Ci scrivono


Marco lavora come amministrativo nell’ufficio di un noto professionista di Palermo. Non ha mai visto un contratto di lavoro, nemmeno di quelli definiti “atipici”. Ha trent’anni, guadagna 500 euro al mese ed ha smesso di pensare al suo futuro. Khadija è una giovane operaia maghrebina, confeziona abiti in una fabbrica, delocalizzata in Marocco, di una multinazionale dell’abbigliamento. Guadagna un dollaro al giorno per 12 ore di lavoro filate. Sogna l’Occidente e una vita degna di questo nome. Goran è un ragazzo rumeno, lavora con qualsiasi tempo in un campo di pomodori della Puglia. Guadagna 20 euro al giorno. Le giornate non finiscono mai. È venuto in Italia sognando 1’ America. Adesso ha smesso di sognare. Laura è una casalinga che ha avuto la sfortuna di nascere nella città sbagliata. Ha un malore, viene portata in ospedale e poi da lì rimpallata per ore da un nosocomio all’altro. Nessuno la visita, muore qualche ora dopo. Anche Maria è nata nel posto sbagliato. Da suo marito ha contratto l’Aids. Ma le è negata ogni cura. Nel suo Paese, sprofondato nell’Africa nera, la Sanità è un diritto per pochi ricchi e in ogni caso la cura costerebbe troppo. Ciro è un bambino di Scampia. A scuola ci è andato solo per poco tempo, poi la famiglia lo ha messo sulla strada e gli ha detto di cercarsi un lavoro. Ma sulla strada ha incontrato solo la camorra che un lavoro glielo ha dato. Adesso fa il corriere della droga.
E di esempi come quelli citati sopra ognuno di noi ne potrebbe fare a centinaia, centinaia di migliaia, anzi a milioni. Siamo ormai consapevoli, infatti, che viviamo in un mondo diseguale. Con la fine della guerra fredda abbiamo globalizzato l’economia, le mafie, ma non i diritti. E da qui, a mio avviso, dobbiamo ripartire, anche costruire una risposta politica diversa e nuova anche per il nostro Paese e il nostro Meridione.
Una volta si pensava che la crescita economica avrebbe alla fine avvantaggiato i poveri, per cui bastava semplicemente pazientare e attendere. Ma per molti la globalizzazione si è trasformata in un boomerang dalle conseguenze catastrofiche, non si è più convinti che ciò che è buono per l’economia è necessariamente vantaggioso per la popolazione. Come drammaticamente dimostra la distanza che sempre più va aumentando tra i Forum economici mondiali e i Forum sociali mondiali.
I Vertici mondiali sullo sviluppo sostenibile, che si susseguono secondo calendario, vedono riuniti al capezzale di un pianeta in gravissime condizioni di salute, i rappresentanti di tutti i Paesi del mondo che si affannano in estenuanti trattative per trovare le medicine adatte. Ma è un affanno solo verbale: capi di Stato e di governo, ministri sono disposti al massimo a dare una sommaria verniciatura di verde — di «sostenibilità» — alle loro politiche liberiste, quel tanto che è richiesto proprio per continuare più o meno indisturbati a portarle avanti. Di due entità indissolubili è fatta la sostenibilità; i diritti civili, sociali, culturali ed economici e i diritti ecologici, ma è solo l’urgenza del problema ecologico che ci fa intravedere il segnale di un possibile cambiamento.
Il nostro modo di vivere, di consumare, di comportarci, decide la velocità del degrado entropico (misura dello stato del disordine di un sistema), la velocità con cui viene dissipata l’energia utile e il periodo di sopravvivenza della specie umana. Si arriva così al concetto di sostenibi1ità, intesa come l’insieme di relazioni tra le attività umane, la loro dinamica e la biosfera, con i suoi processi generalmente più lenti. Queste relazioni devono essere tali da permettere alla vita umana di continuare, agli individui di soddisfare i loro bisogni e alle diverse culture di svilupparsi, ma in modo tale che le variazioni apportate alla natura dalle attività umane stiano entro certi limiti così da non distruggere il contesto biofisico globale. Se riusciremo ad arrivare a un’economia da equilibrio sostenibile, come indicato da Herman Daly, le future generazioni potranno avere almeno le stesse opportunità che la nostra generazione ha avuto: è un rapporto tra economia ed ecologia, in gran parte ancora da costruire, che passa dalla strada dell’equilibrio sostenibile.
Il Summit della Terra, tenutosi a Rio de Janeiro nel 1992, aveva rappresentato un grande salto di qualità nella presa di coscienza dell’importanza prioritaria delle questioni ambientali, affrontando le emergenze legate all’ambiente e la crisi dello sviluppo, attraverso la definizione di un’agenda organica di impegni ed obiettivi, la cosiddetta Agenda 21, e la messa a punto di due Convenzioni internazionali, sui cambiamenti climatici e sulla biodiversità.
In questi ultimi anni, la situazione è notevolmente peggiorata. Secondo alcuni dei dati riportati dal WWF, il tasso di deforestazione a livello globale era già, negli anni novanta, di 14,6 milioni di ettari annui e le emissioni di carbonio dovute all’utilizzo di combustibili fossili sono passate dai quasi 6 miliardi di tonnellate del ‘92 ad oltre 6 miliardi e 300 milioni. Attualmente la specie umana si appropria del 40% del prodotto fotosintetico netto, ossia di tutta l’energia che fornisce il sole e che serve per la vita.
Gli accordi siglati al vertice di Johannesburg apparivano a Legambiente «un grande bluff»: basti pensare all’accordo sull’energia, che ingloba nelle fonti rinnovabili l’energia prodotta dalle grandi dighe e lo sfruttamento non sostenibile delle biomasse, con buona pace delle Ong che appoggiavano invece la proposta brasiliana del 10% di fonti realmente rinnovabili (energia solare, geotermica ed eolica) entro il 2012. E anche l’accordo sulla biodiversità, con un generico impegno a ridurre entro 8 anni il ritmo di scomparsa di animali e piante, rappresenta un passo indietro rispetto all’ultima Convenzione.
Non si può continuare a fare economia a livello così suicida. La ribellione della natura ci farà prendere coscienza della nostra stupidità economica. Prima del Summit di Rio, Giorgio Nebbia concludeva un suo saggio (Lo sviluppo sostenibile, Ed. Cultura della Pace, Firenze 1991) con un’importante osservazione: «Occorre avviare un grande movimento di liberazione per sconfiggere le ingiustizie fra gli esseri umani e con la natura, una nuova protesta per la sopravvivenza capace di farci passare dalla ideologia della crescita a quella dello sviluppo. Nessuno ci salverà se non le nostre mani, il nostro senso di responsabilità verso le generazioni future, verso il “prossimo del futuro” di cui non conosceremo mai il volto, ma cui la vita, la cui felicità dipendono da quello che noi faremo o non faremo domani e nei decenni futuri».
Ora se ci spostiamo dai diritti ambientali a quelli umani, scivoliamo da una situazione tragica ad una situazione catastrofica.
Sempre per restare solamente in questi ultimi anni, la popolazione è nel frattempo aumentata di oltre 770 milioni di individui e raggiungerà, nel 2043, quota 9 miliardi. Di questi, 2,3 miliardi vivono in Paesi a rischio di scarsità idrica e si prevede che nel 2025 saranno 3,4 miliardi. E intanto il flusso finanziario dell’assistenza allo sviluppo dei Paesi ricchi verso quelli poveri è sceso dallo 0,35% del Pil del ‘92 allo 0,22%, nonostante venga riproposto puntualmente ad ogni vertice internazionale l’obiettivo minimo dello 0,7%.
A questo punto, occorre fare una piccola puntualizzazione sul rapporto tra sviluppo e diritti umani.
Un numero crescente di esperti e Paesi vogliono un approccio allo sviluppo basato sui diritti umani che non si limitano alle libertà civili e politiche (come la libertà di espressione o il diritto di non essere incarcerato senza un debito processo). Essi includono anche i diritti sociali, economici e culturali, definiti «indivisibili» dal Vertice dei capi mondiali tenuto si a Vienna nel ‘96. Nelle scienze sociali questi diritti vengono detti bisogni fondamentali e molti Paesi valutano il loro avanzamento verso la riduzione della povertà in base alla percentuale di persone che non riescono a soddisfare tre o più bisogni fondamentali, per esempio: accesso all’acqua potabile, istruzione primaria, alloggio decoroso o alimentazione sufficiente.
La «soglia di povertà» così definita è utile per identificare chi sono e dove sono i poveri e quindi facilita le decisioni in materia di politiche sociali e la valutazione della loro efficacia. Al tempo stesso, la definizione di alcuni bisogni fondamentali, per esempio le caratteristiche di un alloggio decoroso o la qualità dell’istruzione primaria, varia da Paese a Paese. La misurazione dei bisogni fondamentali richiede strumenti statistici piuttosto sofisticati e costose indagini che ancora mancano in molti Paesi. Così, per consentire le comparazioni, la Banca Mondiale, un’istituzione multilaterale che presta annualmente oltre 30 miliardi di dollari ai Paesi in via di sviluppo, pubblica regolari stime sul numero di persone che vive con meno di uno o due dollari al giorno. Basandosi su queste stime, è stato calcolato che, nel 2000, 1,3 miliardi di persone (grosso modo un abitante del pianeta su cinque) vivevano in condizioni di povertà assoluta. Nel settembre del 2000 la Dichiarazione del Millennio dell’Assemblea generale dell’ONU ha fissato come obiettivo il dimezzamento, entro il 2015, della percentuale della popolazione mondiale con un reddito inferiore a un dollaro al giorno e della percentuale della popolazione che soffre la fame; il dimezzamento, entro la stessa data, della percentuale della popolazione che non ha accesso all’acqua potabile. Tuttavia, preso alla lettera, l’obiettivo è insignificante perché, pur realizzando un dimezzamento della percentuale delle persone che vivono in condizioni di povertà, nel 2015 900 milioni di persone continueranno a spendere meno di un dollaro al giorno, quando, secondo i dati pubblicati dalla stessa Banca Mondiale, in molti Paesi la soglia di povertà è molto più alta di un dollaro al giorno. Il divario fra la soglia di un dollaro al giorno e la soddisfazione dei bisogni fondamentali, misurata nei pochi Paesi per i quali esistono dati, ci induce ad affermare che «oltre la metà della popolazione vive in condizioni di povertà»: e tale affermazione è più vicina alla realtà rispetto al dato abitualmente ripreso dai mezzi di comunicazione sociale (1,3 miliardi di persone). Il compito di «liberare l’intera razza umana dall’indigenza» non sarebbe una realizzazione di poco conto. Ma occorre dire che si tratta di un traguardo che si può conseguire ed ottenere con la ricchezza e le conoscenze disponibili già adesso. Ciò lo rende «un imperativo etico, sociale, politico ed economico dell’umanità».
Come ha detto Mary Robinson «la povertà assoluta è una negazione dei diritti umani», un enunciato consolidato dallo studio della Banca Mondiale che mostra, inoltre, un collegamento fra diritti umani e povertà, quando afferma: «Con sorprendente coincidenza in tutte le parti del mondo i poveri sentono di essere senza potere e senza voce». Un numero crescente di esperti in materie giuridiche e legislative concordano sulla necessità di definire la povertà in termini di negazione dei diritti e della capacità di accesso alle risorse. Ciò concorda con le misure di lotta alla povertà basate sulla soddisfazione dei bisogni fondamentali e con gli obiettivi concordati a livello internazionale, ad esempio in materia di malnutrizione, mortalità infantile, accesso all’istruzione, acqua potabile.
Le leggi sui diritti umani, a livello internazionale e nazionale, sono sempre più in conflitto con le regole dell’economia mondiale in via di globalizzazione. In concreto ciò significa che, quando la difesa dei diritti umani entra in conflitto con gli interessi economici, l’esito è incerto. La violazione delle regole commerciali comporta pesanti sanzioni economiche, mentre le violazioni dei diritti umani non possono invocare analoghe misure di rispetto.
Non possiamo a questo punto non fare memoria della nostra storia recente.
Lo sviluppo classicamente inteso riguardava il trasferimento di risorse, di conoscenze, di denaro dal Nord al Sud. Tutti sanno che questa operazione non ha funzionato, perché se alla fine del diciottesimo secolo la differenza tra nord e sud era di 2 a 1, dopo la seconda guerra mondiale essa è salita da 30/40 a 1. Oggi è di 70 a 1. Su questo tipo di sviluppo occorre fare una croce sopra perché non ha prodotto niente di positivo. Ha portato una struttura piramidale dove 1/3 della popolazione può godere dei benefici del sistema e i 2/3 ne sono esclusi. Un sistema che continua a far affluire sempre più le ricchezze al vertice. Ogni anno la rivista Forbes negli Stati Uniti pubblica la lista dei miliardari (400/500 nomi). Il valore totale della loro ricchezza è uguale alla ricchezza, in termini di prodotto interno lordo, di più di 2 miliardi e mezzo di uomini. Ogni anno il numero dei privilegiati è in aumento e proporzionalmente, quindi, si appropria di una fetta sempre più consistente di ricchezza. Tutto questo attivismo delle élite e la capacità di reprimere sempre più la gente che si trova in fondo alla piramide non è un incidente. È frutto di un’ideologia che oggi pare normale, mentre 50 anni fa sarebbe stata perfettamente anomala. Dopo la guerra tutti erano keynesiani o marxisti; sarebbe stato impensabile essere liberisti secondo questo schema. La destra ha capito la lezione gramsciana dell’egemonia culturale e ha plasmato una cultura che rende accettabile un mondo in cui 2/3 delle persone sono escluse. Negli Stati Uniti si spendono milioni di dollari per sostenere riviste, per finanziare intellettuali che creano un clima ideologico in cui questa società dell’esclusione diventi normale.
In tutte le civiltà umane, sin dall’inizio della storia, è sempre stata la società a decidere la forma dell’economia. Forse si trattava di scelte orribili, come la schiavitù, ad esempio, o altri tipi di organizzazione sociale che adesso noi non condividiamo, ma è sempre stata la società che, per i suoi bisogni identificati, per i suoi ideali, ha deciso come organizzare l’economia. Oggi abbiamo capovolto la situazione e l’economia ha il ruolo di decidere l’organizzazione della società. Quando si permette all’economia liberale di guidare la società si producono questi effetti: le ricchezze vanno dal basso verso l’alto, crescono le disuguaglianze, ci si abitua a comprare e vendere tutto (vedi recenti scandali di traffico di organi umani).
Parafrasando qualcuno si potrebbe dire: l’economia è un problema troppo serio per lasciarlo totalmente nelle mani degli economisti, anche se viviamo in un momento storico in cui tutti sembrerebbero riconoscere la centralità dell’economia. Non dimentichiamo, tuttavia, che quando parliamo di economia ci riferiamo ad una serie di soluzioni tecniche che si configurano come mezzi. La scelta dei fini appartiene alla politica e alla capacità di delineare un orizzonte di valori condivisi, fondati sul riconoscimento dei diritti inviolabili della persona.

Davide Romano


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