questa direzione, per restare nel campo della riflessione cristiana, le critiche che la teologia della liberazione rivolge a quella europea sono fondamentali.
Può essere utile ricordare, prima di introdurci negli interrogativi che queste teologie ci pongono, come oggi l’esegesi e la teologia più avvertite fanno notare che il vero fine della Redenzione è determinabile in rapporto a libertà più che a salvezza. È la liberazione a cui, come dice Paolo, tutto il creato aspira. Evidentemente liberazione non è riducibile a quella politica; siamo di nuovo di fronte a un concetto comune, pur con le risonanze diverse.
Ritornando ora alle teologie dei popoli oppressi, il nostro rischio è quello di vedere i dilemmi che dilaniano l’Occidente come gli unici dilemmi ignorando quanto questa cultura e la politica che vi ha fatto seguito abbiano seminato in rovine. «Limitando in questo modo le loro (degli Occidentali) capacità di ascolto, di conversione e di azione, rischiano di rinchiudersi nuovamente nella propria conversazione solitaria, proprio nel momento in cui sta emergendo un nuovo mondo policentrico e una Chiesa mondiale ove gli altri più reali – i poveri e gli oppressi – parlano ed agiscono. Poiché il centro occidentale, comunque 1o si chiami – moderno, antimoderno, postmoderno – non può e non deve continuare a costituire il centro…» (Tracy, in Concilium, 1/1990).
Non è qui il posto per analizzare le varie teologie della liberazione e le posizioni dei movimenti che reclamano rispetto e attenzione. Ciò che deve essere sottolineato è che se manca la coscienza e la convinzione della necessità di una attenzione reale e di una conversazione da pari a pari, nessuna frattura potrà essere sanata. Creare, come osserva ancora Tracy, un nuovo umanesimo occidentale dal volto umano, non avrebbe alcuna possibilità di rimanere in vita. Le discussioni dei moderni (o postmoderni) sull’alterità o sulla differenza se non si confrontano con i poveri e gli oppressi in cui si concretizza questa diversità, rischiano di restare puri esercizi letterari. «Soltanto quando la conversazione occidentale cesserà di riflettere meramente sull’alterità e sulla differenza, e noterà, ascolterà, si unirà alla conversazione, ed entrerà in solidarietà con gli altri centri, emergerà un nuovo soggetto storico nel centro occidentale stesso, dopo la morte del soggetto moderno. Solo quando i moderni cesseranno di credere che, quali eredi della tradizione occidentale, essi solo conoscono che cosa significhi ragione, conversazione, pratica, saranno capaci di conversare e di entrare in solidarietà con i veri “altri”, che possiedono storie, tradizioni, modi di ragionare e di operare propri» (97-98).
Non si può non ricordare a questo punto quanto Simone Weil scriveva all’inizio dell’ultima sua opera, “La prima radice”. Cercando di rispondere al problema di come “radicare un popolo” – si trattava della Francia dopo la fine della guerra – Simone lasciava intendere che non bastava una “dichiarazione dei diritti”. Ciò che è fondamentale è il recupero dell’obbligo verso l’essere umano in quanto tale, partendo dai suoi bisogni concreti, primo fra tutti quello del pane. «Quest’obbligo non si fonda su nessuna situazione di fatto, né sulla giurisprudenza, né sui costumi, né sulla struttura sociale, né su rapporti di forza, né sull’eredità del passato, né sul supposto orientamento della storia. Poiché nessuna situazione di fatto può suscitare un obbligo… Quest’obbligo non si fonda su nessuna convenzione… Quest’obbligo è eterno. Esso risponde al destino dell’essere umano… Quest’obbligo è incondizionato. Se esso è fondato su qualcosa, questo qualcosa non appartiene al nostro mondo. Nel nostro mondo non è fondato su nulla… Quest’obbligo non ha fondamento, bensì una verifica nell’accordo della coscienza universale. Esso è espresso da taluni dei più antichi testi che ci siano conservati. Viene riconosciuto da tutti e in tutti i casi particolari dove non è combattuto dagli interessi o dalle passioni. Il progresso si misura su di esso… Benché questo obbligo eterno risponda al destino eterno dell’essere umano, esso non ha per suo diretto oggetto quel destino… L’obbligo è adempiuto soltanto se il rispetto è effettivamente espresso, in modo reale e non fittizio; e questo può avvenire soltanto mediante i bisogni terrestri dell’uomo. La coscienza umana, su questo punto, non ha mutato mai. Migliaia di anni fa gli egiziani pensavano che un’anima non possa giustificarsi dopo la morte se non può dire: “Non ho fatto patire la fame a nessuno”. Tutti i cristiani sanno di dover udire, un giorno, Cristo dire loro: “Ho avuto fame e tu non mi hai dato da mangiare”… Far sì che non soffra la fame quando si ha la possibilità di aiutarlo è dunque un obbligo eterno verso ogni essere umano».


4. Convincimenti etici fondamentali alla base della politica

C’è oggi un bisogno urgente di allargare la concezione moderna della politica, affinché gli stessi valori che stanno alla base delle democrazie attuali – uguaglianza, diritto alla vita, libertà di opinione, di riunione o di associazione. l’individuo come persona a cui ineriscono diritti intangibili – non restino puramente formali e non siano cancellati da politiche di potenza.
Da questo punto di vista mi sembra interessante quello che ha scritto recentemente P.C. Bori (“Per un consenso etico tra culture”, Marietti, Genova 1991, pp. 89-90) parlando di “base della moderna cultura dei diritti”. Partendo dall’affermazione (cfr. Bobbio) che il richiamo ai valori della cultura dei diritti non è sufficiente per assicurarne l’attuazione (“una cultura dei diritti non può da sola reggere tutti gli aspetti dell’agire e del convivere umano e politico, e non può sostituire un’etica pubblica e privata”), avanza “l’ipotesi di una elaborazione etica collettiva in cui la pluralità delle tradizioni ivi compresa quella ebraica e quella ebraica-cristiana, tutte accolte criticamente, confluisca in un complesso di convincimenti fondamentali, comunemente condivisi (sia pure con evitabili contrasti e conflitti). Si avanza cioè l’idea di un consenso non più solo attorno ad alcune proposizioni giuridiche essenziali, come avvenne nel 1948 con la Dichiarazione universale dei diritti umani, ma attorno a un insieme aperto e pluralistico di proposizioni o meglio di percezioni etiche essenziali, che siano espressioni di un nuovo “blocco intellettuale-morale”.
Bori fa poi seguire un elenco di questi convincimenti etici fondamentali: «La certezza che il diritto non si attua senza il sentimento dell’obbligo verso ogni essere umano, il privilegio e l’onore riconosciuto ai deboli, la superiorità di chi sa non rispondere al male con il male, ma con la forza persuasiva della parola indifesa, il valore dell’agire secondo coscienza, a prescindere dai frutti, l’idea che occorra saper governare anzitutto se stessi e la propria casa per governare anche gli altri, l’idea che la maggior guerra sia quella contro se stessi, l’esistenza assunta come somma di benefici che occorre restituire, il rispetto e la pietà per ogni vivente, la vita che si acquista perdendola, la tranquillità e la pace che vengono dalla certezza di una giustizia non affidata alla storia (vedere in nota i rimandi alle diverse tradizioni da cui Bori enuclea quei convincimenti).


Tesi 3: LE VITTIME DELLA “POLITICA DI POTENZA” COME SOGGETTI DEL MUTAMENTO

1. L’assunzione del non-senso

Il filosofo cecoslovacco Jan Potoka, parlando della necessità di un radicale mutamento politico – per lui la politica non può avere altro fine che la vita e la libertà e non la vita per la sopravvivenza o per il benessere – lo lega alla possibilità di una metanoia (non in senso religioso) legata alla capacità di rispondere a questa domanda: «La parte dell’umanità che sta per comprendere ciò che è avvenuto e avviene nella storia e che si vede insieme costretta, dal fatto stesso della posizione attuale al culmine della tecnologia, ad assumere sempre più la responsabilità del non-senso, è capace ugualmente della disciplina e della rinuncia a se stessi che richiede la posizione di non-radicamento all’interiore della quale solo può radicarsi un senso assoluto e tuttavia accessibile perché problematico?» (citaz. da P. Ricoeur, “Lectures 1 Autour du politique”, Paris, Seuil 1991, pag. 81 . Alcuni saggi di questo volume sono appunti dedicati a Potoka).
Abbiamo in questa breve citazione il sunto di quanto detto finora: il non-senso come vera povertà del nostro tempo, con i rischi di una soluzione nichilista, senza futuro né speranza; il non-radicamento in questa situazione, tuttavia assunta, per tentare di superarla e di aprire, pur in modo problematico, altri sentieri; la capacità di agire secondo convincimenti etici profondi capaci di rispettare e dare spazio all’altro, alla diversità, al debole e oppresso.
C’è tutta una tradizione religiosa mistica che ci indica l’accettazione del non-senso come modo per liberarsi dall’io e dare spazio all’altro che non dovrebbe essere trascurata. Mi limito a ricordarla in ciò che essa ha di secolare e in quanto ha anticipato certi risultati di un’analisi psicologica seria.

2. I soggetti di questo capovolgimento

Come sempre non si esce da questa logica di morte da soli. Chi sono i profeti che possono illuminare il cammino? La speranza può venire dalle vittime di questa logica e da coloro che sono disposti a stare presso loro. Sono voci profetiche perché si innalzano dal fondo dell’abisso che abbiamo costruito e devono essere ascoltate e condivise se vogliamo cogliere il non-senso della politica occidentale.
(Può essere interessante, pur con tutte le attenzioni e precisazioni necessarie, ricordare a questo punto il “Trattato del ribelle”, Adelphi, Milano 1990, di E. Junger; si può leggere il riepilogo che fa seguito al volumetto).
Ancora Potoka, che è morto per sostenere queste idee, scriveva che solo «la solidarietà dei “colpiti dalla storia” può permettersi di dire “no” alle misure di mobilitazione che eternizzano lo stato di guerra… la solidarietà dei “colpiti” si edifica nella persecuzione e nell’incertezza: è là il suo fronte silenzioso, senza pubblicità e senza bagliori, anche là ove la Forza regnante cerca di rendersi padrona attraverso questi mezzi».
Diventa a questo punto possibile saldare la riflessione occidentale sul non- senso, sull’abisso in cui siamo caduti con quella dei movimenti di liberazione del Terzo Mondo, dando un nome e una fisionomia più precisa a questo abisso. Coloro che vogliono mutare questa situazione devono discendere in questi abissi e mettersi a contatto con la miseria, l’ingiustizia, la fame e l’assassinio. Ancora Tracy: «Il modo migliore per trovare le voci profetiche del nostro presente – come è stato per gli antichi profeti e per Gesù di Nazareth – è rivolgersi a quelle persone, a quegli individui, e a quei nuovi centri privilegiati più di tutti gli altri da Dio, e tuttora meno ascoltati nel contemporaneo conflitto occidentale delle interpretazioni su quale nome dare al presente: i sofferenti e gli oppressi. Questi altri sono le varie e, certamente, spesso conflittuali teologie della liberazione di tutti gli altri centri del nostro mondo policentrico».
Rileggere la storia dalla parte dei vinti diventa fondamentale. Ciò che non può essere fatto da chi crede di possedere la verità e legge la storia solo come un insieme di vittorie (cfr. W Benjamin, Angelus novus). La memoria dello passione (cfr. Metz) ci pone in questa direzione.


Tesi 4: QUALE DIO È CAPACE DI PARLARE A TUTTI GLI UOMINI?


Inutile insistere sul fatto della necessità del superamento dell’immagine di Dio legata a quel “potere di Dio” e al tipo di onnipotenza che le Chiese gli hanno attribuito e che sono stati fatti operare dai cristiani in maniera aberrante.

1. La non-necessità di Dio

Il “vivere coram Deo, etsi Deus non daretur” di Bonhoeffer è il punto di partenza per una riflessione di questo tipo. È il tema della non-necessità di Dio per le scelte politiche dell’uomo. Il tipo di necessità di Dio – ma il termine è inadeguato – si pone a un altro livello.
Ma più che su questo aspetto, su cui molti hanno scritto pagine sapientissime e calibrate, è sul “coram Deo” che vorrei sottolineare alcuni punti.
Innanzi tutto l’aspetto di smarrimento, di nullità in cui l’uomo si trova. Isaia è esplicito: «Tutte le nazioni sono come un nulla davanti a lui, come niente e vanità sono da lui ritenute» (40, 17). Non che Dio annulli la creatura che ha creato, ama e santifica; ciò che essa è, lo è per grazia, dicono i credenti. Essa di fronte a lui, nulla può pretendere, anche se a lei tutto è dato in piena libertà. C’è un’autonomia, una secolarità piena; l’uomo è chiamato a costruire un mondo diverso con le sue forze. Nessuna delega a Dio. E di nuovo il cammino è comune, anche se ognuno è chiamato responsabilmente a portare le ricchezze della propria tradizione.

2. La logica del venerdì santo

Questo discorso appena accennato, si completa cercando di indagare il significato del venerdì santo. Se Dio, in Cristo, muore sulla croce, significa che è arrivato il giorno in cui Dio si è fatto inaccessibile. Il venerdì santo è il giorno in cui il seme di frumento muore; in quel giorno non c’è nulla da raccogliere. C’è uno iato fra morte e resurrezione che non deve essere cancellato; anzi deve essere sottolineato in tutta la sua drammaticità.
Qui l’abisso è totale, qui Dio si nasconde e si rivela insieme. Ma è una rivelazione lontana dall’immagine del Dio potente a cui siamo abituati. Ecco perché il povero è l’icona di Dio.
Perveniamo qui, ed è G. Gutierrez che ce lo ricorda, al motivo profondo per cui Bonhoeffer respinge l’idea di religione; un’idea che per lui è legata al potere. «Credere in un Dio onnipotente e onnisciente equivale a credere in un modo religioso, inaccettabile per il mondo moderno. Credere “irreligiosamente” equivale a credere nel Dio debole e sofferente del messaggio biblico» (“La forza storica dei popoli”, pag. 226). Si capisce perché questa riflessione che parte da un abisso concreto proponga un altro orizzonte, da una visione diversa da quella occidentale. L’altro è il povero, lo sfruttato, il senza-diritti, una situazione che è legata all’affermarsi della prassi politica, economica e culturale del mondo occidentale. Superare la mentalità moderna significa fare questo salto. Un salto che se ha come punto di partenza i poveri, li vede in un’ottica che parte dall’”alto”. «Chi parte dall’alto, da Dio – scrive ancora Gutierrez (pag. 286) -, è sensibile a quelli che vivono nell’inferno di questo mondo, mentre chi parte dal basso, dall’essere umano, è poco attento alla situazione di sfruttamento su cui questa terra è costruita. Questo fatto potrebbe apparire paradossale a molti. Ma è un paradosso superficiale in verità, dato che viene da una sbagliata, anche se frequente, interpretazione delle categorie che sono qui in gioco. Infatti, un autentico e profondo senso di Dio non solo non s’oppone a una sensibilità nei confronti del povero e del suo mondo sociale, ma tutto sommato lo si vive unicamente in solidarietà con i poveri. Lo spirituale non si oppone al sociale. La vera opposizione risiede fra l’individualismo borghese e lo spirituale secondo la Bibbia».

3. La sofferenza del giusto

Accettare questa situazione, “resistere” nel senso anche indicato da Potoka, significa anche capacità di assumere su di sé la sofferenza. Questa sofferenza ha una capacità rivelativa assai forte. Il tipo di esperienza prodotto dal dolore, scrive S. Natoli (“L’esperienza del dolore”, Feltrinelli, Milano 1988, pag. 8), ha caratteristiche sue proprie, irriducibili alle altre modalità di esperire la realtà. La sua radicalità fa irrompere una diversa visione del mondo e, quindi, un nuovo modo di comprendere l’accadere. Il mondo, sotto il dolore, appare trasformato.
La tematica della sofferenza dei popoli oppressi ci avvicina alla realtà centrale del cristianesimo: la sofferenza dell’innocente. È la vittima innocente che restituisce al mondo la giustizia. Il servo di JHWH risponde con la sua vita al dramma che nell’A.T. è raffigurato da Giobbe. Ma questa lettura è possibile partendo dall’”alto”, dal dono di Dio. È alla luce della resurrezione che la sofferenza è vista come “salvifica”.
Questa sofferenza – ed è importante sottolinearlo per non parlare di una sofferenza dimidiata – è quella che deriva, nell’interpretazione cristiana, dall’assenza di Dio. In un bel saggio (“Il superamento dell’ateismo in Dostojevskij”, in AA.VV., La filosofia contemporanea di fronte all’esperienza religiosa) , L. Pareyson insiste sulla risposta di Aloscia alle affermazioni di Ivan che partendo dalla sofferenza inutile presente nel mondo, rifiuta Dio. Ma è proprio partendo dall’idea del Dio sofferente che Aloscia dà la sua risposta. «Quando Aloscia dichiara che c’è chi per aver sofferto innocente può perdonare e quindi riscattare la sofferenza dei bambini, mostra di ritenere che dalla stessa sofferenza inutile si leva un’esigenza di perdono e di riscatto. La sofferenza inutile è il grido dell’umanità che richiede di essere liberata dal dolore… il dolore dell’umanità è una voragine nera e senza fondo, un abisso insondabile, immerso nella greve e impenetrabile caligine dell’incomprensibilità… l’idea del Dio sofferente è l’unica che possa resistere all’obiezione della sofferenza inutile come dimostrazione dell’assurdità del mondo, e che anzi possa capovolgere l’intera problematica della sofferenza, nel senso di trarre dalla stessa incomprensibilità del dolore la possibilità che esso dia un senso alla vita dell’uomo… Quando con le parole di Aloscia Dostoevskij propone il Cristo sofferente come una vivente smentita alla duplice idea del fallimento della creazione e della redenzione, ciò che egli preannunciava è in fondo un rinnovamento della “theologia crucis” , capace di avvicinare il cristianesimo alla particolare sensibilità dell’uomo contemporaneo, più di quanto non vi riescano le peregrine variazioni che su questo le teologie d’oggi offrono con generosa abbondanza. È ben questo in tutta la sua reale profondità il nucleo centrale della confutazione dell’ateismo di Ivan, il quale può essere superato e vinto solo da un “ateismo” superiore quale è quello della theologia crucis, che Dostojevskj non enuncia esplicitamente, ma in realtà presagisce e prepara» (pagg. 280-282).


Tesi 5: LA POSSIBILITÀ DEL CANTO IN TERRA STRANIERA

Siamo forse in grado non solo di far nostro l’interrogativo del salmista – “come cantare i conti del Signore in terra straniera” (salmo 137, 5) – ma anche di indicare sentieri che possano tenere in vita lo speranza che dà luogo al canto. Nonostante la “povertà” e l”abisso” in cui il nostro tempo giace, siamo invitati a cantare: “Se ti dimentico, Gerusalemme – continua il salmista – mi si attacchi la lingua al palato”. “Ecco sono nella notte – scrive S. Agostino commentando il versetto 14 del salmo 142 – ma spero in Te finché non sia passata l’iniquità della notte”.
Bisognerebbe avere la capacità di Agostino per descrivere questa situazione in cui ogni credente si trova. La tensione fra la Città celeste e la Città terrena, ben intese e non ridotte a chiesa e stato, potrebbe illuminare su questa situazione in cui siamo e da cui siamo chiamati a uscire.

Mario Cuminetti


 

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