Bere al proprio pozzo
Libri da non perdere (1)
“Altro è scrivere un libro. Altro è fare della vita un libro”.
Don Gino non ha scritto libri. Ma ha lasciato due quaderni di memorie da aprire solo dopo la sua morte. Che sono diventate queste “Confessioni” Tra cielo e terra, che un gruppo di amici ha pensato bene di pubblicare.
La vita di don Gino è stata un susseguirsi di salti nel buio. Il primo è stato l’entrata in seminario.
“Lasciavo un mondo nel quale mi sentivo ormai uomo, sapevo fare tutti i lavori che facevano gli altri uomini contadini del mio paese: prendevo decisioni, facevo scelte, ero accolto nei crocchi sulla piazza e davo già i miei giudizi; mio padre si consigliava con me nei lavori e nelle compravendite, rincasavo e uscivo di casa senza rendere conto, ed ora entravo in un mondo dove ero ritenuto e trattato (mi sembrava) da bambino scemo.
Quando salutai il mio parroco (ci voleva una sua lettera per entrare in seminario, come una bolletta di accompagnamento per le damigiane di vino), mi disse: “Se tu diventi prete io mangio un cane!”
E quando nel 1947 don Gino celebrò la prima messa in paese, il vecchio parroco esordì: “Oggi debbo mangiare un cane!” (p. 25).
La vita da prete inizia con una forte crisi:
“… io non avrei mai fatto il prete così, come vedevo i preti che mi stavano attorno: preoccupati per la vita, per la vecchiaia, per i poderi del beneficio, per altre storie inutili” (p. 43).
Si accorda con altri quattro preti per costituire un gruppo di predicatori per le Missioni nei paesi:
“Eravamo ospiti in stanzette del seminario. Tutto era in comune, anche i fazzoletti da naso. Si pregava molto, si viveva bene insieme, si sognava, ci si preparava per la predicazione, ma io non volevo diventare un “predicatore”, pensavo di dover interessare la gente con il Vangelo sì, ma in un modo nuovo… Intanto però mi venne un’idea: “Convertire Badoglio…” (p. 46).
Le sincere aspirazioni di don Gino subiscono ben presto un drammatico arresto. All’età di 33 anni gli viene diagnosticata una grave malattia polmonare, che lo costringe ad entrare in sanatorio per tre anni. E’ lì che comincia a provare il fastidio di sentirsi privilegiato come prete e gli nasce il desiderio di condividere la condizione degli altri malati. Ma quando lo chiamano per assistere i morenti, va in crisi:
“… mi si rompeva l’equilibrio dentro, piangevo, scappavo, rimanevo stordito per dei giorni … però l’orizzonte si allargava, emergeva l’uomo col suo mistero di infinitezza, l’uomo con il suo Dio” (p. 56).
Superato il periodo della malattia, ritorna a Casale e riceve dal Vescovo, suo malgrado, l’incarico di parroco della parrocchia di S. Stefano.
Non è il suo ruolo preferito. E tuttavia si butta con impegno nella nuova attività, mettendosi a disposizione di tutti, dando fiducia alla gente, aiutando le persone nel cammino di fede:
“Una delle preoccupazioni e passioni più grosse della mia vita è sempre stata quella di parlare, discutere, stimolare, provocare, risvegliare le persone proponendo grandi ideali, ascoltando, imparando e dando risalto alla loro vita” (p. 71).
Le iniziative impegnano sempre più il gruppo dei giovani: novene di Natale, incontri per giovani coppie, l’impegno dei giovani nella Missione.
Finché arriva il Concilio ad ampliare gli orizzonti:
“La giustizia, la libertà, la fede, la Chiesa, il valore dell’uomo, i condizionamenti della pubblicità e le strumentalizzazioni … furono i temi preferiti” (p. 72).
Ma anche il tema del gruppo, che non deve diventare ghetto:
“Il gruppo è vivo quando chiunque entri sente che non c’è nulla di segreto, di nascosto, di privilegiato per pochi, e se si sente di fare qualcosa, sperimenta che ha tutta la responsabilità e la fiducia che tutti hanno” (p. 74).
Anche da parroco,
“con tutte le attività che avevo, sono andato in crisi … e la crisi riguardava proprio il mio modo di vivere da uomo e da prete” (p. 79).
Fu allora che maturò la decisione di andare a lavorare in fabbrica come operaio.
“Quando mi si chiedeva il perché della scelta fatta, la risposta era molto semplice: “Gesù Cristo, per affiancarsi ai poveri e per amarli, ha lavorato, si è messo nella condizione degli altri, anch’io ho fatto così” (p. 79).
Durante i sei anni di lavoro, don Gino sperimentò anche un periodo di vita comune con dodici persone, con condivisione dei beni sulla falsariga della prima comunità cristiana descritta dagli Atti degli Apostoli.
Poi però i giovani fanno scelte diverse. Don Gino perde il lavoro e allora “decisi di partire da solo”. Sempre sorretto da una fede profonda e convinto di “vivere storicamente la Parola di Dio” (p. 129), lascia la casa e si avvia “a piedi di parrocchia in parrocchia per una nuova vita sacerdotale ed annuncio evangelico alle popolazioni della diocesi” (p. 107).
“Partii a piedi il 2 maggio 1972, con la giacca a vento sul braccio e arrivai al primo paese, S. Germano. Andai in Chiesa, poi mi rivolsi al parroco: “Ciao, sono qui libero da tutto. Se vuoi posso fermarmi qui un giorno, un mese, un anno. Insieme diremo alla gente di convertirsi al Regno di Dio, oppure loro lo diranno a noi …” (p. 115).
Fece così il primo giro da tutti i preti della diocesi. Ne fece anche un secondo, ma si accorse ben presto che i preti non capivano o non accettavano il suo metodo e allora accolse l’offerta dell’amico Camillo di andare ad abitare alla cascina di Ottiglio, denominata “cascina G”.
Qui scoprì il libro di Paulo Freire “La pedagogia degli oppressi” e ne acquisì il metodo per gli incontri con la gente. Prese contatto a Ginevra con lo stesso Freire e iniziò con lui una feconda collaborazione per un lavoro di annuncio e di presa di coscienza tra la popolazione del Monferrato e anche in Friuli e in Irpinia nelle zone colpite dal terremoto.
Don Gino passa l’ultimo periodo della sua vita alla “cascina G”, organizzando campi di lavoro, corsi per fidanzati, agenzie educative a confronto secondo il metodo Freire, settimane di teatro, giornate di riflessione e di preghiera (p. 144).
“Qui continuo a stare così, a essere così, a vivere così
(facendo un lavoro bello, importante e penso utile per chi viene) …
Senza voler essere pagato. Senza che chi viene debba pagare.
Senza mettere a disagio chi non può pagare.
Qui i poveri possono venire, senza arrossire, senza sentirsi a disagio.
Prego e amo come pregano e amano i credenti,
ma chi viene qui non è obbligato a pregare e a credere.
Ho ricevuto un messaggio che mi ha fatto vivere e gioire nella vita.
È il messaggio di amore, di gioia, di giustizia, di fratellanza,
che è regalo di Dio a tutti,
ma avverto chi viene di non credere alle mie parole,
ma di credere a quel tanto di verità
che ciascuno capta e porta dentro di sé” (p. 174).
“Dopo che sarò morto nessuno o pochi sono interessati a ciò che scrivo, ma ciò che ho vissuto è stato il mio libro di amore perché se è vero che io vivo e vivrò sempre (… ci credo!) queste cose resteranno, mi hanno formato, mi hanno aiutato a respirare, gioire, soffrire, sognare ed essere, mi hanno più volte scaraventato in un amore tanto grande da sentire dolore al cuore, se la “Bontà” non mi avesse retto sarei morto” (p. 152).
Piero Montecucco