Vangelo nel tempo
Quella di lavorare dopo l’ordinazione, non è stata per me una scelta ‘militante’; direi, anzi, che alcune affermazioni che attribuivano un certo valore messianico alla scelta dei PO un po’ m’irritavano. Ho scelto di lavorare manualmente – e l’ho fatto per quasi 18 anni – per motivi personali e di testimonianza. Non intesa, quest’ultima, nel senso missionario che avrebbe salvato la gente (cosa che ho forse pensato nei sogni di prima gioventù), ma nel senso di offrire alla Chiesa stessa un’alternativa legittima e degna e non invisa, come la più parte pensava, di esercizio del compito sacerdotale. Dal punto di vista personale, c’era poi un’altra motivazione: la fedeltà alle mie origini. Sono entrato in seminario a 10 anni, tempi in cui il seminario era affollato da ragazzi che provenivano per lo più da famiglie povere, figli di contadini, di operai delle miniere ancora in attività; io stesso sono figlio di minatore. Spesso il seminario era l’unico luogo dove poter fare le scuole medie, ancora assenti in tanti paesi della Sardegna di allora (fine anni ’50). Tanti, lasciavano, ma constatavo che tra quanti restavano, non era rara veder sparire l’umiltà propria delle loro origini, l’orgoglio per la dignità dei loro padri e madri che con sacrificio volevano elevare la loro condizione con il mandarli a studiare. Da ragazzi figli di aperai, venivano fuori dei preti membri della casta.
Così, mai apertamente avversato ma diciamo pure tollerato dalla chiesa e – contraddizione — da mia mamma, ma qui entrano le responsabilità di chi proponeva la figura del prete ideale), ho fatto la scelta del lavoro manuale, mentre tutti intorno, nella chiesa e nella società, se potevano lo scansavano.
L’altra motivazione che mi ha spinto è stata la motivazione propriamente teologica dell’incarnazione. Non per convertire a buon mercato, dunque, – anche se spesso mi sentivo dire: “ecco, così devono essere i preti!” – ma per capire meglio la vita della gente, condividendola dal di dentro. Lavoravo in una cooperativa di consumo come magazziniere. Vi ero entrato per la carica sociale dell’iniziativa: riunire tante persone per un progetto da creare insieme. Ero nella stessa città, non distante dalla sede della parrocchia (che non ho mai lasciato: abbiamo abitato nella casa parrocchiale 2 o anche 3 preti insieme, con critiche per lo ‘spreco’ di preti in una parrocchia piccola) e avevo la possibilità di vedere diverse persone nella chiesa e nel punto-vendita. Erano diverse! Il grado di comprensione che l’ambiente clericale consentiva non era lo stesso: quasi una barriera invisibile e specifica – barriere ce ne sono in ogni tipo di comunicazione – colorava il rapporto in senso clericale.
Credo di esserlo ancora, clericale, nei miei modi di pensare: non nel senso che lo voglia, ma che me ne porti dietro una buona dose. Non ho mai voluto lasciare la parrocchia: né quando lavoravo, né ora che ho il compito della Caritas docesana, né quando eravamo in tre, né quando sono rimasto solo a fare il parroco. La parrocchia per me è comunque luogo di frontiera come lo è il lavoro. Vi s’incontra chiunque, dal più quotidiano frequentatore al più episodico richiedente ‘prestazioni’ religiose. È banco di prova, è laboratorio. Ha le sue contraddizioni: è il luogo dell’annuncio del trascendente, dell’ideale, ma è anche il luogo delle mediazioni religiose; dovrebbe essere il luogo della profezia ed è il luogo della struttura…
Non credo di aver vissuto invano l’esperienza diretta del lavoro: un patrimonio umano a cui tengo e che non voglio proprio perdere. Il lavoro mi manca molto: dal punto di vista della condivisione di cui sopra, dal punto di vista della comprensione, dell’8‰… L’ho dovuto lasciare per motivi di salute e — diciamo pure — perché alla fine si è fatto di tutto da parte della nuova dirigenza dell’azienda per farmelo lasciare. In tanti anni ero sempre riuscito a trovar modo di combinare esigenze di lavoro e presenza in parrocchia che, come dicevo, è per me fondamentale (non l’ho voluta lasciare neppure quando mi è stato dato l’incarico Caritas). Tra le altre, accanto all’esperienza del lavoro manuale, il lavoro mi ha fatto toccare con mano altri aspetti rilevanti della realtà: il famoso ‘mercato’, la concorrenza, il consumismo, l’alienazione…
Per anni alcuni rappresentanti non passavano a prendere ordini perché ricattati dagli altri esercenti.
Che tristezza, poi, vedere famiglie povere vittime della pubblicità che espropria del pensiero, della distinzione tra utili e superfluo, della gara sociale per non sfigurare: vedere la gente letteralmente impazzita per le compere di Natale o di Pasqua… In maniera sempre più tangibile poi ho percepito l’alienazione. Non tanto e non solo dal punto di vista economico, quanto quella di percepire nitidamente di essere altro nel lavoro da quello che una persona dovrebbe essere, quella di lavorare senza sapere perché, vittima di un ingranaggio che supera la semplice dimensione aziendale ma fa percepire l’alienazione strutturale della società di oggi. Inizialmente, per dare possibilità di decollare a questa iniziativa di base qual era una cooperativa di consumatori assediata dai commercianti già affermati, con i colleghi di lavoro trovavamo anche legittimo vedere le buste paga non intere e fare qualche ora di lavoro in più. Poi, a collocazione sul mercato raggiunta, l’ingresso nella Coop, le logiche di produttività, l’inventario che prima veniva fatto chiudendo per qualche ora, poi nel giorno di chiusura settimanale e poi la domenica e poi l’orario continuato e poi… non si comprendeva più perché si dovesse sentire ‘propria’ questa nuova realtà tanto lontana dal progetto iniziale. Ora ho saputo l’ultima notizia: i miei ex colleghi hanno conosciuto l’alienazione di essere stati ‘venduti’ ad un’altra catena di distribuzione; cose che prima si sentivano delle industrie vicine, provate ora di persona.
Come dicevo sopra, la parrocchia è fondamentale per me. Cerco di portarvi il senso liberante della fede contro le schiavitù della pratica religiosa. Non è semplice. La via dell’esaudimento di richieste religiose, umanamente spiegabili per motivi di bisogno, di tradizione, di non conduzione o statura di laicato cosciente di ciò che la Parola e il battesimo portano, è anche la più diffusa nella prassi pastorale e andare contro corrente, far percepire la fede come, scelta e rispondente alla dignità della persona è faticoso. Lo paragono al cammino dell’Esodo: molto più facile per il popolo vedere esauditi i propri bisogni che portare il peso della fede e della libertà. È una parrocchia molto piccola, la possibilità d’incontrare le persone è molto ravvicinata, il cammino di crescita non so… Passo, per esempio, per essere molto severo nell’amministrazione dei sacramenti.
Nella Caritas ho avuto modo di acquisire molte cose, di conoscere persone che mi hanno davvero dato tanto. Ho percepito attenzione sincera per la condizione della gente, del mondo, della pace. Certo, ci sono aspetti riduttivi di modo d’intendere le povertà e di agire. Non è assente in talune realtà il protagonismo, il paternalismo, l’autogiustificazione e gratificazione; ma le possibilità, le intuizioni, le esperienze e l’impegno di tanti sono una vera ricchezza. Così come è una ricchezza la lezione quotidiana che i poveri in prima persona danno: ricordano i nostri limiti, l’insensatezza fatta carne di un modo di organizzare la società, le ingiustizie che c’interpellano e provocano a prese di distanza profetiche, le nostre stesse incoerenze.
Cerco di vivere questo incarico facendomene interrogare e con l’intento di portare alle persone che incontro l’inquietudine di superare una religione borghese, di ricordare alle nostre comunità l’insufficienza di una pura religione rituale o di trasmissione scontata di ‘catechismi’ vari: la passione per l’uomo nella fede, insomma. Anche qui, il cammino presenta le asperità ricordate per la parrocchia: molto più facile chiedere una colletta per i profughi del Kosovo o la partecipazione in “buoni riscatto” per il debito estero, che provocare le persone a comprendere le profonde e inique radici, le perverse spirali che generano il debito e gli squilibri crescenti, le guerre ‘umanitarie’.
Dal punto di vista personale, il lavoro nella Caritas mette fortemente alla prova la mia coerenza: meno come stile di vita, maggiormente nell’espormi con franchezza nei confronti della società e della mia chiesa anche se, credo, non sarebbe molto azzeccato e produttivo fare il donchisciotte.
È solo perché credo di non mangiare il pane a ufo nel lavoro quotidiano su questi fronti che mi riesce meno insopportabile l’idea di vivere dell’8‰, ma la mancanza di lavoro mi pesa ugualmente. Anche se non è tale da far svanire la preoccupazione di essere tra i ‘cristiani’ che Bonhoeffer dice “stare accanto a Dio nel suo bisogno” (in Resistenza e Resa : “Cristiani e pagani”).