Nord – Sud
Relazione tenuta al convegno «Alle soglie del 5° centenario», Milano 1987;
pubblicata con gli Atti del volume dallo stesso titolo edito da Edizioni Associate.
Né leggenda nera, né leggenda rosa. I due estremi di questa opposizione, falsa opposizione, ci collocano fuori dalla storia: ci lasciano fuori dalla realtà. Entrambe le interpretazioni della conquista dell’America rivelano una sospetta venerazione del tempo passato, folgorante cadavere il cui spessore ci abbaglia e ci acceca nei confronti del tempo presente delle nostre terre di tutti i giorni.
La leggenda nera ci propone la visita del museo del buon selvaggio, dove possiamo scioglierci in lacrime sull’annientata felicità di qualche uomo di cera che non ha nulla a che vedere con gli esseri in carne e ossa che popolano le nuove terre. Simmetricamente, la leggenda rosa ci invita al Gran Tempio dell’Occidente, dove possiamo unire le nostre voci al coro universale, intonando inni in celebrazione della grande opera civilizzatrice dell’Europa che ha sommerso il mondo per salvarlo.
La leggenda nera scarica sulle spalle della Spagna, e in minor misura su quelle del Portogallo, la responsabilità dell’immenso saccheggio coloniale, che in realtà andò a beneficio in misura molto maggiore di altri Paesi europei e rese possibile lo sviluppo del capitalismo moderno. La tanto menzionata “crudeltà spagnola” non è mai esistita: ciò che invece è esistito e continua ad esistere, è un abominevole sistema che ha richiesto, e richiede, metodi crudeli per imporsi e svilupparsi. Simmetricamente, la leggenda rosa mistifica la storia, elogia l’infanzia, definisce “evangelizzazione” il saccheggio più colossale nella storia del mondo e calunnia Dio attribuendogliene la paternità.
No, no: né leggenda nera, né leggenda rosa. Recuperare la realtà: questa è la sfida. Per cambiare la realtà che è, recuperare la realtà che è stata, quella falsata, nascosta, tradita realtà della storia dell’America.
Mi sembra del tutto evidente, che è arrivata l’ora per l’America di scoprire se stessa. E quando dico America mi riferisco principalmente all’America che è stata spogliata di tutto, persino del nome, durante i cinque secoli del processo che l’ha messa al servizio del progresso altrui: la nostra America Latina. Questa necessaria scoperta, rivelazione del volto nascosto sotto la maschera, passa attraverso il riscatto di alcune delle nostre tradizioni più antiche.
È in nome della speranza e non della nostalgia, che vanno rivendicati il modo di produzione e di vita comunitario, fondato sulla solidarietà e non sulla cupidigia, il rapporto di identità fra l’uomo e la natura e gli antichi costumi di libertà.
Non esiste, credo, miglior modo di rendere omaggio agli indios, i primi americani, che dall’Artico fino alla Terra del Fuoco sono stati capaci di superare successive campagne di sterminio e hanno mantenuto viva la loro identità e il loro messaggio.
Oggi essi continuano a offrire a tutta l’America, e non solo alla nostra America Latina, chiavi fondamentali di memoria e profezia: testimoniano il passato e allo stesso tempo accendono fuochi che illuminano il cammino. Se i valori che essi incarnano non avessero che un semplice significato archeologico, gli indios non continuerebbero ad essere oggetto di una accanita repressione, né i detentori del potere avrebbero tanto. interesse a separarli dalla lotta di classe e dai movimenti popolari di liberazione.
Io non sono tra quelli che credono nelle tradizioni in quanto tali: credo nelle eredità che moltiplicano la libertà umana e non in quelle che le ingabbiano. Sembra una cosa ovvia chiarirlo, ma non è mai troppo: quando mi riferisco alle voci remote che dal passato ci aiutano a trovare una risposta alle sfide del tempo presente non sto proponendo la rivendicazione di riti di sacrifici che offrivano cuori umani agli dèi, né sto facendo l’elogio del dispotismo dei re Inca e Aztechi.
Al contrario, sto celebrando il fatto che l’America possa trovare, nelle sue più antiche fonti, le sue più giovani energie: il passato dice cose che interessano il futuro.
Un sistema assassino del mondo e dei suoi abitanti, che fa marcire l’acqua, annichilisce lo terra e avvelena l’aria e l’anima, è in violenta contraddizione con culture che credono che la terra sia sacra perché sacri siamo noi, suoi figli: queste culture, disprezzate, annullate, considerano la terra come una madre e non come mezzo di produzione e fonte di rendita. Alla legge capitalistica del guadagno oppongono la vita condivisa, la reciprocità, l’aiuto reciproco, che ieri ispirarono Tommaso Moro per la creazione della sua utopia e oggi ci aiutano a scoprire l’immagine americana del socialismo, che affonda nella tradizione comunitaria le sue radici più profonde.
A metà del secolo scorso, un capo indiano, chiamato Seattle, avvertì i funzionari del governo degli Stati Uniti: “dopo alcuni giorni, il moribondo non sente il fetore del proprio corpo. Continuate pure a contaminare il vostro letto e una notte morirete soffocati dai vostri rifiuti”.
Il capo Seattle disse anche: “Quello che serve alla terra, serve anche ai figli della terra”. Ho appena sentito ripetere questa stessa frase, esattamente la stessa, dalla bocca di uno degli indios Maya – Quiché, in un film documentario girato di recente nelle montagne dell’Ixcàn, in Guatemala. In questa testimonianza gli indios Maya, perseguitati dall’esercito, spiegano così la caccia al loro popolo: “Ci uccidono perché lavoriamo insieme, mangiamo insieme, viviamo insieme, sogniamo insieme».
Quale oscura minaccia irradiano gli indios delle Americhe, quale minaccia ostinatamente viva nonostante i secoli di crimini e di disprezzo? Quali fantasmi esorcizzano i carnefici? Quali paure?
Alla fine del secolo scorso, per giustificare l’usurpazione delle terre degli indiani Sioux, il Congresso degli Stati Uniti dichiarò che “la proprietà comunitaria è pericolosa per lo sviluppo del sistema della libera impresa”. E nel marzo del 1979 in Cile è stata promulgata una legge che obbliga gli indios Mapuches a parcellizzare le loro terre e a trasformarsi in piccoli proprietari senza vincoli reciproci: allora il dittatore Pinochet spiegò che le comunità erano incompatibili con il progresso dell’economia nazionale. Il Congresso statunitense non si era sbagliato. E neppure il generale Pinochet si è sbagliato. Dal punto di vista capitalista, le culture comunitarie, che non separano gli uomini dagli altri uomini né dalla natura, sono culture nemiche.
Però il punto di vista capitalista non è l’unico punto di vista possibile. Dal punto di vista del progetto di una società centrata sulla solidarietà e non sul denaro, queste tradizioni, così antiche e così future, sono una parte essenziale della più genuina identità americana: un’energia dinamica, non un peso morto. Siamo mattoni di una casa in costruzione: questa identità, memoria collettiva e compito comune, viene dalla storia e alla storia ritorna in continuazione, trasfigurata dalle sfide e dalle necessità della realtà. La nostra identità risiede nella storia, non nella biologia, e la confermano le culture, non le razze: ma è nella storia viva. Il tempo presente non replica il passato: lo contiene. Ma da quali orme provengono i nostri passi? Quali sono le orme più profondamente impresse nelle terre d’Americhe?
In generale, i nostri Paesi, che si ignorano fra se stessi, ignorano la propria storia. La condizione neocoloniale svuota lo schiavo della storia, affinché lo schiavo guardi a se stesso con gli occhi del padrone. Ci insegnano la storia come si guarda ad una mummia: fatti e dati scollegati dal tempo, irrimediabilmente estranei alla realtà che conosciamo, amiamo e soffriamo. E ci propongono una visione del passato sfigurata dall’elitismo e dal razzismo. Affinché ignoriamo quel che possiamo essere, ci occultano e ci negano quello che fummo.
La storia ufficiale della conquista dell’America è stata raccontata dal punto di vista del mercantilismo capitalista in espansione. Questo punto di vista ha l’Europa al centro e il cristianesimo come unica verità. Questa è la stessa storia ufficiale, tutto sommato, che ci racconta la “riconquista” della Spagna da parte dei cristiani contro gli invasori “mori”: ingannevole modo di squalificare gli spagnoli di cultura musulmana che da sette secoli vivevano nella penisola quando vennero espulsi. L’espulsione di questi presunti “mori”, che di moro non avevano un pelo, insieme agli spagnoli di religione ebraica, ha segnato la vittoria dell’intolleranza e del latifondo e ha siglato la rovina storica di quella Spagna che scopri e conquistò l’America. Alcuni anni prima che il frate Diego de Landa, nello Yucatàn, gettasse alle fiamme i libri di Maya, l’arcivescovo Cisneros aveva bruciato i libri islamici a Granada, in un grande braciere purificatore che arse per vari giorni.
La storia ufficiale ripete le ideologie usate dagli usurpatori del suolo e del sottosuolo dell’America, però, malgrado tutto, essa stessa rivela la realtà che la contraddice.
Quella realtà, bruciata, proibita, falsata si affacciò nonostante tutto nello stupore e nell’orrore, nello scandalo e anche nell’ammirazione dei cronisti delle Indie di fronte a quegli esseri mai visti che l’Europa, l’Europa dell’Inquisizione, stava “scoprendo”…
La Chiesa ammise, nel 1537, che gli indios erano persone, dotate di anima e di ragione però ha benedetto il crimine e il saccheggio: tutto sommato, gli indios davano continue prove di irrimediabile perdizione e motivi indubitabili di condanna. Gli indios non conoscevano la proprietà privata. Non usavano l’oro né l’argento per rendere omaggio agli dèi. Questi dèi falsi erano favorevoli al peccato. Gli indios andavano nudi: lo spettacolo della nudità, diceva l’arcivescovo Pedro Cortés Larraz, provoca “molte lesioni al cervello”. Il matrimonio non era indissolubile in nessuna regione dell’America e la verginità non aveva valore. Sulle coste del mar dei Caraibi, e in altre località l’omosessualità ero libera e offendeva Dio quanto o poco più del cannibalismo nella selva amazzonica. Gli indios avevano la malsana abitudine di fare il bagno tutti i giorni e, al colmo, credevano nei sogni. I gesuiti comprovarono, così, l’influenza di Satana sugli indiani del Canada: questi indiani erano talmente diabolici da avere interpreti per tradurre il linguaggio simbolico dei sogni, perché credevano che l’anima parlasse mentre il corpo dormiva e che i sogni esprimessero desideri non realizzati.
Gli Irochesi, i Guaranì e altri indios d’America eleggevano i loro capi durante delle assemblee alle quali le donne partecipavano alla pari con gli uomini, e li destituivano se diventavano autoritari. Senza dubbio posseduto dal demonio, il cacique Nicaragua chiese chi avesse eletto il re di Spagna.
“Il buon pesce stufa alla lunga, però il sesso è sempre divertente”, dicevano, sembra, gli indios mehinaku, in Brasile. La libertà sessuale esalava un insopportabile odore di zolfo.
Le cronache delle Indie abbondano di scandali per questa lussuria infernale, diffusa da qualsiasi angolo dell’America più o meno lontano dalle valli di México o di Cuzco, che erano santuari puritani. La storia ufficiale riduce la realtà precolombiana, in larga misura, ai centri delle due civiltà che avevano il più alto livello di organizzazione sociale e sviluppo materiale. Incas e Aztechi erano in piena espansione imperiale quando furono sconfitti dagli invasori europei, che si erano alleati con i popoli da loro sottomessi. In quelle società dominate da re, sacerdoti e guerrieri, vigevano rigidi codici di comportamento, i cui tabù e proibizioni lasciavano poco o nessuno spazio alla libertà. Però anche in quei centri, che erano i più repressivi d’America, fu peggio quello che venne dopo. Gli Aztechi, per esempio, punivano l’adulterio con la morte, però ammettevano il divorzio per la sola volontà dell’uomo o della donna. Un altro esempio: gli Aztechi avevano schiavi, ma i figli degli schiavi non nascevano schiavi. Il matrimonio eterno e la schiavitù ereditaria sono prodotti europei che l’America ha imparato nel XVI secolo.
Gli indios continuano ad espiare i loro peccati di comunità, libertà ed altre insolenze. La missione purificatrice della Civiltà non maschera oggi il saccheggio dell’oro o dell’argento: dietro le bandiere del Progresso, avanzano le legioni dei pirati moderni, senza uncini né bende nell’occhio, né una gamba di legno, ma grandi imprese multinazionali che si buttano sull’uranio, il petrolio, il nichel, il manganese, il tungsteno. Gli indios soffrono, come una volta, la maledizione della terra che abitano. Erano stati spinti verso terre aride: la tecnologia vi ha scoperto sottosuoli fertili.
“La conquista non è finita”, proclamavano allegramente le inserzioni che si pubblicavano in Europa, sette anni fa, offrendo la Bolivia agli stranieri. La dittatura militare offriva le terre più ricche al miglior offerente, mentre trattava gli indios boliviani come nel XVI secolo. Nel periodo della conquista gli indios venivano obbligati, nei documenti pubblici, ad autodefinirsi così: “Io, miserabile indio”; adesso, gli indios hanno solo diritto ad esistere come manodopera servile o attrazione turistica.
“La terra non si vende, la terra è nostra madre, non si vende la madre; perché non offrono cento milioni di dollari al Papa per il Vaticano?”, diceva recentemente uno dei capi Sioux negli Stati Uniti. Un secolo prima, il Settimo cavalleria aveva distrutto le Black Hills, territorio sacro dei Sioux, perché c’era l’oro. Adesso le società multinazionali sfruttano l’uranio, anche se i Sioux non vogliono vendere: e l’uranio sta avvelenando i fiumi.
Alcuni anni fa, il governo colombiano ha detto alle comunità indie della valle del Cauca: “Il sottosuolo non è vostro, il sottosuolo è della nazione colombiana”. E come conseguenza consegnò il sottosuolo alla Celanese Corporation. Dopo poco tempo si formò nel Cauca un paesaggio lunare: mille ettari di terra india rimasero sterili.
Nell’Amazzonia equatoriana, il petrolio fa sloggiare gli indios auca, Un elicottero sorvola la selva, con un altoparlante che dice, in lingua auca: “È arrivata l’ora di partire”. E gli indios si sottomettono alla volontà di Dio.
Da Ginevra, nel 1979, avvertiva la Commissione per i diritti umani delle Nazioni Unite: “A meno che non cambino i piani del governo del Brasile, ci si aspetta che la più numerosa delle tribù sopravvissute sarà estinta entro vent’anni”. La Commissione si riferiva agli Yanomani, nelle cui terre amazzoniche erano stati scoperti stagno e minerali rari. Per lo stesso motivo gli indios nambiquara adesso non arrivano a duecento persone, ed erano quindicimila all’inizio del secolo. Gli indios cadono come mosche a contatto con i batteri sconosciuti portati dagli invasori, come ai tempi di Cortés e di Pizarro. I defolianti della Dow Chemical, sparsi dagli aerei, accelerano il processo.
Quando la Commissione ha lanciato il suo patetico avvertimento da Ginevra, la Funai, l’organismo ufficiale per la partecipazione degli indios in Brasile, era diretta da sedici colonnelli e dava lavoro a quattordici antropologi. Da allora i piani del governo non sono stati cambiati.
In Guatemala, nelle terre dei Quiché, è stato scoperto il maggior giacimento petrolifero dell’America centrale. Negli anni Ottanta c’è stato un grande eccidio: l’esercito – capi meticci, soldati indios – si è premurato di bombardare villaggi e sloggiare comunità perché la Texaco, la Hispanoil, la Getty Oil e altre società cerchino e sfruttino il petrolio. Il razzismo offre alibi allo spoglio: ogni dieci guatemaltechi, sei sono indios, ma in Guatemala la parola “indio” è un insulto.
Quando arrivai a Città del Guatemala la prima volta, ho sentito di essere in un paese straniero a se stesso. Nella capitale ho visto una sola casa veramente guatemalteca, con bei mobili di legno, coperte e tappeti indigeni e vasellame di cristallo o di creta fatta a mano: una sola casa non invasa da spropositi di carta stile Miami: era la casa di una professoressa francese. Basta però allontanarsi un po’ dalla capitale per scoprire i rami verdi del vecchio tronco maya, miracolosamente in piedi malgrado gli implacabili colpi di accetta sofferti anno dopo anno, secolo dopo secolo.
La classe dominante, dominata dal cattivo gusto, ritiene che i bei costumi indigeni siano ridicole pagliacciate adatte solo per il carnevale o il museo, così come preferisce gli hamburger ai tomales, e la Coca Cola ai succhi naturali di frutta. Il Paese ufficiale, che vive del Paese reale, però si vergogna di lui, vorrebbe sopprimerlo: considerare le lingue indigene meri rumori gutturali e la religione indigena pura idolatria, perché per gli indios ogni terra è chiesa e ogni bosco santuario.
Quando l’esercito guatemalteco passa per i villaggi maya, distruggendo case, raccolti ed animali, dedica i suoi maggiori sforzi alla sistematica strage di bambini e anziani. Si uccidono i bambini come si bruciano campi di granoturco fino alla radice: “Li lasceremo senza semente”, spiega il colonnello Horacio Maldonado Shadd. E ciascun anziano alberga un possibile sacerdote maya, portavoce dell’imperdonabile tradizione comunitaria. I Maya chiedono ancora perdono all’albero, quando devono abbatterlo.
La repressione è una crudele cerimonia di esorcismo. È sufficiente guardare le foto, le facce degli ufficiali e dei loro superiori: questi nipoti degli indios, disertori della loro cultura, sognano di essere George Custer o Buffalo Bill e sono ansiosi di trasformare il Guatemala in un gigantesco supermercato. E i soldati? Forse non hanno le stesse facce delle loro vittime, lo stesso colore della pelle, gli stessi capelli? Loro sono indios allenati all’umiliazione e alla violenza. Nelle caserme avviene la metamorfosi: prima li hanno trasformati in scarafaggi, poi in uccelli da preda. Alla fine dimenticano che ogni vita è sacra e si convincono che l’orrore è nell’ordine naturale delle cose.
Il razzismo non è un triste privilegio del Guatemala. In tutta l’America, da nord a sud, la cultura dominante ammette gli indios come oggetto di studio, ma non li riconosce come soggetto di storia: gli indios hanno folclore, non cultura; praticano superstizioni, non religioni; parlano dialetti; non lingue; fanno artigianato, non arte.
Forse la celebrazione dei cinquecento anni potrà servire a continuare a rimettere in piedi le cose, che sono a gambe all’aria. Non per confermare il mondo, contribuendo all’autoelogio, all’autoesaltazione dei padroni del potere, ma per denunciarlo e cambiarlo. Per questo bisognerebbe celebrare i vinti, non i vincitori. I vinti e coloro che con loro si identificano, come Bernardino de Sahagùn, e coloro che sono vissuti per loro, come Bartolomé de Las Casas, Vasco de Quiroga e Antonio Vieira; e coloro che morirono per loro, come Gonzalo Guerrero, che fu il primo conquistatore conquistato e finì i suoi giorni combattendo a fianco degli indios, suoi fratelli in elezione, in Yucatàn.
E forse così possiamo avvicinarci un po’ al giorno della giustizia che i Guaranì, ricercatori del paradiso, aspettano da sempre. I Guaranì credono che il mondo voglia essere diverso, voglia nascere di nuovo, e per questo il mondo supplica il Primo Padre affinché lasci andare la tigre blu che dorme sotto la sua amaca. I Guaranì credono che verrà il giorno in cui questa tigre giustiziera romperà questo mondo, perché un altro mondo senza male e senza morte, senza colpe e senza proibizioni, nasca dalle sue ceneri. Credono i Guaranì, e anch’io, che la vita meriti proprio questa festa.