In vista del Convegno 2009
L’IDOLO È NUDO: METAMORFOSI DEL CAPITALISMO
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Quante volte il sogno di una crisi che svelasse l’inganno si è presentato nella mente di chi ha provato ad esprimere una voce critica sul mercato, avendone sperimentato sulla propria pelle quel cinismo (l’essere umano asservito a mammona) che ne costituisce l’anima (che, come si sa, pur muovendo il tutto, è ben nascosta: in bella mostra c’è solo l’immagine patinata, quella spendibile in società…).
Ed ora che la crisi è arrivata e, di fronte all’evidenza, ci si aspetterebbe l’autocritica degli apologeti del capitalismo, la visione di banchieri vestiti di sacco, con la cenere sul capo; ora che sembrerebbe ovvio un ripensamento del “governo della casa”, ci accorgiamo di quanta ingenuità si nutriva quel sogno.
Neppure ora la storia ci dà ragione! Gli stati intervengono a sostegno dei responsabili della crisi, non delle vittime; i padroni approfittano della situazione per spremere ancor di più le maestranze (costrette a partecipare al gioco, che si fa sempre più duro, del “prendere o lasciare”); la chiesa cattolica può mostrare il suo volto compassionevole ed auspicare che il mercato si doti di più precise regole etiche.
E in basso si scatena l’ennesima guerra tra poveri: in tempi di scarso lavoro non si tollera la presenza di operai stranieri, più ambiti dei nostri in quanto sottopagati.
Mettiamo, dunque, da parte lo scenario apocalittico: quello che vede nella crisi lo svelamento dell’inganno ed il manifestarsi della verità; ed anche, il momento opportuno per ribaltare le sorti (i potenti sono rovesciati, gli umili innalzati). Bello, ma inutilizzabile! Almeno sul breve termine (non ci è dato, di sapere, infatti, i tempi di Dio). Nessun capovolgimento in vista. Conversione non è vocabolo conosciuto in ambito economico. Semmai, metamorfosi. Se cambia lo scenario, si rivede la strategia, si operano dei correttivi. Ma la logica rimane la stessa. E quanto a capacità di metamorfosi, siamo umanamente attrezzati, noi post-moderni liquidi e flessibili. Da tempo abbiamo capito che la coerenza è una rigidità penalizzante; che non è decisivo “essere se stessi” (anche perché è andato in frantumi quel mitico “io” unitario a cui per molto tempo si è appeso il senso di una vita): l’importante è “essere l’uomo giusto al momento giusto”. Dopo secoli all’insegna della svolta antropologica, è giunta l’era di quella camaleontica. Caratterizzata dall’opportunismo, dal cinismo e dall’indifferenza.
Nessuna rivincita postuma, dunque. Neppure quando le facili promesse crollano e la realtà brucia gli idoli ed i loro falsi profeti. Era stato così anche per Ella: la crisi dei Baal non cambia la situazione. Anzi, il potere si scatena contro il profeta che rema contro, che costituisce un pericolo pubblico.
Al più ambito scenario apocalittico, occorre sostituire il più discreto scenario profetico, fatto di inevitabile incomprensione umana, di un Dio appena appena percepibile (come “voce di sottile silenzio”), di fedeltà al proprio tempo nonostante tutto. Non profeti visionari, che vedono e annunciano la nuova Gerusalemme; piuttosto profeti sentinelle, che vigilano e mettono in guardia dal pericolo. Penso che dobbiamo meditare più a fondo sul paradigma profetico, così come appare (al plurale) nelle Scritture. Una meditazione che vada oltre la semplice evocazione della necessità di voci critiche (oltre, cioè, la retorica ed il nominalismo fatto di parole compiaciute ma poco responsabili). Per discernere i “segni di questo tempo” è necessario rimettersi, di nuovo, in ascolto dei “segni del nostro Dio” (una scelta contemplativa che è più militante delle barricate solo minacciate, delle rivoluzioni solo evocate!).
Le voci profetiche delle Scritture sono concordi nel cogliere alla radice della crisi la scelta degli idoli. Il che significa che c’è un problema teologico a monte della deriva etica, del disastro politico ed economico. Mentre la voce sacerdotale, allora come oggi, rifiuta uno sguardo teologico (“sistemico”) e opta per la soluzione religiosa alla crisi (“tempio del Signore, tempio del Signore, tempio del Signor è questo”), per aggiustamenti etici (ripescando le grandi parole, da tempo sonnecchianti, delle dottrine sociali, a cui, oggi, danno l’assenso persino i propugnatori del sistema ora in crisi: tanto si sa che l’etica può benissimo essere usata come etichetta, per migliorare l’immagine e persino acquisire nuove quote di mercato…!).
La voce profetica, che nasce da uno sguardo lucido e radicale sulla situazione, non può che essere negativa (laddove, allora come oggi, chi detiene il potere ama la voce di chi annuncia: “pace, pace”, ovvero: andrà tutto bene, la crisi non è poi così grave).
“Il profeta parla non per sottolineare alcuni difetti, per correggere e migliorare un comportamento sostanzialmente buono. Al contrario, egli denuncia un profondo stravolgimento dei valori, per cui la pratica religiosa (andare al tempio, fare sacrifici, celebrare le ricorrenze festive) è diventato un alibi tranquillizzante per mascherare una vita fatta di violenze e idolatria… Il cambiamento di vita che indica è radicale, la denuncia che egli fa del comportamento dei suoi uditori è tale da svergognarli pubblicamente; e una parola così severa, persino brutale talvolta, non può che suscitare un meccanismo di resistenza, di autodifesa e quindi di contrattacco nei confronti del profeta stesso” (P. Bovati).
E il contrattacco avviene sia fornendo sulla situazione sguardi alternativi a quello che ne denuncia la radice idolatrica (sguardi che individuano nell’untore di turno il responsabile esterno della difficoltà), sia irridendo la parola profetica giudicata catastrofista, irresponsabile, non propositiva, semplificatrice. Ovviai?!
mente, lo sappiamo tutti che dietro questa crisi ci sono fattori macroeconomici, microeconomici, tecnici…: aspetti che si possono affrontare soltanto avendone la necessaria competenza. Ma esiste anche una questione “ideologica” che, dal punto di vista di chi guarda la crisi “dal basso”, appare altrettanto decisiva.
Su questo fronte “ideologico” occorre, nonostante tutto, lavorare, denunciando con forza che l’idolo è nudo. Il riferimento è alla favola di H. C. Andersen, I vestiti nuovi dell’imperatore. In quel racconto, “per non passare da stupido o da immeritevole della carica ricoperta”, la nudità viene inizialmente negata da tutti i ministri del vanitoso re. Il gioco è tenuto saldamente in mano dagli imbroglioni, i quali acquisiscono consenso e potere e ricevono il titolo di “tessitori del Regno”.
Al momento del dunque, però, sarà la voce di un bambino, che ride dell’imperatore in mutande, a svelare l’inganno. Una bella conclusione “etica” (alla Esopo: “la favola insegna che…”); la quale, tuttavia, non sembra più funzionare. Rodari ci ha mostrato che anche le favole, più che suggerire delle evidenze che il lettore dovrà limitarsi a riconoscere, aprono una molteplicità di possibili scenari, una pluralità di conclusioni. Tra cui, in riferimento alla nostra, quella drammatica che la denuncia non provochi nulla, che gli imbroglioni continuino il loro imbroglio e che il sovrano non provi la minima vergogna della propria nudità. Quale conclusione siamo in grado di proporre? Per dare un briciolo di sostanza a questa interrogazione, altre domande chiedono di essere seriamente affrontate. Ne accenno alcune, quelle che mi sembrano decisive.
Innanzitutto: come si denuncia l’idolo ai tempi del “cuore di gomma”, incapace di sdegno e abile nel rimbalzo? Non sembra più questione di far sapere, di controinformare (almeno, non solo, visti i pressoché nulli risultati di una tale operazione; e vista la riduzione a merce della stessa informazione). Sembra più urgente contro-formare, intervenire sulla vera emergenza del presente: quella educativa.
Siamo cresciuti all’insegna dello slogan barthiano “Bibbia e giornale”. Ma già Bonhoeffer spingeva a passare dal giornale al libro, ovvero da un’attenzione al proprio tempo giocata sulla cronaca ad un’altra capace di cogliere i grandi movimenti carsici, lo spirito dei tempi.
Oggi è evidente che la logica stessa dell’informazione è idolatrica nel suo ridurre il reale a campo di battaglia nel quale si dispongono gli schieramenti avversi; nello stile comunicativo da talk show, all’insegna dell’urlare e del semplificare. Il presente domanda persone formate ad avere un occhio penetrante, che agiscano al di fuori sia dello stile televisivo che della scaletta degli argomenti imposta al teleconsumatore.
E, ancora: quale umanità potrà far fronte alla crisi (che è economica nel senso originale del termine, e quindi innanzitutto antropologica e poi politica, civile…)?
E quale Dio?
La posizione di forza del cristianesimo contemporaneo non aiuta a leggere la situazione, ad interpretare la crisi. Tra gli uomini religiosi, sembra prevalere, aldilà delle dichiarazioni di rito, la tentazione di ridurre il tutto a conferma di sé. Come dire: il mondo finalmente riconosce la propria debolezza e chiede aiuto alla religione (un capovolgimento della “modernità” a lungo auspicato dalle autorità religiose). Ma il Dio acclamato è l’idolo. Quello vero è impegnato ad ascoltare il grido degli oppressi e a suscitare profeti che facciano uscire il suo popolo dalla casa di schiavitù.
Il profeta, poi, sa che non basta far uscire Israele dall’Egitto. Occorre, anche (e soprattutto) far uscire l’Egitto da Israele. Perché ci si può dichiarare cristiani o utopisti o quant’altro e nutrire nel proprio cuore gli stessi sentimenti del faraone. Da qui la necessità di un diverso sguardo sul reale, di nuove parole d’ordine (nell’esodo, è la tappa del Sinai).
Il profeta, a differenza dello stratega, condivide la sorte del suo popolo, lo accompagna nell’esilio. Mentre in tanti parlano della crisi osservandola da uno dei tanti “centri studi” (della Confindustria o della Casa della Cultura) e compiendo un’astrazione dai soggetti analoga a quella medica (sguardo posato su organi, neutre diagnosi delle patologie… accompagnate da un’irrisoria irrilevanza di quanto sperimenta il soggetto in questione, portatore di osservazioni troppo poco “scientifiche”!), la scelta dello “stare”, del dare voce e dignità di ascolto a chi subisce i danni della crisi continua a fare la differenza.
Il condividere non va senza la denuncia della pazzia di aver ritenuto (e, con gli opportuni distinguo imposti dalla situazione, continuare a ritenerlo) che il mercato si autoregola (la famosa “mano invisibile”), che è portatore di una propria virtualità positiva. Un’ideologia autoreferenziale e, dunque, idolatrica, da celebrare in una liturgia in cui la vita umana non conta più nulla (“o la borsa o la vita! “). Come anche il delirio di onnipotenza consumistico, che ha fatto saltare sia a livello di istituti economici che nei singoli un equilibrio di rapporti tra capitale e debito: un’ideologia dell’avere e del potere che ci ha fatto smarrire il senso del limite ed il valore del condividere.
Condivisione, smascheramento dell’idolatria, denuncia, recupero di una saggezza personale e collettiva: mi sembra che vada in questa direzione la traduzione iniziale di quell’esigenza di conversione che è la risposta biblica alla deriva idolatrica.
 

Angelo Reginato


 

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