Pensare Dio nel nuovo disordine mondiale


 

Dieci anni fa il gruppo lombardo dei PO ha provato a confrontarsi sulla fede e sull’immagine di Dio che ne emerge. Nel frattempo sono trascorsi anni densi, contrassegnati da una certa “febbre apocalittica”, misurata sia sulla scena dell’anima, suggestionata da attese e paure scatenate dal cambio di millennio, sia sulla scena storica, dominata dalla bestia insaziabile del potere globale. Dieci anni all’insegna della disperazione umana e delle caricature divine .
Quanto a me, sul fronte personale, i cambiamenti, pur non apocalittici (!), sono stati altrettanto accelerati e decisivi. Per dare un’idea di quanto accaduto, dovrei tentare di stilare un approfondito bilancio, un po’ come fa Bonhoeffer nel Prologo di Resistenza e resa, intitolato “Dieci anni dopo”. Per ora non sono in grado. Mi limiterò ad alcuni accenni sintetici, più riflessivi che narrativi, più personali che collettivi, a proposito di ciò che è venuto a segnare il mio cammino di fede. A subire un profondo cambiamento è stato innanzitutto il lavoro: il passaggio dalla piccola fabbrica ad una cooperativa di produzione. Ma soprattutto la condizione affettiva: da celibe a coniugato, con conseguente sospensione del ministero presbiterale.
Con il lavoro è stato messo in discussione un certo linguaggio ecclesiastico: il modo usuale con cui si nomina Dio negli ambienti religiosi, in fabbrica “muore in bocca”…; e in una cooperativa di solidarietà sociale emerge tutta l’ambiguità e la strumentalità dei  riferimenti religiosi, che rischiano di essere impropriamente usati per giustificare un impresa laica…
Nella relazione affettiva viene messo in crisi e svuotato lo stesso linguaggio teologico. Almeno per me è stato così. Nella condizione di celibe gli affetti trovavano espressione soprattutto nella preghiera, luogo dell’intimità e della relazione amorosa. Ora quel linguaggio è stato come dirottato su un altro interlocutore ed in spazi diversi…
Inoltre, l’interruzione del compito di presiedere l’azione liturgica di una comunità ha comportato il venir meno di quel particolare “contenitore” che è l’anno liturgico, con il suo andamento circolare, armonizzante…

Cambiamenti radicali, cioè sradicamenti! Cosa resta quando vengono meno il linguaggio ecclesiale, liturgico e teologico? Quali conseguenze comportano simili interruzioni?
A me è restata la Bibbia, come “patria portatile” nei molti cambiamenti di questi anni. Essa interroga, indica, suggerisce, contesta, consola, illumina, delude: è interlocutrice viva, con cui stabilire rapporti schietti, a tutto campo.
Con le sue parole ho detto e continuo a dire la passione per il sogno di Dio, il suo regno, ed esprimo pure il divino che prende forma negli affetti e nel perdere la testa per qualcuno…
La riconosco come mia lingua materna con cui, da sempre, vedo e dico il mondo. Una lingua materna non si sceglie; e, una volta appresa, non la si può dimenticare. Certo, c’è modo e modo di riconoscere il proprio retroterra culturale. Io sto dentro una tradizione discutendola.
Mi resta la Bibbia, con la sua multiforme ricchezza e la sua scandalosa poca attendibilità!

Quanto alle conseguenze esistenziali di tali modificazioni del mio vissuto, ne vorrei indicare due, di segno opposto. Innanzitutto lo stupore e l’entusiasmo per la vita che spiazza, sorprende, apre prospettive impensate. Certo, un innamoramento è un po’ come un’imboscata: avviene quando meno te l’aspetti e provoca ferite e disorientamenti… Ma si tratta di una felice imboscata, da cui non ho voluto difendermi; di una grazia che, mentre disorienta, pure ri-orienta. La fede non esce indenne da un evento di tal portata: ne è trasfigurata, pur nella continuità di un amore di fondo per la “vita in abbondanza”.
Ma c’è anche un’altra conseguenza, forse inevitabile ombra di ogni passione giocata nella precarietà della storia. E’ la sensazione che “niente tiene”! Non penso sia una conseguenza necessaria del venir meno di un certo assetto di vita. Ci sono persone che lasciano una condizione per abbracciarne entusiasticamente un’altra. Io mi trovo a sperimentare contemporaneamente passione e disincanto; fede in Dio e nella bontà divina della sua creazione e, allo stesso tempo, quella disillusione alla Qoelet che mette in luce la vanità anche delle grandi passioni: “niente tiene”.
Questa ultima sensazione è a rischio di cinismo. Un cinismo stabilmente accovacciato alla porta, nei cui confronti non è facile opporre resistenza! Penso che qui si annidi una sfida decisiva per la mia poca fede: rischiare una fedeltà nella consapevolezza della precarietà e mutevolezza del vivere…
Provo ad esprimere quanto detto con un altro linguaggio, quello dello sguardo, aggiungendo, alla fine, alcune domande che rimangono necessariamente aperte.
Mi convinco sempre più che ciò che conta non è tanto, o almeno non solo, il cosa si guarda, quanto piuttosto il tipo di sguardo che si accende sulla realtà.
Come s’inquadra la realtà? L’inquadratura è questione di cornici, di punti di vista…
Il gioco di cornici è decisivo nella Bibbia. Un brano acquista un significato diverso se letto isolatamente o se collocato nel contesto prossimo del libro da cui è tratto ed in quello remoto del Libro dei libri. Le diverse cornici fanno sì che, leggendo la Scrittura, non si abbia la sensazione di una pluralità di testi giustapposti: uno accanto all’altro; bensì di testi che si interpellano a diversi livelli: uno dentro l’altro. Ora, tale gioco di cornici vale anche nei confronti della Bibbia stessa. Le inquadrature del testo biblico sono molteplici, tante quanti sono i suoi lettori.

Mi sembra di poter leggere i cambiamenti intercorsi nella mia vita negli ultimi 10 anni come cambiamenti di cornice attorno al quadro biblico, che in tal modo ha assunto significati diversi.
Ma è proprio la pluralità di incorniciature a produrre la sensazione che “niente tiene”. Una sensazione fatalmente figlia di questi tempi post-moderni, dove tutto viene assemblato e decostruito con estrema leggerezza? Altrove ho provato ad esprimere come “tragico” il tipo di fede da me sperimentato (vedi il n. 47-48 della nostra rivista). La fede tragica, che aderisce con passione all’annuncio di salvezza, si trova costretta, suo malgrado, a causa di un’evidenza storica, a dover decostruire un percorso che giunge troppo facilmente alla meta. Passione e disincanto abitano, uno dentro l’altra, un tale tipo di fede. Forse, il paradigma tragico potrebbe servire a smarcarsi dalla deriva dell’equivalenza di ogni cornice, coniugando “a caro prezzo” l’instabile pluralità storica, senza disinvolture ironiche o ciniche…
Mi dico: “niente tiene”; ma tieni tu! Tiene il codice con cui dici il mondo! Tengono alcune relazioni vitali… E’ importante distinguere tra ciò che è nel quadro e ciò che è cornice. Sono le cornici che non reggono il corso di una vita. E’ inevitabile? Quale esercizio critico di controllo operare sui cambiamenti di cornice affinché non si confondano con i cambiamenti di umore, le lune, gli abbagli…?
Quale Dio si incontra su questo territorio? Quale fedeltà gli si può offrire?

Angelo Reginato


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