Editoriale
Questa domanda guiderà il percorso che faremo insieme nel prossimo incontro nazionale, e nel convegno aperto a tutti, quando ci troveremo ad Albino (BG) dal 28 al 30 maggio. Su questo quaderno riportiamo per esteso il lavoro condiviso nel nostro appuntamento dello scorso anno, alla luce del quale crediamo abbia un senso proporci oggi questa domanda. La troviamo nel titolo di un libro di Italo Mancini che ha visto la luce nel 1978. Era la forma abbreviata della formulazione completa: «Con quale cristianesimo si può oggi continuare a credere». Anche allora si era in una situazione di transizione che l’autore caratterizzava sottolineando due aspetti: “crisi dell’egemonia culturale marxista” e sviluppo di una “coscienza radicale” che si esprime nel “solitarismo” e “in un’istanza antidogmatica”. Allora noi eravamo pienamente interni al mondo del lavoro operaio, dentro le trasformazioni strutturali che mordevano l’esistenza concreta e che avviavano verso una riduzione della capacità di difesa dei singoli lavoratori.
Eravamo preti, ma con la forma di vita totalmente cambiata. Gli ambienti dove trascorrevamo gran parte delle nostre giornate, le energie che quotidianamente dovevamo impiegare insieme ai nostri compagni con i quali si lavorava, i conflitti da affrontare non per il gusto del litigio, ma per custodire almeno un po’ la nostra umanità minacciata dall’ingiustizia, però anche la scoperta di solidarietà che erano come ossigeno che alimentava il cammino… in tutto questo, in dinamiche totalmente laiche, la nostra teologia imparata, la spiritualità sacerdotale alla quale eravamo stati allevati, il nostro essere uomini, ma messi alla prova… in tutto questo che ne era della nostra fede?
Erano trascorsi pochi anni da quando Paolo VI aveva scritto nella lettera apostolica Octogesimo adveniens (1971): «la Chiesa ha inviato in missione apostolica tra i lavoratori dei preti che, condividendo integralmente la condizione operaia ambiscono di esservi testimoni della sollecitudine della Chiesa medesima». Una missio non certo condivisa dall’episcopato italiano, a parte qualche rara eccezione. Dopo soli 14 anni, al convegno ecclesiale di Loreto, nel resoconto della commissione 14, si dichiarava che «i sacerdoti che vivono esperienze laicali, dei preti operai ad esempio», erano indicati «tra i problemi più dolorosi e le situazioni più delicate» e rientravano tra i casi di «appartenenza con riserva alla Chiesa». Due anni dopo, la Commissione episcopale per i problemi sociali e del lavoro nel documento Chiesa e lavoratori nel cambiamento, al n. 23 scriveva «Non sarà necessario mandare un prete in certi ambienti “difficili” come gli ambienti di lavoro; la Chiesa dovrà essere già presente e attiva nei cristiani, purché abbiano coscienza della loro identità e della loro missione come cristiani». Gli oltre cento preti al lavoro allora censiti, e altri che lavoravano ma senza alcun rapporto con la nostra organizzazione1, erano dalla Commissione totalmente ignorati.
La condizione materiale del lavoro e l’essere preti in una struttura ecclesiastica che ci cancellava certamente hanno avuto un’importante influenza sul cammino del nostro credere e sulla stessa forma che strutturava la nostra vita di credenti e di preti. Era tutt’altro che assente il risvolto ecclesiale, ma si andava oltre con relazioni, solidarietà e collaborazioni che sostanziavano appartenenze diverse.
In questi anni molti di noi hanno chiuso i loro giorni. La nostra generazione se ne sta andando. Ciascuno lascia una scia di persone incontrate nella vita che emergono, ricordano, raccontano, organizzano incontri per fare memoria. Popolazione composita, mescolata. Praticanti, ma forse molto più non praticanti, esterni al perimetro ecclesiale. Anche tesi universitarie che narrano. Un esempio l’abbiamo anche in questo fascicolo. E’ la vita vissuta che emerge, collocata in diversi periodi, voci che prendono la parola e diventano memorie vive. Fanno eco a una quotidianità in qualche modo condivisa; quotidianità con le sue pesantezze e con la durezza che le è propria.
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Penso sia utile riportare parte di una testimonianza del teologo Armido Rizzi che partecipava nel 1985 al nostro seminario: «Ricerca sui ministeri» e che esprimeva il suo commento dopo averci ascoltato.
«Si è vissuto un momento alto di umanità, con forte tensione etica, aldilà delle innegabili differenze. Una potenza ed intensità di tono che in nuce esprime la possibilità di ogni lavoro e riflessione teologica futuri.
* Gente che dice di vivere – e cerca di vivere – per gli altri, mentre il contesto è di menefreghismo e furbizia. Senso della vita è assumersi responsabilità.
* Gente che non dice “ho voglia di andare”, ma è andata. Sono narrazioni, non solo progetti di vita. E’ avvenuta una rottura e una ristrutturazione dell’io: la nuova identità è sorta da questo “essere per gli altri”. E’ un’esistenza “compromessa”. Una presenza che fa tutt’uno con la propria identità.
* E’ un racconto che non viene fatto dopo una storia di vittorie, ma di sconfitte e di ri- piegamenti. Come una fede per essere autentica deve passare attraverso la tentazione dell’ateismo, così anche l’etica è matura quando passa attraverso il “disincanto”. All’inizio la scelta della C.O. (classe operaia) poteva anche nascondere una vena di trionfalismo: gli operai erano gli ultimi, ma anche i primi (il “motore della storia”). Ora la C.O è come (…) in menopausa; la bella fanciulla ha le rughe. Essere fedeli adesso è etica matura.
E’ stato anche un momento di tensione spirituale, il che aggiunge all’etico la dimensione religiosa.
* Si dice che quanto viene compiuto è sotto il segno di Dio e del suo Regno, evitando di portare all’estremo la secolarizzazione (o di ricadere nello spiritualismo).
* E’ una sintesi ardua e paradossale: all’interno della secolarità pienamente mantenuta pronunciare il nome di Dio e di Gesù Cristo. Un Dio che ha perso gli attributi secondari (metafisici) ma di cui si è ritrovato il fuoco rivelativo.
Ogni futuro discorso su Dio dovrebbe partire da questo: “La gloria di Dio è il povero che vive” (Romero). La teofania fondamentale, la rivelazione originaria di Dio è la vita che si accende dove era la morte: è il profano, la laicità, dove si manifesta Dio. La liturgia e il dogma vengono dopo, sono semantizzazioni».
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Al cambiamento della forma materiale della vita che il lavoro produce corrispondono delle svolte interiori che seguono delle ispirazioni che hanno nutrito la ricerca, le decisioni e l’impegno di ciascuno. Sono dei filoni spirituali che possono anche coesistere nella vita del prete operaio.
1. Il filone Evangelizzazione dei primi preti operai francesi impegnati nella Mission de France, che ha trovato un seguito anche fuori della Francia. E’ la vocazione a entrare nelle masse per portare il Vangelo. Lo stesso Paolo VI, nella citata lettera apostolica, sottolineava che la missio da parte della chiesa aveva questo obiettivo. L’esperienza concreta poi ha messo in luce che prima di pronunciare la parola occorreva vivere e condividere. La vita ha bisogno di tempo. L’esperienza ci dice che sono necessari anche anni per rimuovere gli ostacoli, i pregiudizi. Inoltre c’era anche l’esperienza di solidarietà vissute e di abnegazione nell’affrontare le lotte che non potevano non richiamare la sostanza del Vangelo, ma in una forma totalmente laica e implicita.
2. Il secondo era il filone della condivisione, sullo stile dei Piccoli Fratelli e Sorelle di Charles de Foucault. Era l’acquisizione di un profondo “costume di vita”. L’essere con gli altri “come loro” e per loro.
3. Il filone delle “Classi sociali”, del “Soggetto storico”, del “Luogo del conflitto”. Qui domina l’istanza etica. Per noi è stato un esempio classico la narrazione di don Cesare Sommariva, nel suo libro “Le due morali. Scelte imprenditoriali, lotte sindacali e intervento culturale alla Redaelli Sidas di Milano dal 1979 al 1984”. Cinque anni di lotta tra la direzione della fabbrica che imponeva la chiusura dell’acciaieria e gli operai che difendevano il posto di lavoro.
Questi primi tre filoni li ho presi dalla classificazione descritta da don Cesare.
4. Credo si debba aggiungere la tematica della chiesa povera e dei poveri. Ricordiamo la bella espressione di Giovanni XXXIII all’inizio del Concilio: “Altro punto luminoso. In faccia ai paesi sottosviluppati la Chiesa si presenta quale è, e vuole essere, come la Chiesa di tutti, particolarmente la Chiesa dei poveri”.
Per molti di noi ha significato uno stimolo a immaginare il ministero in maniera altra, con la spinta a collocarci all’interno di condizioni dove la povertà era vissuta in maniera strutturale, sul fronte economico, ma non solo. La condizione operaia, assunta come scelta esistenziale, rappresentava l’opzione in linea con il dare volto a una chiesa povera.
5. A questo si aggiunge quanto espresso in particolare da don Luisito Bianchi in tutta la sua fecondissima produzione letteraria: occorre la gratuità del ministero per poter annunciare gratuitamente il Vangelo. Per lui questo era l’unico senso del prete al lavoro. Il tema della testimonianza gratuita era condiviso da molti altri. Per me è stato il movente primo della mia scelta di entrare nel mondo del lavoro.
6. Infine ho trovato, con lieta sorpresa, un nuovo filone di recente messo in luce dal gruppo dei preti operai francesi, pubblicato sul Courrier de P.O. del gennaio 2017. ll Ministero simbolico che utilizza la categoria della rappresentanza di mondi diversi e lontani nei quali il prete operaio è pienamente inserito:
«La comunità umana del P.O. è essenzialmente una comunità che non si dice riunita da Gesù Cristo, che non si riconosce nella proclamazione dei fondamenti della fede cristiana. Attorno alla tavola eucaristica (come nella comunità dei credenti) il P.O. è di quelli che rappresentano il popolo che non è presente, il popolo verso il quale la chiesa e ogni credente sono inviati, il popolo assente che dona la ragion d’essere alla comunità ecclesiale perché essa è là per rispondere all’invito del Signore: “Andate e annunciate a tutte le nazioni…».
Bonhoeffer parla del principio della “sostituzione vicaria” come “agire rappresentativo” che direttamente si riferisce a Gesù, ma diventa principio di azione anche per noi: «il principio cristiano della sostituzione vicaria unisce e tiene insieme la nuova umanità».
Queste linee non vanno interpretate in maniera antagonistica. Più filoni possono convivere nella stessa persona, magari con accentuazioni diverse in rapporto alle fasi di vita e alle condizioni esterne vissute. Sicuramente le differenze che sono state presenti tra noi sono dipese, oltre che dalle ispirazioni descritte, anche dalle tipologie di lavoro e di ambiente dove ciascuno era inserito.
In tutti era comunque presente una svolta che Ernesto Balducci così sintetizzava nel suo libro “L’uomo planetario” pubblicato nel 1985: «In Bonhoeffer come nei preti operai, la fine della cristianità non era un evento tragico da subire, era un progetto da abbracciare senza riserve né opportunismi, come normale risposta evangelica alla situazione dell’uomo totalmente inedita».
Affrontare l’inedito di un cristianesimo fuori dall’esaurito regime di cristianità e da pacchetti identitari che includono simboli cattolici svuotati del loro riferimento allo stile evangelico, è un compito che sta ancora dinanzi a noi. Forse la nostra storia di preti operai può rappresentare quel ramo di mandorlo, di cui parla Geremia, che attende la fioritura della primavera, quella che Francesco chiama chiesa in uscita.
Roberto Fiorini
In questo quaderno riportiamo una testimonianza su un prete pescatore di Ancona che nessuno di noi conosceva: clicca qui