Davanti ai giudici (4)
IL PROCESSO A CARICO DI DON BORGHI
imputato di vilipendio alla magistratura
La cronaca del processo tenutosi alla Corte d’Assise di Bologna il 17 dicembre 1974 è stata ricostruita sulla base della testimonianza di alcuni amici di don Borghi presenti in aula.
Dopo i preliminari il Presidente legge la lunga imputazione e poi invita il Borghi.
Presidente: Si accomodi più vicino (indicando il microfono). Lei è Borghi Bruno nato a Galluzzo… Titolo di studio?
Borghi: Quinta elementare.
Presidente: Ma lei al tempo dei fatti era sacerdote, se non sbaglio.
Borghi: Lo sono tuttora anche se sospeso a divinis.
Presidente: Ah, lei è sospeso a divinis. Tuttavia si sente ancora sacerdote?
Borghi: Facciamo l’eucarestia.
Presidente: (dettando al cancelliere). Mi considero tuttavia ancora sacerdote.
Ora leggerò il testo della prima lettera inviata dall’imputato ai suoi compagni di lavoro alcune frasi della quale avete sentito nel capo d’imputazione. (Legge con calma mettendo con la voce in rilievo i punti salienti e interrompendosi solo per spiegare ai giudici popolari i fatti cui le lettere fanno riferimento. Giunto alla fine della prima lettera, invita il giudice a latere a proseguire nella lettura della seconda. Il giudice a latere legge con voce cavernosa e incomprensibile. Sembra un semianalfabeta).
Giudice a latere: (interrompe a un tratto la lettura, incredulo e ripete come tra sé): «Il vero amore per gli sfruttati è lottare insieme a loro, il vero amore per i padroni è eliminare la loro classe e il loro potere» (rilegge il pezzo a voce più alta quasi a convincersi dell’enormità che sta leggendo).
Giudice: È così, don Borghi?
Borghi: (Rileggendo a sua volta il testo). «Il vero amore ecc.». Proprio così. (Il giudice rilegge da capo il brano e, questa volta, prosegue).
Presidente: Dunque lei ha sentito il capo d’imputazione. Cos’ha da dire a sua difesa? Dica.
Borghi: Poche cose, perché i miei argomenti difensivi sono meglio espressi nel documento che il mio difensore leggerà come difesa. Comunque quando affermo che la Magistratura è a servizio dei padroni, non intendo dire che quando vi ritirate di là in camera di consiglio, c’è l’Ugolini che vi fa dire quello che vuole; ma intendo dire che la Magistratura fa parte di un sistema. Del resto tutto questo sarà spiegato ancora meglio nel documento.
(Spiega poi brevemente e in maniera netta qual è il suo pensiero sul ruolo della Magistratura all’interno del sistema borghese. Il suo linguaggio e i concetti espressi non sono diversi da quelli delle lettere. In qualche punto c’è anzi maggior precisione e perciò la carica «offensiva» di alcuni giudizi è maggiore).
Presidente: Lei nelle sue lettere lamenta giustamente che la sua sentenza è arrivata dopo due anni e accusa senz’altro di questo ritardo la Magistratura, affermando che questo «fa comodo ai padroni». Ma si è chiesto perché? Come mai? Ha analizzato le cause del ritardo?
Borghi: Certo che ho analizzato…
Presidente: (interrompendo con foga). Si è mai chiesto se la responsabilità fosse della Magistratura, oppure se essa fosse costretta suo malgrado, ad applicare le leggi… Eppoi le procedure che devono essere rispettate… le leggi vanno applicate…
Borghi: Certo, ma in questo sistema ingiusto e che fa comodo ai padroni, la Magistratura rende soggettivamente anche un altro servizio, non applicando certe leggi oppure applicandole in un certo modo.
Presidente: Ma lei don Borghi, sa come si fanno le leggi in Italia?
Borghi: Credo di saperlo.
Presidente: C’è un Parlamento, la maggioranza vota le leggi e la Magistratura si deve limitare ad applicarle. E lei (con rabbia) ci viene a dire che per questo siamo servi dei padroni, accusando solo la Magistratura. Il suo è un attacco alla Magistratura.
Borghi: Ma lei, Presidente, non ha capito il senso del mio discorso. Io non attacco esclusivamente la Magistratura…
Presidente: Io non c’entro. È l’accusa che le contesta…
Borghi: Allora mi devo rivolgere all’accusa (rivolgendosi verso il Pubblico Ministero).
Presidente: No, io devo contestarle l’accusa. Qui si fa riferimento alla Magistratura. Anzi, lei ricorda tutti: polizia, esercito, magistratura, perfino la Chiesa, ma non dice una parola sul Parlamento.
Borghi: Ma è tutto il sistema di leggi borghesi. Quando dico il sistema è chiaro che c’è incluso anche il Parlamento.
Presidente: No, lei deve spiegarmi perché non ha mai scritto il Parlamento, che è il vero responsabile dei ritardi, le leggi, le procedure.
Borghi: L’ho già detto. È chiaro che il Parlamento fa parte del sistema. Eppoi lo scopo delle mie lettere non era quello di attaccare la magistratura della quale non mi importa niente, ma quello di spiegare ai miei compagni le leggi e gli altri ordinamenti borghesi.
Presidente: Lei dice cose gravi. Lei accusa la Magistratura di avere dato interpretazioni faziose. Ma la legge è una. Se la legge è imperfetta si può cambiare. Il Parlamento serve a questo. Ma noi possiamo solo interpretare e applicare.
Borghi: Ci sono state in un secolo di storia interpretazioni che hanno fatto comodo solo ai padroni e da poco le interpretazioni di una minoranza di giudici fedeli almeno alla Costituzione. Ci sono dei giudici che vogliono applicare la Costituzione e altri che vogliono applicare il codice Rocco fascista. Questo ha prodotto una spaccatura fra di voi.
Presidente: Lo so, lo so, la magistratura è divisa, ci sono delle divisioni…; ma lei afferma addirittura che (comincia a leggere) «quando ha fatto comodo ai padroni e al potere costituito non ha applicato neppure gli articoli del codice».
Borghi: E aggiungo che non solo la sentenza che mi ha rimesso dentro la fabbrica poteva essere fatta trent’anni prima, ma che oggi, quando il giudice obbliga il padrone a riassumere, non c’è verso di eseguire la sentenza perché il giudice dell’esecuzione dice che non si può.
Presidente: Ma lei è stato riassunto…
Borghi: Sì, ma per motivi particolari che potrei anche spiegare. Ma in genere questo non accade.
Presidente: Ma lei ha notizie precise in merito? Ha fatto statistiche in tutta Italia?
Borghi: No, quando uno lavora otto ore in fabbrica non ha il tempo né la voglia di andare in archivio a fare statistiche. Ma in tutte le fabbriche che conosco io…
Presidente: Non si dicono queste cose con leggerezza. Ma c’è un’altra cosa. Lei ha scritto una lettera al Pubblico Ministero (legge un brano della lettera in cui è contenuta l’espressione «per abbattere questo sistema, questa giustizia, ricorrendo anche alla violenza»). Lei parla di violenza. Cosa significa violenza, di che violenza parla?
Borghi: Non di quella di chi va a rubare nelle banche e nemmeno di chi rapisce i bambini per riscatto. Ma della violenza che si oppone alla violenza dei padroni e che può essere anche armata, come quella della Resistenza contro i fascisti.
Presidente: Ma cosa c’entra la Resistenza; (quasi gridando) non siamo qui per parlare della Resistenza.
Borghi: E invece sì, perché la Costituzione è nata dalla Resistenza…
(Il Presidente interrompe non considerando queste cose degne di interesse. Interviene invece il Giudice a latere che era rimasto zitto durante l’interrogatorio).
Giudice a latere: una sola domanda. Lei ha detto che alcune, leggi sono conquiste dei lavoratori. Per esempio la legge sulla giusta causa nei licenziamenti per la quale le è stata data ragione nella causa civile…
Borghi: No, non ho avuto ragione per la legge sulla giusta causa, ma per un articolo del codice civile.
Giudice a latere: Comunque, secondo lei certe leggi sono frutto della lotta dei lavoratori.
Borghi: Certamente.
Giudice: Metta a verbale. Mi dica allora se queste leggi, come lo statuto dei lavoratori, sono leggi borghesi.
Borghi: La lotta operaia…
Giudice: No, mi risponda con un sì o con un no.
Borghi: Non posso rispondere sì o no ad una domanda come questa. Bisogna che le spieghi perché ritengo che…
Giudice: No! Lei deve dirmi lo Statuto dei lavoratori è una legge borghese oppure no.
Borghi: Le stavo spiegando che lo Statuto dei lavoratori è una conquista operaia perché le lotte della classe operaia hanno trovato un ministro socialista che ha dovuto lottare contro la D.C., maggior responsabile del governo.
Giudice: Mi risponda con un sì o con un no se lo Statuto è una legge borghese.
Borghi: Ebbene se vuole un sì o un no, le dirò che lo Statuto è una legge borghese…
Giudice: (con voce trionfante grida). Metta a verbale che lo Statuto è una legge borghese.
(Ormai l’interrogatorio è terminato. I giudici che avevano iniziato con calma, ora appaiono irritati. I giudici popolari sono sempre rimasti zitti).
Viene chiamato a deporre il teste commissario Panarello al quale il Presidente chiede solo se conferma il rapporto in atti. Avutane risposta affermativa, lo licenzia. Poi propone una sospensione di «dieci minuti». Si riprende dopo mezz’ora.
Alla ripresa la parola viene data al Pubblico Ministero per la sua requisitoria. Egli premette che quella del vilipendio è una norma contestata, più volte impugnata per illegittimità costituzionale; che però la Corte Costituzionale ha fugato ogni dubbio. Si dilunga ricordando qualche amenità sull’introduzione del reato di vilipendio in Italia. Aggiunge qualche sciocchezza come questa: che in Inghilterra, patria della libertà, vige il reato di vilipendio sotto forma di oltraggio alla Corte, punito con pene severissime).
Pubblico Ministero: Oggi processare qualcuno per vilipendio non è più una cosa insolita. Devo dire piuttosto che sono stupito di trovarmi davanti un sacerdote che si presenta come operaio-prete e non come prete-operaio, vestito in un modo con cui nemmeno un operaio si sarebbe presentato. Voi avete anche sentito che alla domanda del Presidente sul suo titolo di studio ha risposto: quinta elementare. Ma noi sappiamo che egli è sacerdote, che quindi ha compiuto gli studi in seminario e ha studiato teologia. Ed egli, pur sapendo che noi sappiamo tutto questo, risponde: quinta elementare; quasi a voler polemicamente dissimulare la sua figura e rendersi quanto più possibile simile ad un operaio.
Io che sono cattolico, cattolico praticante, mi sarei aspettato di sentir parlare un sacerdote come parlava San Paolo, il quale ricordava che bisogna obbedire all’autorità costituita perché l’autorità vien da Dio (e qui cita una frase latina). Ed invece, ed è questa la mia meraviglia, abbiamo sentito un sacerdote che parla di violenza.
Don Borghi, è vero, ha tentato di spiegare di quale violenza parla: non di quella che arma la mano dei rapinatori di banche, né quella di chi rapisce i bambini per riscatto…
Borghi: E nemmeno quella delle bombe fasciste sui treni.
Presidente: Non interrompa.
Pubblico Ministero: D’accordo, e nemmeno della violenza di quelli che mettono le bombe sui treni; ma la violenza che agita i fascisti, è la stessa che arma la mano di quelli che uccidono il brigadiere Lombardini, è la stessa violenza che talvolta si scorge anche dall’altra parte…
Pubblico Ministero: (Passa poi ad analizzare le frasi contestate all’imputato e mostra come siano offensive dell’intero ordine giudiziario) …se l’imputato si fosse limitato a dire che polizia, magistratura ecc., operano così perché sono dentro il sistema e che la magistratura in particolare è chiamata ad applicare leggi borghesi e rende così un servizio alla borghesia, non avrebbe detto niente di nuovo o commesso alcunché di illecito. Ma Don Borghi dice di più, che la magistratura ha consapevolmente operato le sue scelte a vantaggio dei padroni.
Per un magistrato è l’accusa più grave, quella che lo colpisce nel suo onore. Don Borghi ha detto servi dei padroni e avrebbe voluto aggiungere – ma lui questa parola non l’ha usata – «lacché» dei padroni. Non bisogna dimenticare che queste parole erano dirette non a persone istruite, di cultura, ma ad operai scarsamente istruiti e inclini perciò ad essere vittime dell’incitamento all’odio di classe.
(Continua affermando che le offese del Borghi alla magistratura sono tanto più gratuite ed ingiustificate in quanto sono lanciate proprio nel momento in cui la magistratura gli dà ragione, dichiarando nullo il licenziamento. Aggiunge che il Borghi ha sperato che gli si desse torto per poter essere più feroce e sprezzante, ma «purtroppo» ha avuto ragione. Il Borghi ha scritto le sue accuse sapendo che erano ingiuste. In riferimento poi all’affermazione del Borghi che il licenziamento per rappresaglia poteva essere dichiarato nullo fin dall’entrata in vigore del codice del 1942 [affermazione che non è del Borghi, ma è contenuta nella sentenza che lo riammette in fabbrica – n.d.r.] dice che il Borghi «mente sapendo di mentire», perché tale nullità viene comminata solo con la legge n. 604 del 1966 sui licenziamenti individuali; mentre fino ad allora il licenziamento era consentito anche senza giusta causa. Legge a riprova alcune massime della Cassazione, spiccatamente padronali. Contesta infine che il ritardo della giustizia sia imputabile ai giudici. Consente con l’imputato che questo ritardo non giova ai lavoratori, ma dice che le cause vanno ricercate altrove. Conclude affermando che le lettere del Borghì sono caratterizzate dal disprezzo e dal desiderio di addossare alla magistratura colpe non sue con un linguaggio che rivela il dolo di offendere con la menzogna.
Il difensore di ufficio avvocato Gamberini annuncia che leggerà un documento scritto dal Borghi e da alcuni suoi compagni. Premette alcune considerazioni di ordine generale sul vilipendio e in particolare afferma che non si vogliono colpire tanto le espressioni delle lettere che esprimono critiche motivate, anche se opinabili, quanto e soprattutto l’atteggiamento ideologico del Borghi. Poi comincia la lettura dell’autodifesa del Borghi. Quando ne ha lette circa due pagine, il giudice a latere mormora qualcosa al Presidente).
Presidente: (interrompe bruscamente la lettura del difensore). Questa è apologia di reato e non posso consentire che in quest’aula pubblicamente si commettano reati.
Avvocato: Ma questa è la difesa dell’imputato.
Presidente: Non posso consentire, se lei desidera depositare, anzi se l’imputato desidera, lo faccia pure, se ne assumerà tutte le responsabilità. (Rivolto al Borghi). Vuole depositare il suo documento?
Borghi: Certo.
Presidente. Lo faccia con tutte le conseguenze del caso. (Poi rivolto al difensore). Avvocato, se vuole, senza leggere, continui pure la sua difesa. Ne ha diritto.
Avvocato: Quel che avevo da dire l’ho già detto. Mi riporto alle conclusioni già formulate.
Presidente: L’imputato ha nulla da aggiungere?
(Mentre l’imputato si alza per parlare, il P.M. interviene).
Pubblico Ministero: Scusi, Presidente, chiedo la trasmissione al mio ufficio del documento depositato dall’imputato.
(Il Presidente si alza imitato dai giudici popolari).
Borghi: Presidente, mi aveva domandato se avevo qualche cosa da aggiungere.
(Il Presidente spazientito, attende le dichiarazioni dell’imputato).
Borghi: Prendo atto che, impedendo la lettura del documento, non mi si permette di difendermi. Voi volete che mi difenda come volete voi e non come voglio io. Sono qui imputato di vilipendio. Voi avete il diritto, anzi il dovere, di ascoltare tutto quello che ho da dire a mia difesa…
Presidente: Ma cosa vuole? Che la faccia arrestare in aula? (Accompagna le parole con l’atto dei polsi incrociati e, uscendo dalla sedia, si avvia verso la camera di consiglio). Non posso permettere che si commetta un altro vilipendio.
Avvocato: (Fa appena in tempo a gridare). Questa è un’anticipazione del giudizio! (Ma il Presidente fa un gesto vago con la mano e sparisce seguito dai giudici).
Dopo un’ora e quarantacinque minuti la Corte esce dalla camera di consiglio e il Presidente legge la sentenza: quattro mesi di reclusione con la concessione della condizionale e non menzione della condanna sul certificato penale.
(Fonte: Inchiesta, ottobre dicembre 1974)