10 giugno 2017 / Bergamo
TERRA E POPOLI. FUTURO PROSSIMO
seconda relazione
Ciò che segue è una sintesi in forma orale dell’articolo di L. Mazzinghi, «”Dominate la terra!”: la vocazione dell’uomo e il problema ecologico», in Notiziario dell’Ufficio Nazionale per i Problemi Sociali e il Lavoro (aprile 2008); Quaderni della Segreteria Generale della CEI, XII (2008) 11-36; rimando a questo testo per una trattazione più completa e per i necessari riferimenti bibliografici.
Le chiese cristiane e le Sacre Scritture di fronte alla crisi ecologica
Se contro di me grida la mia terra
e i suoi solchi piangono con essa;
se ho mangiato il suo frutto senza pagare
e ho fatto sospirare dalla fame i suoi coltivatori,
in luogo di frumento, getti spine,
ed erbaccia al posto dell’orzo.
Così, nel libro di Giobbe, grida la terra violentata dall’ingiustizia umana, denunciando lo sfruttamento ingiusto al quale è stata sottoposta.
Nel 1967 un professore dell’Università di Los Angeles, Lynn White, pubblicò un articolo divenuto poi celebre: “The Historical Roots of our Ecological Crisis”. White sosteneva che la responsabilità maggiore della crisi ecologica (sulla quale negli anni Sessanta si iniziava appena a riflettere) ricade sulle chiese cristiane, colpevoli di aver creato, attraverso il dualismo tra uomo e natura, l’idea che l’uomo possa dominare sulla natura stessa sino a distruggerla.
“Il cristianesimo porta un pesante fardello di colpa”, scriveva White, dal momento che, nella sua opinione, l’intera nostra scienza e tecnologia sono profondamente intrise “ con una arroganza cristiano-ortodossa nei confronti della natura”. Il cristianesimo, sostanzialmente antropocentrico, sarebbe privo per sua stessa natura di sensibilità ecologica; su questo punto possiamo ricordare le durissime accuse di Eugen Drewermann. E’ del resto ben noto come i movimenti ecologisti più attivi siano spesso molto lontani dalla fede cristiana; basti pensare alle posizioni della cosiddetta deep ecology.
D’altra parte, le chiese cristiane faticano ancora a produrre una teologia “ecologica” integrata nel quadro di una solida teologia della creazione; il più attivo su questo fronte è stato il patriarca Bartolomeo I. La chiesa cattolica si è mossa intorno al tema ecologico solo nell’ultima fase del pontificato di Giovanni Paolo II, poi con Benedetto XVI e adesso con la Laudato Si’ di Francesco. Non mi fermerò tuttavia sulle posizioni del magistero cattolico, quanto piuttosto sulla Bibbia – come fa del resto la Laudato Sì.
L’esegeta è consapevole che i testi biblici non possono rispondere a domande che essi non presuppongono e che devono essere interpretati in primo luogo alla luce dell’ambiente nel quale sono nati. Già nel 1972, James Barr rispondendo a Lynn White osservava che il vero problema era piuttosto il sapersi rivolgere attentamente alle Scritture e chiedersi se esse davvero sottostanno alle accuse che White muoveva al cristianesimo e alla sua denunziata insensibilità ecologica, e se veramente esse ne costituiscano la radice. Secondo Barr, il vero motore dell’atteggiamento di dominio e sfruttamento del pianeta che caratterizza l’occidente non sarebbe tanto la tradizione ebraico-cristiana, quanto l’antropocentrismo razionale che affonda le sue radici nel pensiero greco. Il nostro obiettivo è qui più semplice e certamente più limitato: vogliamo interrogare i testi genesiaci relativi al dominium terrae (senza chiudersi ad alcuni apporti neotestamentari) e cercare di comprendere se tali testi giustifichino realmente un atteggiamento di sfruttamento del creato da parte dell’umanità. Diciamo subito che non è mia intenzione esercitare una difesa d’ufficio dei testi biblici, magari puntando sul fatto che essi non sono stati pienamente recepiti nella tradizione teologica, così come afferma con molta chiarezza Jürgen Moltmann.
E’ evidente che non è possibile chiedere ai testi biblici una risposta diretta a un problema che non è il loro. Il compito dell’esegeta è quello di mettere in luce in modo il più obiettivo possibile il senso dei testi e allo stesso tempo tentare di mostrarne tutta l’attualità per la comunità credente.
Il “dominio” dell’uomo: Genesi 1,26-28
Il nostro punto di partenza non può che essere il testo di Gen 1. Qui, nel contesto della creazione dell’uomo, troviamo il riferimento più noto al dominium terrae. Rileggo il testo di Gen 1,26-28 in una mia traduzione:
E Dio disse: “Facciamo l’essere umano come nostra immagine, secondo la nostra somiglianza, perché domini sui pesci del mare e sui volatili del cielo, sul bestiame, su tutta la terra e su tutti i rettili che strisciano sulla terra”. Dio creò l’essere umano come sua immagine, come immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò. Quindi li benedisse e disse loro: “Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela e dominate sui pesci del mare, sui volatili del cielo, sul bestiame e su ogni essere vivente che striscia sulla terra”.
Immagine e somiglianza
Mi limito ad alcune osservazioni fondamentali. Notiamo subito come la vocazione dell’uomo nei confronti del creato (ovvero il “dominio”) è strettamente legata all’essere “immagine e somiglianza” di Dio. La discussione esegetica su questo punto è stata molto lunga. Diciamo subito che l’espressione “immagine e somiglianza” ha un valore polivalente ed è difficile da spiegare con precisione. Eppure il testo ci offre alcuni agganci su cui costruire una lettura plausibile.
Il v. 26 ci suggerisce che l’uomo, in quanto “immagine” di Dio, è proprio per questo motivo “dominatore” del creato, degli animali e della terra, diverso anche dagli stessi astri che, alla luce di Gen 1,16, anch’essi “dominano” in qualche misura sul creato (ma il testo ebraico utilizza per il “dominio” degli astri un verbo diverso). Notando questa connessione tra “immagine” e “dominio”, gli esegeti hanno cercato di dimostrare come, con il tema del “dominare”, il racconto genesiaco intenda riferirsi a un’idea diffusa nell’Oriente Antico in relazione al re, considerato “immagine di Dio” e quindi rappresentante divino nel mondo. Tale idea verrebbe qui resa “democratica” ed estesa ad ogni essere umano considerato “immagine di Dio” e dunque dominatore del creato e, in tal senso, vero e proprio rappresentante di Dio sulla terra.
Questa lettura può essere ulteriormente precisata: in Gen 5,1-3 il tema dell’essere immagine implica anche una certa relazione di paternità; Adamo, infatti, trasmette ai suoi figli il suo essere immagine e somiglianza di Dio. Così l’essere umano, in quanto “immagine e somiglianza” di Dio, ha con il suo Signore un rapporto di figliolanza; per essere realmente “immagine di Dio”, dunque, l’essere umano deve comportarsi da figlio di Dio. Va anche notato come il testo genesiaco ci rivela che gli uomini sono gli unici esseri creati ai quali Dio parla (cf. il v. 28: “Dio disse loro”); questa osservazione ci conduce ad ampliare la portata dell’essere “immagine”: l’uomo è posto infatti in una relazione personale e diretta con il suo creatore.
Appare chiaro come l’essere immagine e somiglianza di Dio non possa essere più letto su una linea di esclusivo carattere ontologico/metafisico, come qualcosa che riguarda soltanto l’essenza dell’uomo. Il divieto biblico delle immagini conferma come nessuna creatura possa essere considerata nella sua essenza immagine di Dio. L’essere “immagine e somiglianza” rinvia a una realtà funzionale e relazionale, quella relazione che l’essere umano ha con Dio e, più in particolare, con l’intero creato.
Non possiamo qui che accennare allo sviluppo neotestamentario del tema dell’immagine di Dio, che, alla luce di Col 1,15, è Cristo stesso; la imago Dei acquista così un carattere cristologico e trinitario nel quale emerge il ruolo della mediazione sacramentale; ci si orienta così verso i valori della giustizia e della comunione.
Ma che cosa significa, nel contesto di Gen 1,26-28, “dominare la terra”?
Soggiogate la terra e dominate…
Due volte, al v. 26 e al v. 28, il testo genesiaco ripete il comando relativo al dominio della terra; il “soggiogare” la terra è, nel v. 28, diretta conseguenza della fecondità dell’uomo che sulla terra cresce e si moltiplica; non si può parlare di “dominio” se non in un contesto di quello che si può ben definire un “servizio alla vita”.
Il testo ebraico utilizza, a proposito del “dominio”, due diversi verbi, che sopra abbiamo tradotto con “dominare” e “soggiogare”; notiamo che i due verbi appaiono insieme, al v. 28, nella forma imperativa, così che ci è impossibile intenderli semplicemente come una descrizione dello stato dell’umanità, ma come un vero e proprio precetto. E’ indubbio, poi, che “dominare” e “soggiogare” suoni alle nostre orecchie come qualcosa di aspro; ci si chiede oggi se tale tonalità, che certamente rinvia a un dominio che implica una qualche forma di violenza, sia realmente presente nei due verbi utilizzati dalla Genesi.
Il verbo “dominare”, in ebraico radah, indica normalmente l’esercizio del potere, talora del potere regale, e solo in Gen 1,26.28 è utilizzato in relazione alla creazione; il senso base del verbo è forse quello di “schiacciare”. In un altro testo sacerdotale (Lv 25,43.46.53) radah è utilizzato in connessione con il termine perek, “brutalità”, “durezza”. Il Dio di Israele condanna il potere – quello del padrone sugli schiavi! – qualora venga esercitato con asprezza. La stessa connessione tra “dominio” e “violenza” appare poi in Ez 34,4, nel contesto della critica che il profeta muove a quei “pastori” che hanno dominato sulle pecore “con violenza e con durezza”. Testi del genere, provenienti dallo stesso ambito di Gen 1, condannano esplicitamente un potere esercitato con asprezza. Inoltre, proprio perchè radah rinvia spesso al potere regale, tale verbo non esprime necessariamente un potere assoluto e dispotico. L’intero contesto di Ez 34 mostra molto bene che tipo di potere il profeta immagina per per i capi politici di Israele: un potere mite, che non può mai diventare brutale e violento.
Infine: il testo del v. 26 ricorda che il dominio dell’uomo si estende sui pesci del mare, sugli uccelli del cielo, sulla terra e sui rettili che vi strisciano. Il dominio abbraccia non tanto la totalità degli animali in senso zoologico, quanto piuttosto geografico, secondo cioè il posto che essi occupano nel creato. Potremmo dire che il dominio è in Gen 1,26.28 una metafora che serve a indicare la funzione ordinatrice universale che l’uomo riceve da Dio nei confronti della creazione. L’uomo diviene quella sorta di re-pastore che garantisce a ogni essere vivente di poter abitare nella sua casa.
Il secondo verbo presente al v. 28, in ebraico kabash, è in genere inteso come “soggiogare”, “sottomettere”, “ridurre in schiavitù”. Nei tredici casi in cui il verbo ricorre nella Bibbia ebraica esso si riferisce alla terra, a un popolo, agli schiavi o alle nazioni, per lo più con una sfumatura di violenza o comunque di forza esercitata. In realtà, il senso più preciso di kabash sembra essere quello di “mettere il piede sopra”, nel senso di “prendere il possesso”, come si fa ad esempio con una nuova terra o una nuova casa. Il verbo kabash è usato in Gen 1,28 proprio in relazione alla terra; questa “presa di possesso” da parte dell’uomo conserva in sé un indubbio aspetto di forza, se tuttavia la si intende nel contesto umano del tempo. Rendere la terra abitabile per l’uomo comporta infatti un duro lavoro agricolo, un “soggiogare” la terra utilizzando le forze umane; si spiega così il perché dell’uso di questo verbo.
La metafora del “soggiogare” intesa nel senso del “porre i piedi sopra” richiama altresì immagini frequenti nel Vicino Oriente Antico; si osserva spesso il re porre i piedi su bestie feroci e su animali mitologici, impersonando così il “pastore” che controlla il caos, lo soggioga e lo ordina per il bene di tutti. In conclusione, il “soggiogare” la terra va certamente inteso, nel testo di Gen 1,28, nel senso di prendere possesso della terra e proteggerla dal caos. Una lotta dunque per la terra e non contro la terra!
L’esegesi che qui abbiamo proposto relativa al “dominare” e “soggiogare” la terra in Gen 1,26.28 è ben nota fin dalla tradizione rabbinica e accolta anche a livello magisteriale (si veda il n° 66 della Laudato Sì). Resta tuttavia l’impressione che non sia possibile eliminare del tutto dai due verbi utilizzati una sfumatura di violenza, specialmente se essi vengono riferiti al dominio del re: bastano le osservazioni fatte su un dominio “mite” a cancellare del tutto l’idea della violenza? La categoria di “dominio”, specialmente se trasferita superficialmente nel contesto della cultura occidentale, è da sola molto pericolosa.
Resta altresì aperta la questione dell’antropocentrismo di Gen 1: l’uomo è davvero il vertice, la corona della creazione? Gen 1, pur delimitando il potere dell’uomo, lo innalza al di sopra degli animali.
L’esegesi non può tuttavia fermarsi qui e deve estendere la sua analisi ai vv. 29-30, in genere trascurati dai commentatori, e al contesto più generale di Gen 1-11.
Il cibo dell’umanità
In Gen 1,26-28 il compito di dominare e soggiogare la terra affidato all’umanità diviene il modo concreto con il quale l’uomo è invitato a “farsi” immagine e somiglianza di Dio. Ma tale vocazione – non dimenticando la benedizione del v. 28 relativa alla fecondità – non è del tutto chiara se non si tiene conto di quanto detto nei vv. 29-30. All’essere umano che Dio ha creato egli da in cibo i frutti del suolo, mentre agli animali da soltanto l’erba verde. In entrambi i casi si tratta di un cibo esclusivamente vegetale. Molti esegeti hanno trascurato questi versetti leggendoli semplicemente come il ricordo di una sorta di paradisiaca età dell’oro.
Il cibo vegetale esprime molto bene il tipo di dominio che l’uomo è chiamato a esercitare; un dominio privo di quella elementare forma di violenza (l’uccisione degli animali) che pure parrebbe necessaria per vivere. Si noti poi che mentre agli uomini sono riservati vegetali nobili (frutti e semi; cf. 1,29), agli animali viene data semplicemente l’erba verde (cf. 1,30). In tal modo viene eliminato anche ogni possibile conflitto alimentare tra uomo e animale, vista la diversità di cibo. E’ strano poi che a tutti gli animali venga data erba come cibo; ciò non può che essere una metafora. Come nel celebre testo di Is 11,6-9, l’assenza di cibo carneo per gli animali va vista come l’espressione di una situazione ideale nella quale ogni forma di violenza è bandita. Non è questa, però, una situazione ideale contrapposta a una “realtà” umana violenta che sarebbe espressa nel “dominare e soggiogare” di Gen 1,26-28, ma piuttosto la descrizione di quel “sogno di Dio” che rivela simbolicamente la qualità di quel dominio al quale l’uomo è chiamato. Un dominio che esclude ogni forma di violenza e sopraffazione, e del quale le leggi alimentari ebraiche sono un segno tangibile.
Quando, dopo il diluvio, Dio darà all’uomo la possibilità di mangiare carne (cf. Gen 9,1-6) ciò non avverrà senza una precisa limitazione: la legge del sangue, che regolamenta anche quel minimo di violenza “lecita”, necessaria per mantenersi in vita; il sangue, ricordiamolo, è simbolo della vita. In altre parole, sull’invito a “dominare” si innesta l’accettazione del limite che, in Gen 9,1-6, è rappresentato dal rispetto della vita degli esseri viventi (il non mangiare il loro “sangue”) e soprattutto dal rispetto della vita dell’altro uomo, il cui sangue non può mai essere sparso.
Il testo di Gen 1,29-30, letto insieme a Gen 9,1-6, ci fa perciò comprendere come il dominio dell’uomo sul creato decritto in precedenza è caratterizzato dalla mitezza; è un dominio realmente ecologico, destinato a creare una casa per tutti, nella quale nessun vivente può vivere a danno di un altro vivente.
Il “dominio” dell’uomo sul creato trova poi il suo significativo compimento nel settimo giorno, il sabato (Gen 2,1-4a): ovvero il riposo e la festa. Il sabato è il segno concreto di un limite che Dio impone prima di tutto a se stesso, quasi ritirandosi e lasciando la creazione in mano a se stessa e all’uomo. Lo stesso agire creatore di Dio è perciò un agire “mite”, che non ha alcun bisogno delle battaglie e delle teomachie che caratterizzano le cosmologie babilonesi, un agire che ha come unica forza quella della parola. Ma il sabato è nello stesso tempo il segno del limite imposto al dominio dell’uomo: la terra è consegnata al riposo, e non al lavoro.
Gen 1,26-30 costituisce un testo “utopico”, ma ciò non deve condurci a trasformare il paradigma della regalità in una tirannia arbitraria e violenta dell’uomo sul creato; si tratta, come si è visto, di una regalità “mite”; alla luce poi del tema del cibo vegetale, il “dominio” dell’uomo sul creato va ben oltre il problema della “responsabilità” e ci introduce più profondamente a un’etica ecologica della mitezza e della pace.
Lavorare e custodire
Lascio da parte il tema introdotto in Gen 2,15, nel secondo racconto della creazione, ovvero l’essere umano chiamato a coltivare e custodire il giardino; fuor di metafora, a far crescere la creazione secondo il disegno di Dio. Ma come è narrato in Gen 3,1-7, l’essere umano cede alla tentazione della cupidigia (mangiare il frutto) e si erge al posto di Dio (“sarete come Dio…”); esce così dal regime del dono ed entra in quello del dominio. Il risultato è la perdita dell’armonia con Dio stesso (l’uomo si nasconde nel giardino), la perdita della comunione con l’altro (“si accorsero di essere nudi”), la perdita della comunione con il creato (“spine e cardi produrrà il suolo…”). La creazione si ribella all’uso distorto che l’essere umano ne ha fatto – una idea già contenuta nel messaggio di Giovanni Paolo II per la giornata della pace del 1990: «La pace con Dio creatore, la pace con tutto il creato», e ancor di più nella Laudato Si’.
La vocazione dell’uomo nel creato alla luce delle teologie bibliche della creazione
Quanto abbiamo osservato in relazione ai testi che descrivono la vocazione dell’uomo nei confronti del creato dev’essere ora inserito all’interno della teologia della creazione che emerge da Gen 1-11 e, allo stesso tempo, nel quadro delle diverse teologie della creazione che emergono dall’intera Scrittura.
Creazione, alleanza, sapienza
La traiettoria della teologia biblica della creazione all’interno dell’esegesi contemporanea è ben nota. A partire dalle tesi di von Rad e Eichrodt (nate in verità come reazione al nazionalsocialismo), la teologia della creazione è stata per lo più subordinata alla teologia della alleanza, ovvero è stata letta in chiave storica e soteriologica insieme. In questo modo si è creduto, in Occidente, di poter rispondere alla spinta proveniente dalle nuove scienze, cadendo tuttavia nella problematica ben messa in luce da Moltmann: “di fronte alla marcia trionfale delle scienze, spesso la teologia ha scelto il campo della storia, lasciando alle scienze quello della natura (…). La teologia deve liberare la fede nella creazione da questa sopravvalutazione della storia…”.
Assistiamo oggi a un recupero della teologia biblica della creazione, in particolare alla luce della riscoperta della letteratura sapienziale. Proprio la letteratura sapienziale, infatti, ci aiuta a comprendere che il tema della creazione non si oppone affatto a una teologia centrata sul tema storico-salvifico della alleanza. La creazione diviene per i saggi il luogo primario ove Dio si rivela e, allo stesso tempo, si nasconde. La riflessione teologica dovrà perciò cercare un punto d’incontro tra l’idea di creazione intesa come luogo rivelatore della presenza di Dio accanto alla storia, e la dimensione enigmatica propria di ogni realtà creata.
La creazione, tuttavia, non è vista dai saggi semplicemente in funzione dell’alleanza, né soltanto in relazione agli interventi storico-salvifici di Dio; il libro della Sapienza, in particolare, ha tentato una sintesi feconda dei due temi, creazione e salvezza, ma senza mai subordinare la prima alla seconda. Va perciò sradicato il pregiudizio teologico sopra ricordato che la teologia della creazione sia come l’ancella della storia della salvezza e che Israele abbia vissuto l’esperienza della salvezza prima di quella della creazione, seondo un modello ermeneutico ancora diffuso in una certa vulgata esegetica. Il teologo dovrà riflettere se la teologia della creazione debba ampliare i due modelli più usuali nei quali è stata presentata: la creazione come inizio di tutto e la creazione come alleanza con Dio finalizzata alla grazia. La riflessione sapienziale ci offre un modello senz’altro diverso: il Dio che crea è anche quello che salva.
Proprio su questo punto è possibile inserire la tematica cristologica della creazione che emerge nell’epistolario paolino – si pensi a Rm 8,19-21 e all’inno cristologico della lettera ai Colossesi (Col 1,15-20) – e negli aspetti sapienziali propri del prologo di Giovanni. La creazione non è un tema marginale nella riflessione teologica cristiana, né può essere del tutto subordinata alla cristologia, la quale, al contrario, deve essere integrata all’interno di una solida teologia della creazione. I risvolti di questa impostazione biblico-teologica sono evidenti: ciò che esiste al di fuori di Israele e al di fuori delle chiese cristiane – il creato – non è uno spazio vuoto, anticamera tutt’al più della salvezza; è già teatro dell’agire e della grazia di Dio: «lo scopo finale delle altre creature non siamo noi», come si esprime Francesco al n° 83 della Laudato Sì.
Bontà della creazione – una creazione benedetta
Un aspetto importante della teologia della creazione che emerge in Gen 1 è l’accento che il testo pone sulla bontà e sulla bellezza della creazione, attraverso la ripetizione del ritornello “e Dio vide kî tôb”, che il creato era cioè buono, bello e conforme al suo scopo, secondo i diversi significati insiti nel termine ebraico. Il triplice impiego, in Gen 1, del verbo “benedire” (Gen 1,22.28; 2,3), pone poi la vita animale e umana e infine il sabato sotto il segno dell’agire di Dio.
Se dunque il creato è bello e buono e benedetto da Dio, il compito primario dell’uomo, in quanto immagine di Dio, è conservarne la bellezza. La natura non è la norma, come vorrebbero oggi alcune correnti ecologiste estreme; c’è spazio così per parlare di una bontà e bellezza del creato (piuttosto che della natura) non riducibile del tutto a regole scientificamente spiegabili, ma c’è ancora spazio per la libertà e la responsabilità dell’essere umano e, soprattutto, c’è spazio per la meraviglia.
Creazione e antropocentrismo
Un tema particolare, che tocca da vicino l’odierna discussione ecologica, è relativo alle accuse di antropocentrismo mosse alla concezione ebraico-cristiana della creazione e che troverebbero la loro giustificazione proprio nei testi della Genesi: in Gen 1, in particolare, l’uomo sembra essere il vertice, la corona del creato; il Sal 8 sembra confermare tale prospettiva: “l’hai fatto poco meno di Dio, di gloria e di onore lo hai coronato… tutto hai posto sotto i suoi piedi”.
L’odierna deep ecology non ha risparmiato alla tradizione ebraico-cristiana accuse di “specismo”, come attestano le attuali discussioni sui “diritti” (e persino sui “doveri”) degli animali. Si arriva a una sorta di neo-paganesimo dove la terra/Gaia ritorna ad essere la Grande Madre che dev’essere preservata da ogni intervento umano, quasi che fosse l’uomo il vero virus del mondo.
I racconti genesiaci, attraverso il tema dell’immagine di Dio, ci ricordano che l’uomo è prima di tutto un essere in relazione, con il creato e con il Creatore. Il racconto del peccato in Gen 3 mette in luce la tragedia di una cupidigia che è la negazione dell’alterità. E’ la relazione dell’uomo con Dio ciò che eventualmente fonda la sua “indiscussa superiorità” nei confronti del creato, che dunque è comprensibile soltanto alla luce di quella “onnipotenza mite” di Dio che si disvela nell’opera della sua creazione.
L’antropocentrismo è perciò, in realtà, un teocentrismo; ciò è evidente anche nel Sal 8, nel quale la grandezza dell’uomo è la scoperta piena di stupore della piccolezza di un essere mortale di cui Dio in persona si prende cura. Il testo del Sal 104 e i discorsi finali di Dio a Giobbe (Gb 38-39) relativizzano il posto degli esseri umani all’interno della creazione e pongono piuttosto l’accento sull’opera di Dio; «tutto è in relazione», come scrive Francesco al n° 91 della Laudato Sì, esseri umani e creature.
Nel Nuovo Testamento ciò è ancora più evidente, alla luce della “condiscendenza” di quel Dio che si “svuota” in Cristo (cf. Fil 2,7); ci troviamo di fronta a un teocentrismo che rinuncia persino ad esser tale, per amore delle creature. L’essenza del “dominio” non sta dunque in una qualche superiorità dell’uomo sul creato, ma nella sua capacità di amare il creato come Dio lo ama.
Il “sogno” di Dio relativo al creato, espresso dal dono del cibo vegetale per uomini e per animali ci rivela come l’uomo non può certamente essere assorbito nella natura ed equiparato agli animali (e come la natura non può essere considerata divina), ma allo stesso tempo come l’uomo vive una relazione profonda con il mondo creato, e in particolare con gli animali, che non può essere espressa in puri termini di superiorità.
Il racconto di Gen 9,8-17 introduce al riguardo una tematica interessante: l’alleanza che Dio stabilisce con Noè non è relativa soltanto agli esseri umani, ma ad “ogni carne”, e dunque persino agli animali. Se l’uomo appare in una posizione diversa da quella degli animali, sia nel primo che nel secondo racconto della creazione, egli non ne appare mai, tuttavia, come un padrone assoluto e dispotico. Esiste una ben attestata tradizione giudaica e patristica relativa al rapporto uomo-animale che spinge, in molti casi, a postulare la salvezza del mondo infraumano. La tradizione ortodossa traduce la “indiscussa superiorità” dell’uomo sul creato in termini di amore universale per tutte le creature. Non si tratta semplicemente di una questione di accenti, ma di sostanza. Si ricordi quanto dice Alioscia Karamazov nei fratelli Karamazov di Dostoevskij, citato anche da papa Francesco: “fratelli miei, amate tutta la creazione nel suo insieme e nei suoi elementi, ogni foglia, ogni raggio, gli animali, le piante. E amando ogni cosa, comprenderete il mistero divino delle cose. Una volta compreso, voi lo conoscerete sempre di più, ogni giorno. E finirete per amare il mondo intero di un amore universale”.
Creazione ed escatologia
Un aspetto spesso trascurato nella lettura di Gen 1-11 è il taglio fortemente teleologico e persino escatologico proprio di questi racconti. E’ noto come le descrizioni profetiche della pace messianica (cf. Is 11,6-9; 30,23-26; 35,1-9; 65,17-26; 66,22; Ez 34,25-29) riprendano in parte elementi relativi al giardino dell’Eden. Come è stato l’inizio, così sarà la fine. Come nei testi del Deuteroisaia, creazione e salvezza vanno di pari passo. Un’ermeneutica corretta di Gen 1-11 deve tener conto di questa valenza profetica. L’istanza è stata ben compresa dalla teologia della liberazione: così C. Mesters può affermare che “il paradiso non è qualcosa che appartiene ormai al passato ma piuttosto al futuro”; è dunque una profezia spostata nel passato.
Questa prospettiva ci apre a due ulteriori considerazioni, con le quali concludo questa panoramica teologica: l’intero testo di Gen 1-11 può essere letto come l’espressione del progetto di Dio sul creato e sull’uomo; del “sogno” e della speranza di Dio. Dai testi relativi al “dominio” dell’uomo e al suo lavoro nel giardino ricaviamo la descrizione di un lavoro che nelle intenzioni del Creatore è affidato all’intera umanità in vista di un futuro che deve ancora compiersi. Quando l’uomo cede alla sua cupidigia e alla violenza, tale progetto di Dio non viene meno, come è evidente da Gen 9,1-17.
La prospettiva profetica insita nei racconti genesiaci della creazione è ancora più chiara se tali racconti vengono letti alla luce di alcuni aspetti della cristologia neotestamentaria: ho già ricordato la tematica della speranza della creazione presente in Rm 8,19-22; dobbiamo aggiungere l’idea paolina della nuova creazione in Cristo (cf. Gal 6,15; 2Cor 5,17). Paolo rilegge in chiave cristologica la categoria biblico-apocalittica della “nuova creazione”, tipica del giudaismo del tempo. Storia e cosmo non vengono visti da Paolo come realtà separate; la cosmologia non è in Paolo separata dall’antropologia. Uomo e cosmo attendono entrambi la liberazione dalla “schiavitù della corruzione”. In Rm 8,19-22, in particolare, lo Spirito, prendendo dimora nei credenti, rende possibile fare della creazione allo stesso tempo il luogo della rivelazione di Dio e della risposta responsabile dell’uomo, come avrebbe dovuto essere sin dal principio.
Se l’incarnazione è in qualche modo l’assunzione da parte di Dio della “corporeità” del cosmo, la parousia di Cristo è un evento nel quale Dio prende fisicamente dimora nell’universo perfezionato. Il mondo non è solo creazione, è anche spazio in cui Dio abita corporalmente (il Figlio) e agisce (lo Spirito) in vista di una “nuova creazione”. In questo modo la prospettiva biblica supera l’alternativa tra antropocentrismo e cosmocentrismo. Nè primato dell’uomo né primato del cosmo, ma una natura vista come creazione nella triplice dimensione di creazione protologica, di creatio continua, di creazione escatologica; che è poi l’ultimo capitolo della Laudato Sì.
Conclusione: prospettive per il presente
Il tema del dominio della terra ha senz’altro un posto importante nella teologia cattolica (si veda già GS 34). Il documento del 2006 della Commissione Teologica Internazionale sul tema dell’immagine di Dio parla, a proposito del compito dell’uomo nei confronti della creazione, di amministrazione responsabile; tale “responsabilità” è descritta come un servizio regale e domestico insieme.
Occorre stare molto attenti a non leggere questa “responsabilità” in un’ottica tutta occidentale, in relazione all’idea di un controllo dell’uomo sulla terra che può facilmente trasformarsi in arbitrio e sfruttamento. E’ pur vero che la recente teologia cattolica nel parlare di “dominio” aggiunge sempre “ma subordinato a Dio”.
Eppure i testi genesiaci ci aprono a una visione del “dominio” caratterizzata piuttosto dalla mitezza, dal rifiuto della violenza, a imitazione di quella onnipotenza mite di Dio che si dispiega nei racconti della creazione. Dio domina e organizza il caos delle origini senza combattere, e anche di fronte alla violenza umana risponde con la promessa di una salvezza per tutto il creato (si veda ancora Gen 9,8-17). L’intero creato, buono, bello e benedetto, è affidato all’essere umano perché conservi con esso quel rapporto di alleanza che Dio ha stabilito. Ciò che qualifica l’essere immagine di Dio non è il dominio in sé o l’indiscutibile superiorità dell’uomo sul creato, ma il modo con il quale il “dominio” viene esercitato, secondo quella onnipotenza divina che è in realtà mitezza: “tu, padrone della forza, giudichi con mitezza” (Sap 12,18).
Non si tratta di un ritorno romantico o fondamentalista alla natura, come vogliono correnti ecologiste di punta, né di un ritorno a filosofie di matrice orientaleggiante. Si tratta piuttosto di riscoprire il mondo come “creazione” e dunque come “casa” per tutti, casa comune dei viventi nella quale si manifesta il Creatore.
Un’ultima considerazione: in Gen 1-11 la riflessione sul dominio mite e non violento al quale l’uomo è chiamato si unisce all’idea che il peccato dell’uomo consiste proprio nella cupidigia che lo porta a valicare il limite della mitezza, della gratuità, in una parola della creazione ricevuta come dono del creatore. E’ la violenza che nasce dalla cupidigia la causa del diluvio che mette in discussione il rapporto tra l’uomo e il creato e sembra far cadere il mondo nel caos dal quale è uscito.
In quest’ottica, l’uomo non è più il “centro” della creazione, ma piuttosto è un ponte tra Dio e il creato, un ponte che può condurre il creato alla comunione con Dio, oppure può trasformarlo in “cosa” da utilizzare per l’uomo, ma alla fine contro l’uomo. Un “ponte”, ma meglio potremmo dire un “sacerdote”, all’interno di una liturgia che coinvolge l’intero cosmo.
Sia in Gen 2,1-4 (il sabato) che in Gen 2,15 (lavorare e celebrare) il culto appare strettamente unito alla vocazione umana di lavorare la terra. Ecologia e liturgia vanno di pari passo; la riflessione della chiesa ortodossa ha notevolmente approfondito questo aspetto, specie nella teologia di I. Zizioulas. Contrariamente alla tradizione cattolica, quella ortodossa non pone tanto l’accento sull’etica, in particolare su un’etica che si vorrebbe razionalmente fondata, ma sulla liturgia intesa come fonte dell’etica. Così un’etica fondata su una pretesa legge naturale che si vorrebbe razionale, ma allo stesso tempo fondata contraddittoriamente su presupposti dogmatici, non è più convincent. La liturgia vissuta come assemblea radunata e come comunione con Dio, l’uomo e il creato permette di testimoniare al mondo lo svuotamento di Cristo sulla croce e, contemporaneamente, la sua vittoria.
Il mondo cattolico si affaccia appena adesso a questo problema; l’insistenza sulla difesa della propria identità confessionale, trasferita troppo spesso nella liturgia, porta lontano dal riconoscimento di una “alterità” da amare: quella di Dio, quella dell’altro essere umano, quella dell’intero creato. La celebrazione dell’Eucarestia porta in sé l’idea di una totale gratuità che è l’accettazione del dono e del donatore insieme, rinuncia totale alla cupidigia e alla violenza e apertura all’amore di quel Dio che spoglia se stesso rendendo possibile nello spazio e nel tempo la nostra divinizzazione. La dimensione liturgica può aiutarci a riscoprire il valore della creazione come dono: ascoltare il grido della terra, lodare Dio nella creazione e per la creazione: “ogni essere che respira, lodi il Signore” (Sal 150).