Comunicato a tutti gli ex operai della Redaelli di Milano Rogoredo

Con profondo cordoglio annuncio che il giorno 20/08/2008 è deceduto don Cesare Sommariva, prete operaio che ha sempre lottato per un mondo più giusto e solidale nei confronti di chi è costantemente ai margini della società. Non a caso ha trascorso più di dieci anni in El Salvador sostenendo, sia spiritualmente sia con l’attività laboriosa, la popolazione locale.
Le esequie sono state celebrate nell’abbazia di Chiaravalle il giorno 21/05/2008, da don Luigi e don Sandro, anch’essi pretioperai, con la presenza di don Virginio Colmegna, Presidente della Caritas e da altri 19 pretioperai. Alla fine dell’Ufficio funebre è stato letto il telegramma inviato dall’arcivescovo di Milano Monsignor Tettamanzi. Don Cesare Sommariva è stato ricordato anche da Salvatore Licata, membro dell’ex consiglio di fabbrica della Redaelli e da alcuni ex operai come Tedeschi Claudio, Cremonesi Achille, Vegro Emilio, Cappelletti Giambattista.

Mi piace ricordare don Cesare Sommariva ricopiando stralci di appunti che ci ha lasciato l’ultimo giorno di attività alla Redaelli…:

«La prima cosa essenziale è la differenza fra lavoro manuale e lavoro intellettuale… ma la cosa più grossa all’inizio è stata soprattutto il fatto del non saper «lavorare» e il fatto che nel lavoro manuale gli errori li vedi subito… Cosa che nel lavoro intellettuale non succede… La terza cosa essenziale è stata il toccar con mano come il lavoro produttivo manuale non è riconosciuto. Nessuno ti ringrazia. Ancor oggi sorrido quando penso che al mattino dopo la fatica della notte mi aspettavo che qualcuno fuori di fabbrica ci battesse le mani… La quinta scoperta è stato l’abisso fra me e gli altri. Un abisso che esige – permette un rapporto che deve essere preciso nel ruolo, nel comportamento, nelle parole. Se lo si riempie con rapporti paternalistici, assistenziali, mistificanti, dirigenziali… è finita. Questo rapporto è quello che chiamo intervento culturale e che più volte ho descritto».

Caro don Cesare è inutile dire il vuoto che lasci, ma credo che la tua testimonianza sia sempre presente e viva tra coloro che ti hanno avuto vicino.


Cappelletti Giambattista

coordinatore ex dipendenti Redaelli


 

Intervista ad Achille Cremonesi,
delegato
Fiom-Cgil alla acciaieria Redaelli di Rogoredo

Vuoi raccontarci qualcuno dei tuoi ricordi più significativi su Cesare?

Per me don Cesare è stato una persona estremamente importante, anche se era più giovane di me. Devo dire che insieme abbiamo passato dei begli anni, che mi hanno lasciato il segno…
Sono ricordi forti, quasi come i ricordi del periodo in cui sono stato in carcere: compivo i 16 anni e ho fatto 5 mesi, dal 23 dicembre del ’44 al 25 aprile ’45: qui a Rogoredo avevamo costituito il Fronte della Gioventù – non quello dei fascisti! Allora il nostro comandante era Eugenio Curiel. Andavamo in giro a fare i disarmi; andavamo nelle farmacie a prendere i medicinali per mandarli in montagna… Ma il 24 novembre del ’44 c’è stato uno scontro a fuoco a porta Romana e uno di noi è stato ferito, portato in ospedale e torturato: ha fatto i nomi… Noi siamo dovuti scappare e siamo finiti a Sala Comacina, dove però ci hanno attaccati e imprigionati; eravamo due distaccamenti, una quarantina in tutto. Siamo poi stati processati a Como: cinque sono stati fucilati, altri hanno preso l’ergastolo, a me hanno dato 10 anni. Siamo usciti il 24 aprile ’45; poi mi hanno beccato ancora e portato dentro, ma sono riuscito a scappare.

È difficile parlare di don Cesare, perché era un personaggio tutto particolare. Aveva la capacità estremamente importante di affrontare tutti i casi che gli venivano sottoposti; cioè: capitava un caso, era in grado in quel momento di pensarci: si metteva lì a pensare con le mani così e riusciva sempre a trovare una soluzione al problema che gli ponevano. Perché lui aveva la grande dote di riconoscere qual era il problema e di trovare la soluzione.
Dentro la fabbrica aveva poi la sua particolarità, perché lui era visto ancora come il prete, non come un lavoratore qualunque. Perché quando avevamo e assemblea e lui interveniva, era come se andasse a celebrare messa; se tu gli facevi una fotografia, come celebrava la messa e come andava al microfono a parlare, aveva l’identico modo di essere e l’identico modo di fare.
Poi, nel periodo dei cinque anni di lotta che abbiamo vissuto, dal 10 ottobre ’79 al 6 aprile dell’84, cioè alla chiusura della fabbrica, ha dimostrato la grande capacità di non scontrarsi mai con i compagni e gli amici del consiglio di fabbrica; mentre aveva sempre qualche critica da fare ai funzionari del sindacato e ai politici, e alle volte anche con ragione, come ha poi scritto nel suo libro Le due morali.

Io posso dire che non ha mai posto grossi problemi all’organismo sindacale di fabbrica, che era una cosa diversa dal sindacato esterno. Perché in fabbrica si viveva la quotidianità, i momenti bui… Ad esempio, i momenti della cassa integrazione: lui alle volte si prestava a fare cassa integrazione quando era messo nell’ordine di servizio di quelli che dovevano lavorare, piuttosto di vedere a casa un padre di famiglia, andava lui in cassa integrazione e faceva lavorare quel padre di famiglia. Era molto difficile quel periodo, perché la cassa integrazione era una roba brutta: tu vedevi quando venivano fuori gli elenchi, perché alle volte si faceva a turno, ma altre volte no, perché anche i capi avevano i loro prediletti… La cassa integrazione ha posto una serie di questioni e di frizioni anche tra amici e amici; ma lui ha sempre cercato…

Mi ricordo un giorno che mi ha chiamato in consiglio fabbrica; per telefono mi aveva detto che c’era un po’ di maretta; c’erano là tutti i delegati che erano demoralizzati; uno addirittura piangeva. «Ehi , ragazzi, sveglia! – gli ho detto – perché se ci facciamo vedere in queste condizioni dagli operai, è finita!». Lui era lì in quel momento; vedendoli, avrebbe potuto inventarsi con loro qualche altra iniziativa; invece ha chiamato me perché nel suo intimo pensava che tutt’e due insieme saremmo riusciti a calmarli e a far loro capire che non era il momento di abbattersi, ma di reagire uniti.
Mi ricordo che un pomeriggio di nebbia, dopo un’assemblea, dovevamo partire per Roma… e non avevamo soldi: don Cesare con altri tre o quattro è andato in giro per la fabbrica con la bandiera dei metalmeccanici: e in un quarto d’ora ha riempito la bandiera di soldi.
Quando abbiamo fatto gli scioperi e non c’era da mangiare, si faceva la colletta e andavamo fuori insieme a comprare la roba…

Un giorno in consiglio di fabbrica ci siamo fermati io e lui per stilare un comunicato per l’assemblea che stava iniziando; il segretario dei metalmeccanici che doveva fare l’assemblea, ci chiede: «voi non venite?», aggiungendomi poi una frase: «Ma non sai che…?», per dire che era meglio non fidarsi di don Cesare; io gli ho risposto: «Non preoccuparti, non stiamo preparando un comunicato contro il sindacato, stiamo preparando un comunicato da leggere in assemblea». C’era sempre questa diffidenza nei suoi confronti; qualcuno diceva che in Alfa Romeo lui aveva fiancheggiato alcuni che… Questo io non l’ho appurato, perché non mi interessava; a me non interessava il suo passato; qui i suoi comportamenti erano di un certo tipo, aveva un rapporto serio con il consiglio di fabbrica, aveva un bel rapporto con i giovani… anche i capi lo temevano e lo rispettavano…

Quella volta che ci ha accompagnato dal cardinal Martini, ci ha fatto avere l’appuntamento lui; e a noi tutti che siamo andati, devo dire che Martini ci ha fatto un’impressione stupenda. Io sono rimasto veramente colpito dal modo in cui Martini si è presentato, dal modo in cui ci ha ricevuti, dal modo in cui ci ha ascoltato. Il sindacalista che era con noi, a un certo punto gli ha detto in milanese: «Quando andrà a benedire la metropolitana, la linea 3, prenda in mano l’asperges e glielo dia sulle orecchie a quei politici lì»; è stata una risata di quelle!…
Poi abbiamo avuto rapporti con il gruppo dei preti della pastorale del lavoro: ci hanno dato una mano, non possiamo negarlo; per quello che han potuto fare… perché non c’era granché da fare, era stato già deciso di chiudere la Redaelli: io ho poi scoperto nell’84 che due anni prima l’architetto Patrizia Giannelli aveva avuto l’incarico dall’amministrazione comunale di presentare il primo progetto di riedificazione dell’area Redaelli.

Non è che io sono un frequentatore di chiese; vado e vengo… però hanno sempre in un certo qual modo dato almeno un aiuto morale ai lavoratori della Redaelli. Perché devi tener conto che noi avevamo parecchi lavoratori della zona del sud lodigiano; e queste plaghe sono prettamente cattoliche.
All’interno della fabbrica noi della Cgil avevamo più di mille iscritti, di cui più di 300 con la tessera del Pci; poi c’erano 122 iscritti alla Cisl e 9 o 10 alla Uil. Cioè gli iscritti alla Fiom-Cgil erano il 93%; ma io scommetto che il 30-35% di loro, al proprio paese votava per la Dc. E don Cesare questa roba l’aveva capita. Ecco perché aveva instaurato un certo modo di essere con me e con la gente. E a volte era in grado anche di intervenire su qualcuno dei personaggi del sindacato che invece non volevano capire; tant’è vero che Le due morali descrivono una lotta continua…

Ma c’è stata qualche volta che Cesare ti ha fatto arrabbiare?

Be’, c’è stata una volta che non eravamo d’accordo: è stato quando siamo usciti dall’Assolombarda, una mattina: abbiamo poi fatto il consiglio di fabbrica e lui aveva spinto qualcuno dei delegati giovani per fare l’occupazione; sarebbe stato un segnale eclatante, ma io gli ho detto: «Guarda Cesare che noi rischiamo grosso, perché quando questi vanno a casa, dopo due, tre quattro giorni d’occupazione c’è un altro clima…». E infatti, a un certo punto era parecchia la gente che non teneva più e cominciava a fare pressione…
Però difficilmente c’era motivo di arrabbiarsi con lui, perché non ti dava neanche lo spunto. Poi lui ha sempre tenuto un comportamento corretto nei confronti di tutti; faceva parte della sua natura. Lui poteva fare il signore, con i soldi che aveva… mentre invece veniva a mangiare in pieno inverno con su i sandali e le pezze ai piedi; e io gli dicevo in dialetto: «adesso ti do io le calze!».
C’è stato poi quel pomeriggio che siamo andati io e lui alla Rai in corso Sempione, dove padre David Turoldo ci ha fatto parlare alla sua trasmissione per circa un’ora. E abbiamo anche ricevuto parecchie telefonate in cui ci ponevano delle domande. Un’altra volta siamo andati a fare una trasmissione sulla lotta della Redaelli alla radio della diocesi.
E però non sono mai riuscito a capire (e ne ho parlato anche con lui) perché attorno alla nostra lotta c’era un silenzio quasi assoluto. Parlavano della lotta dei lavoratori della Magneti Marelli, della Falck, del TIBB; ma la nostra lotta sembrava che non esistesse…

[L’intervista ad Achille Cremonesi si interrompe qui: le condizioni di salute di sua moglie, aggravatesi improvvisamente, ci hanno obbligato a un rinvio. Ma Achille ha ancora troppe cose da raccontarci…]


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