“PRETIOPERAI QUALCHE ANNO DOPO”
Convegno nazionale 1989

Secondo contributo collettivo



L’intuizione di fondo è ancora viva e robusta o si è stemperata nella dispersione? Vi è qualcosa di essenziale che ci lega e che cosa?
Queste domande non sono le domande dei socialdemocratici che devono inventarsi delle domande – risposte, ma vengono da una situazione nostra: un processo di grande concretezza, dove fatti e fantasia, necessità e coerenza si sono intrecciate, in noi è stato così profondo e in certo senso così autotraente, che il nuovo, nel quale siamo e ancora ci muoviamo, è molto complesso, ricco ed enigmatico. Dovendo comunque interpretarlo, sembra di poter dire che esso mostra forti differenze tra aree di PO, tra gruppi nelle aree, tra singoli nei gruppi e all’interno della vita di ciascuno.
Cioè condizione operaia, fede ed ecclesialità, sindacato, politica, internazionalismo… si sono di fatto diversificate tra loro e al loro interno così che, prese come tali, non sono più altro che delle classificazioni di esperienze molto diverse.
Si può dire che non siamo più incarnati, siamo uomini. Queste aree diverse sono per ciascuno naturali, in esse viviamo con altri e lì ci confrontiamo. In esse però non viviamo come preti, e questa parola, anche sul tema fede ed ecclesiale, non può unificare, pena la insignificanza, situazioni tra noi diverse se non contraddittorie. È, come si dirà tra poco, una classificazione di comodo, se non è ripensata come merita.
Dal nuovo e diverso nel quale siamo, deriva che certamente in questo convegno e in prospettiva avremo un reciproco ascolto tra singoli e gruppi che vivono i vari ambiti diversificati e, oltre l’ascolto, la solidarietà da continuare e rafforzare. Ma se aree ed esperienze diverse in aree astrattamente unitarie esigono confronti separati dove ciascuno di noi vive, sembra da escludere che esse, come intuizioni o radici portanti (nuove o vecchie), possano essere il tema unificante del convegno e del movimento. Quello cioè su cui singoli e gruppi lavorano e lavoreranno (anche per l’allargarsi tra noi del terziario e la forte presenza anche del tema pensione, vecchiaia…) sarà sempre più marginale agli effetti di essere un polo magnetico per tutti noi, anche se di importanza vitale per i singoli e gruppi che vi vivono. Giustamente quindi il coordinamento nazionale ha posto come base le domande sull’intuizione forte e sull’essenziale… Le intuizioni forti di una volta si sono esaurite? Se così fosse, è forse perché in qualche modo si sono realizzate? Qual è l’essenziale che ci lega, non nel senso di “fondo del barile” o del “come eravamo” ma come qualcosa che “sta dalle nostre parti” e va cercato?
A noi pare che non un pezzo di noi, ma qualcosa di profondo ed essenziale sia stato ridotto a totale insignificanza e che questa non vada accettata passivamente. Questo essenziale è il nostro sacerdozio (il nostro sacerdozio oppure il sacerdozio? un enigma che andrà molto pensato…). Ma diciamo subito che per “il nostro sacerdozio” non intendiamo il pezzo religioso del PO, di cui poi “l’operaio” sarebbe il pezzo materiale e politico. Lo intendiamo innanzitutto come struttura forte (non un generico e soggettivo legame ma una mediazione oggettiva Dio – uomo, pensati nella loro serietà questi termini, non come ovvie astrazioni) e visto come una struttura trasversale a condizione operaia, ecclesialità, politica, ecc.

Perché parliamo di insignificanza?
Il sacerdozio è sullo sfondo, inessenziale, non richiesto se non addirittura pericoloso negli ambiti politici dove viviamo. Essendo poi una struttura forte e degna di rispetto non è privatizzabile, nel senso di una nostra cameretta religiosa privata. Rispetto ad esso anche i nostri grandi temi (fede povera, condivisione, ecc.) sono una riduzione di esso a comportamenti morali e politici.
Guardato in se stesso, in ciò che esso pretende e deve pretendere di essere, rischia di essere una scatola vuota valorizzata solo dai vari contenuti: amicizia, animazione sociale e politica ecc. Su questa struttura incerta, non guardata del nostro sacerdozio, viva perché ovvia, ma forse anche morta perché troppo ovvia, due fenomeni incidono in modo tale da portarla all’insignificanza.
Il primo è il diffondersi tra noi (unito in qualche modo al lavoro) del sacerdozio come struttura di operatore nel terziario (emarginazione ecc.). Qui il sacerdozio è rimesso tra parentesi in quanto utilizzato al meglio del sociale. Ma poi è il Concordato come semplice razionalizzazione e consacrazione del prete a pieno tempo, cioè come professionista già da tempo esistente, che riporta a zero il senso del sacerdozio del PO. Infatti, dando ragione a qualcuno o più compagni di lavoro, testardi nel non comprendere, che dicevano al PO “sei più utile in parrocchia…”, il sacerdozio concordatario (ma appunto come razionalizzazione di una prassi antica che solo, sembra, il PO ha tentato di rovesciare) come struttura sociale profano – religiosa, ha completamente vinto con il sacerdozio del PO la partita della significatività.
Ora l’essere preti lavorando in fabbrica o comunque a pieno tempo, mostra insieme l’insensatezza del nostro sacerdozio e lo porta allo scoperto e ce lo rivela nel suo vuoto e nella sua ineludibile richiesta di domanda.
Se i termini teologici (o presunti tali) e quelli sociologici del sacerdozio vincente sono fissati, il PO – per il quale il sociale non ha niente di sacerdotale da una parte e, d’altra parte, se per lui il suo sacerdozio non ha niente di sociale e non può essere ridotto a qualche forma di fede – deve ripensare tutto. Un qualcosa di ovvio, sepolto e presupposto, dimenticato e occultato, come tutti i presupposti e presente come tali in noi, anche quando pensavamo che la Chiesa potesse legittimarci in qualche forma di sacerdozio nelle “terre degli infedeli”, viene portato violentemente alla luce.
Sembra essere accaduto questo: il contenuto della vita di tutti i preti, operai e non operai, è diventato un lavoro, una professione. Prassi e convinzione comune prima e concordato poi, rendono sacerdotale questa varia gamma delle mansioni clericali ma non ne nascondono la professionalità, anzi la esibiscono e la razionalizzano. Solo il lavoro del PO non viene riconosciuto come sacerdotale e nemmeno i PO lo vogliono, ma è per questo che resta da scoprire e cercare proprio ciò che rimane fuori, esposto alla domanda necessaria.
Per questa ricerca così difficile, viene di aiuto almeno capire – fin dall’inizio -.che cosa non è: nessuno spirito nichilistico o nostalgia retrò o ricerca di soluzioni pronte ci pare debbano guidarla. Non ci sono nemmeno scorciatoie come è già un miracolo che crediamo, esser preti poi… come se della coppia prete-laico si potesse assumere un polo senza accettare tutta la struttura.
Non è una ricerca religiosa, come mettessimo sotto analisi la cosiddetta parte spirituale che c’è in noi. Questo irriterebbe alcuni di noi, come una distrazione dai problemi e compiti urgenti nella storia e farebbe senza motivo felici altri di noi che finalmente vedrebbero all’ordine del giorno il sacerdozio. Così presa, la ricerca non avrebbe bisogno di tutte le avventure dei PO per rendersi necessaria. Essa è normale routine degli esercizi spirituali di un tempo e attuali. Sembra che la pressione del modello sacerdotale vincente dell’esterno, ma soprattutto la condizione operaia nel nostro interno, con il suo violento impatto sul nostro sacerdozio, convochino tutti noi PO (gli spirituali, gli ecclesiali, i politici…) attorno a qualcosa che è inedito innanzitutto per noi e forse per molto tempo.
Attorno a che cosa, sembra, è necessario lavorare? Attraverso il racconto delle nostre storie (almeno così il gruppo Portomarghera ha tentato un inizio di questa ricerca) cercare i modi nei quali siamo nati come preti, come quei modi nella condizione operaia li abbiamo vissuti, come ci troviamo in essi e come ci proiettiamo in avanti. Che cosa è accaduto? Quale la trasformazione reale? (non quella evocata nel Gattopardo: “cambiare tutto per non cambiare nulla”). A quale profondità è avvenuta la trasformazione? Quale il suo senso? Che ne è stato e che ne è, in questo processo, di ciò che è il fondamento, la sostanza (detto in qualche modo come trascendenza / storia), il giudice di tutto e che, forse, è rimasto schiacciato, nascosto e distrutto nel modello del nostro sacerdozio, forse del sacerdozio stesso e che (quel fondamento) forse solo ora, nel vuoto del nostro sacerdozio ormai esaurito, si distacca da noi, dal nostro usarlo per i nostri scopi, per essere pensata.
Non qualche libro in più o in meno, ma la condizione operaia è un agente primo di questa trasformazione, di questa rottura in noi dell’ovvio. La condizione operaia, prima condivisa e poi nostra sostanza, che ci porta prima a conoscere i nostri compagni di lavoro anche nella loro servile e umiliata condizione di ‘fedeli’ e poi a essere loro, è questa condizione operaia ad essere l’acido corrosivo (come in tutti gli autunni…) delle forme sacerdotali che, se ne stanno al riparo nel sacerdozio concordatario e in tutti i sacerdozi utili, ne vengono aggredite sola nella vita del PO.
Nella trasformazione due condizioni sembrano agire quindi: da un lato una fede sempre più strana (nel senso di fede possibile e donata, non di fede necessaria e presupposto nel prete professionale e in tutte le professioni che per articolarsi vivono di presupposti non pensati) e questa fede piena di buchi e contraddizioni come i testi religiosi, senza la bella geometria dei catechismi e dei manuali professionali, dentro alla condizione operaia.
Intendiamo qui, come condizione operaia quella che anche nel PO senza famiglia non è quella piena di senso ed eroica, ma la grigia e anonima condizione di milioni di persone. Non quindi la condizione operaia presa dal PO come strumento per altro, come campo di applicazione di studio, di 
esperimento o di missione, nella quale si è lì per conto di qualche altro o altro. Una concezione così della condizione operaia non meritava questi anni di lavoro, perchè sarebbe una modernizzazione sulla pelle dei PO del modello per cui la Chiesa (essa, sola) è la trascendenza, il resto è storia, cioè campo di missione, proposta, dominio, a seconda dei tempi.
La condizione operaia, in quanto ci definisce, aggredisce proprio questo modello. Non essendo più incarnati ma uomini, si scende fino al fondo della solidarietà con i nostri compagni di lavoro, perché se tra noi e loro (come produttori – consumatori nei rapporti di produzione) il rapporto di classe è chiuso da tempo, altrettanto di classe, ma nascosto e impensato, rimaneva e rimane il rapporto di classe tra produttori di sacro e consumatori.
È su questo nodo di noi preti, come produttori di sacro, che la condizione operaia, mostrando che ‘il re è nudo’ e che il sacerdozio (il nostro per primo) è un modo ipocrita nel quale viene nascosto il reale rapporto di scambio di beni, se non di oppressione, apre, anche su questo fronte, che non è né più grande né più piccolo del fronte delle libertà civili e materiali, da un lato la visione sull’oppressione su quelli che sono, con un eufemismo, laici, fedeli e che sono schiavi e servi, dall’altro la questione (per dirla in qualche modo) del sacro.
Il niente del nostro sacerdozio, che dovremmo far di tutto perché non sia, né da noi né da altri, riciclato e valorizzato, sta dalle parti di questa doppia rivelazione: ciò che esso è per gli altri e ciò che è per il sacro. Tutte le emergenze e le sofferenze rendono utile il prete. Oggi una società che sembrava avere più netti i confini religione / politica, ora senza molti problemi, accetta la Chiesa come agenzia assistenziale.
Se da un lato, come cittadini siamo sul sociale nelle cose nelle quali fabbrica, territorio, sindacato, internazionalismo ecc. da sempre ci portano, restiamo, dobbiamo restare, ci sembra, nel niente del nostro sacerdozio per vedere che cosa esso, nei due versanti ricordati, dice. Questo fermarsi, questo restare nel niente non è, non può essere né possibile né necessario per il prete concordatario, per il quale il sacerdozio è un pieno di essere e identità e per il quale il vangelo è un manuale professionale.
Il PO guarda il vangelo come un marziano, gli diventa improvvisamente enigmatico, non usabile per nessun catechismo. Si abbozza un inedito, strano gioco di sponda, una rispondenza appena intravista, ma subito scoprente tra ciò che accade al sacerdozio cattolico nel rischio della condizione operaia e l’evento trascendenza / storia di cui i vangeli (proprio nel loro essere plurali, contraddittori, incerti e renitenti ad ogni trasformazione per catechesi) sono i custodi.
In questa miscela inedita fede / condizione operaia accade quindi qualcosa di nuovo e strano ed enigmatico. Non ne siamo padri e madri, non se ne può far niente. Va guardato. Attorno ad esso si annodano temi da sempre centrali per noi:
– fede e politica;
– testimonianza, evangelizzazione: qual’è il discepolo che può parlare e come?
– oppressione sociale nella condizione operaia e oppressione religiosa al suo interno;
– i diritti civili nella Chiesa: popolo sacerdotale o popolo schiavo?
– professionalizzazione (concordataria e non) del prete: i suoi modi attuali, il suo senso. Che cosa voglia dire nel rapporto evangelizzatore – evangelizzato l’introduzione come modello forte ed efficiente della struttura produzione – consumo, elezione – delega ecc.;
– condizione operaia ed esperienza religiosa adulta. Dal fedele schiavo al figlio di Dio;
– domande teologiche: la massima libertà che il teologo si prende di fronte al testo e la negazione di libertà assicurata con tutte le mediazioni possibili al cristiano massa;
– come il massimo di rapporto divinità/uomo (incarnazione) coincide con il massimo di mediazione e di alienazione divinità/uomo.

 

PO DI PORTOMARGHERA


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