Editoriale


 

“Cuore di pietra” non è il nome di un capo indiano d’America come Toro Seduto o Cavallo Pazzo. Credo di poter escludere a priori che qualcuno desiderasse per sé un tale nome. Cuore di pietra lo troviamo nella Bibbia ebraica, precisamente in Ezechiele. E’ il profeta che parla a nome di Dio: «vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò a voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne». Nella Bibbia la parola cuore sta ad indicare quella che noi chiamiamo coscienza. Cioè il luogo delle scelte e decisioni responsabili di un essere umano.

Con “cuore di pietra” il profeta indica la condizione di decadenza del popolo di Israele a cui si riferisce: da un lato la caduta nell’idolatria, con il pervertimento religioso e la degenerazione che si è strutturata; dall’altro il fallimento etico-sociale con la prevaricazione dei più forti sui più deboli che arriva sino allo spargimento di sangue come conseguenza dell’ingiustizia. Il Siracide, un libro sapienziale della Bibbia lo desccrivee in questo modo: «Il pane dei bisognosi è la vita dei poveri, toglierlo a loro è commettere un assassinio. Uccide il prossimo chi gli toglie il nutrimento, versa sangue chi rifiuta il salario all’operaio». E’ l’ingiustizia strutturata che si fa pensiero dominante e prassi diffusa.

“Cuore di pietra” dunque non indica soltanto la condizione di un singolo individuo, ma anche e soprattutto un costume sociale, un modo di ragionare e di strutturare i rapporti sociali, economici, politici.

Questa figura del cuore di pietra mi è stata risvegliata dalla descrizione che Il recente rapporto Censis fa degli italiani. UtiIizza il termine “cattivi” per qualificare i nostri concittadini, in preda a «una sorta di sovranismo psichico prima ancora che politico», che «talvolta assume i profili paranoici della caccia al capro espiatorio, quando la cattiveria – dopo e oltre il rancore ‒ diventa la leva cinica di un presunto riscatto e si dispiega in una conflittualità latente, individualizzata, pulviscolare».

Il vero nodo sembra essere che in questo sistema sociale, «attraversato da tensione, paura, rancore» si «guarda al sovrano autoritario» mentre «il popolo si ricostituisce nell’idea di una nazione sovrana supponendo, con un’interpretazione arbitraria ed emozionale, che le cause dell’ingiustizia e della diseguaglianza sono tutte contenute nella non-sovranità nazionale».

Che il “capro espiatorio” oggi venga individuato negli immigrati, mi pare fuori discussione. Più si picchia in quella direzione più il consenso politico aumenta. E’ come correre su un’autostrada.

La metafora del “cuore di pietra” affiora alla mia memoria ogni volta che una nave con migranti salvati dal naufragio, e dalla morte probabile o certa, viene fermata al largo delle coste, impedita di approdare nei porti italiani. Le giustificazioni addotte e il plauso o il sostegno che ricevono sono nell’ordine del cuore di pietra. Espulsione a prescindere. Devono tornare in Libia, nonostante sia certo che là ad attenderli ci sono soprusi e violenze di tutti i generi. E’ quello che, ancora una volta per conto dell’ONU il 21 marzo scorso a Ginevra, dichiarava il segretario generale aggiunto per i Diritti umani, Andrew Gilmour: «I migranti vengono sottoposti a “orrori inimmaginabili” dal momento in cui entrano in Libia». Ha anche confermato la veridicità della relazione dell’Unsmil, la missione delle Nazioni Unite a Tripoli, che nel dicembre scorso aveva documentato «gravi violazioni dei diritti umani e abusi sofferti da migranti per mano di funzionari statali e membri di gruppi armati, così come le atrocità commesse dai trafficanti». La quotidianità per i migranti è fatta di continue «torture e maltrattamenti» che anche nei centri di detenzione governativi «continuano senza sosta».

E’ intollerabile che il ministro degli interni in una sua direttiva dichiari la Libia come «Paese affidabile», affermando poi che anche la Commissione europea avrebbe detto che la Libia è un posto sicuro. Con la seguente risposta della medesima Commissione: «Per quello che riguarda gli sbarchi si applica il diritto internazionale e la Commissione ha sempre detto che al momento in Libia non ci sono le condizioni di sicurezza», aggiungendo «Tutte le imbarcazioni che battono bandiera Ue non hanno il permesso di fare sbarchi in Libia».

Neppure i sovranisti riescono a dire la pura verità, ma hanno bisogno di ammantarla di una patina di rispettabilità etica. La bugia come foglia di fico.

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Ma andiamo a sentire quanto hanno da dire quelli che stanno dall’altra parte, le cui voci vengono condannate al silenzio. Ecco cosa scrive una donna nigeriana al nostro ministro degli interni, rompendo il silenzio, quella barriera che serve a tenere i cittadini italiani nell’ignoranza e in quei “profili paranoici della caccia al capro espiatorio”. Nelle pagine successive la lettera viene riportata per intero.

«Il mio paese, la regione in cui vivo, dovrebbe essere ricchissima, visto che siamo tra i maggiori produttori di petrolio al mondo. E invece no. Quel petrolio arricchisce poche famiglie di politici corrotti, riempie le vostre banche del frutto delle loro ruberie, mantiene in vita le vostre economie e le vostre aziende.

Il mio paese è stato preda di più colpi di stato. Al potere sono sempre andati, caso strano, personaggi obbedienti ai voleri delle grandi compagnie petrolifere del suo mondo, anche del suo paese. Avete potuto così pagare un prezzo bassissimo per il tanto che portavate via. E quello che portavate via era la nostra vita.

Lo avete fatto con protervia e ferocia. La vostra civiltà e i vostri diritti umani hanno inquinato e distrutto la vita nel Delta del Niger e impiccato i nostri uomini migliori. Si ricorda Ken Saro Wiwa? Era un giovane poeta che chiedeva giustizia per noi. Lo avete fatto penzolare da una forca…

Le vostre aziende, in lotta tra loro, hanno alimentato la corruzione più estrema. Avete comprato ministri e funzionari pubblici pur di prendervi una fetta della nostra ricchezza. L’Eni, l’Agip, quelle di certo le conosce. Sono accusate di aver versato cifre da paura in questo sporco gioco. Con quei soldi noi avremmo potuto avere scuole e ospedali. A casa, la sera, non avrei avuto bisogno di una candela…

Sarei rimasta lì, a casa mia, nella mia terra. Avrei fatto a meno della pacchia di attraversare un deserto… La pacchia l’avete fatta voi. Sulla nostra pelle. Sulle nostre vite. Sui nostri poveri sogni di una vita appena migliore».

Fino a ottant’anni fa l’Europa era la proprietaria dell’Africa. Non c’era un lembo di terra africana che non fosse dominata dai paesi europei, i quali non l’avevano invasa per fare beneficenza, ma per costruirsi o implementare i loro imperi. E ancor oggi l’Africa è terreno di caccia, non solo nel senso dei safari.

Perché il silenzio dei media sull’Africa e sugli africani? I missionari comboniani hanno rivolto un appello ai giornalisti italiani perché rompano il silenzio sulla storia insanguinata degli abitanti del Congo, «una terra dimenticata dal mondo che chiede aiuto». Dimenticata, ma occupata. La Repubblica democratica del Congo, estesa otto volte l’Italia, abitata da 75 milioni di abitanti, è «uno dei paesi potenzialmente più ricchi d’Africa, soprattutto per i metalli utilizzati per le tecnologie più avanzate, coltan, tantalio, litio, cobalto». Dimenticata, ma al centro di «enormi interessi internazionali sia degli Stati Uniti come dell’Unione Europea, della Russia come della Cina» che lo scorso anno ha comprato una miniera che produce il 65% di cobalto del mondo. «La maledizione di questo Paese è proprio la sua immensa ricchezza. Per questo, oggi, il Congo è un Paese destabilizzato in preda a massacri, violenze, soprusi, malnutrizione e fame». Nella regione del Kivu, «gruppi armati controllano le miniere di coltan per non far entrare altri minatori e tenere il prezzo basso, sfruttando il lavoro dei bambini» (secondo l’Unicef 40mila bambini). Perché allora questo assordante silenzio? La risposta dei missionari è netta: «la ragione di tale silenzio: gli enormi interessi internazionali in quel Paese…nel silenzio stampa e nell’indifferenza del mondo». La destabilizzazione provoca massicci spostamenti di popolazioni, costretti ad abbandonare le proprie terre occupate dai grandi affari. «I dati dell’Alto commissariato per i rifugiati dell’ONU dicono che questi conflitti hanno prodotto quattro milioni di rifugiati interni, 750mila bambini malnutriti e 400mila a rischio di morte per fame».

Un altro modo per cacciare gli africani dalle loro terre è quello denunciato dai vescovi del Mozambico in un documento di due anni fa: «Si calcola che, dal 2000 al 2013, 56 milioni di ettari di terra africana siano stati venduti o ceduti a stranieri. E questo indica come le imprese e i governi dei Paesi industrializzati cerchino in Africa la risposta alla crisi energetica e alimentare dei propri Paesi, piuttosto che contribuire alla soluzione dei problemi africani e dei mozambicani». Chiamano in causa i G8 e la Banca Mondiale quali promotori dei progetti di agribusiness su ampia scala. Anche società italiane concorrono all’occupazione delle terre per un totale di quasi 1 milione di ettari. L’agribusiness ha lo scopo di rifornire i ricchi mercati stranieri. Il risultato è la distruzione dell’economia locale su base familiare con l’espulsione di quote rilevanti di popolazione dalle loro terre.

A questo va aggiunto un’altra aggressione nei confronti delle pratiche agricole africane. I G8 e la Banca mondiale sponsorizzano programmi tesi al controllo totale delle sementi, esercitando pressioni sugli Stati africani per una legislazione che punisca i contadini che vogliano continuare a usare e scambiare le loro sementi tradizionali. In Africa alcune multinazionali hanno preso il controllo dei mercati ufficiali con l’obiettivo di togliere ai contadini il ruolo di custodi, selezionatori e diffusori delle loro sementi. In Tanzania i contadini che infrangono la legge riguardanti le sementi rischiano fino a 12 anni di carcere.

Infine un ultimo accenno che ci dice fino a che punto il colonialismo sia ancora attivo e violento. Le popolazioni Masai che vivono tra il Kenya e la TanzanIa sono state espropriate delle loro terre da due compagnie private colluse col governo, l’americana Thomson safari e la Ortello Business Corporation, compagnia di caccia grossa di un riccone di Dubai. Esse hanno terrorizzato i membri della comunità Masai con botte sfratti, incendi, minacce di morte e morte. La denuncia viene dall’americano Oacland Institute che afferma: “Hanno reso le loro vite impossibili negando a loro l’accesso all’acqua e alla terra. Sono stati confinati in sempre più piccoli appezzamenti, sconosciuti ai Masai come lo zoo ai leoni”. I loro territori sono diventati luoghi di caccia per i ricchi e safari fotografici per i turisti.

Ecco alcuni piccoli flash, tra mille altri, che sono accuratamente occultati nella nostra decadente società europea che sta perdendo il senso stesso dell’umanità. Chi sono i veri invasori? E’ ancora il colonialismo, ora perfettamente aggiornato nell’era della globalizzazione. E’ iniquo e vergognoso che gli Stati europei, che solo 80 anni fa occupavano l’intera Africa, ora blindino le frontiere, mentre milioni di africani continuano ad essere cacciati dalle loro terre, partecipando attivamente alla predazione delle loro risorse naturali. E intanto nel silenzio tombale sull’Africa prosperano le pulsioni razziste che avvelenano anche la nostra convivenza.

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Rincorrere i “capri espiatori” significa dirottare l’attenzione dai problemi veri. E cadere nella trappola che mette in concorrenza i poveri contro altri poveri, la borghesia impoverita contro chi cerca unicamente il minimo per poter vivere, dando l’impressione che il cosiddetto sovranismo, la chiusura nel proprio piccolo e l’espulsione dell’altro, possa salvare. E’ un’illusione di fronte a un’economia globalizzata alla deriva:

«Il sistema economico dominante non sa come risolvere le sue crisi strutturali: crescila della disoc­cupazione, ridistribuzione della ricchezza sempre più inegua­le, deterioramento dei suoli e della fertilità delle terre, crisi alimentari, crisi idrica, esplosione ingestibile dei rifiuti, ele­vata instabilità monetaria, formazione di giganteschi gruppi economici mondiali con poteri di decisione e d’influenza di gran lunga superiori alla stragrande maggioranza degli Stati, evasione fiscale, criminalità economica in espansione a tutti i livelli. Di fronte a questa economia fallimentare i dirigenti non sanno fare altro che proporre delle fughe in avanti: maggiore precarietà del lavoro, imposizione della contrattazione individuale, in attesa di poter generalizzare l’occupazione senza contratto, di cui il “contratto zero ore” è una “bella” anticipazione»…

Un pensiero sofferente ma forte va alle migliaia di migranti morti nel Mediterraneo (soprattutto) e sulla via balcanica nel tentativo di fuggire le guerre, le persecuzio­ni religiose e politiche, le devastazioni ambientali5. Questi migranti non sono i perdenti della storia ma l’avanguardia sacrificata di popoli in cammino per un altro futuro, vitti­me della potenza e dell’arroganza dei «predatori della Terra». I predatori del futuro degli altri saranno condannati dal­la storia. Gli immigranti di oggi dimostrano con forza che nessuno e niente (neanche i cannoni, i muri, i fili spinati, le prigioni…) possono fermare i popoli in marcia per la loro dignità, libertà e rispetto» (Petrella).

Nel prossimo convegno dell’1 giugno a Bergamo il dr Petrella sarà con noi per aiutarci a connettere i vari aspetti, orientandoci a una visione sistemica. Sguardo necessario per superare la dittatura del presente, aprendo una prospettiva per il futuro delle prossime generazioni.

Roberto Fiorini


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