“Dicevano che era un prete” / Atti del convegno (4)


 

Le persone – giovani e adulti – che sono cresciute nelle esperienze della Gioventù di Azione cattolica (Giac), del Movimento lavoratori di Azione cattolica (Mlac), della Gioventù operaia cristiana (Gioc) e dei Cristiani nel mondo operaio (Cmo) hanno guardato a don Carlo (e alla sequela di preti che lui ha promosso) come l’ispiratore di una peculiare dimensione di impegno e testimonianza di fede nei luoghi e negli ambienti in cui la vita li ha collocati. L’obiettivo è stato testimoniare che il lavoro e la società sono ambiti privilegiati per vivere la fede cristiana incarnata.

«Fiorisci là dove il Signore ti ha piantato»: questa frase di Joseph Cardijn, il fondatore della Joc, ci ricorda una missione che si realizza nei nostri ambienti di vita.

Ricordo quanto mi è stata fatta la prima proposta di uscire dalla fabbrica per andare a tempo pieno nel sindacato: don Carlo mi ha ricordato che era importante restare in fabbrica (lavoravo in un’azienda con 150 operai) e nel coordinamento sindacale della zona: c’era bisogno di questa presenza in borgo San Paolo, un quartiere operaio di Torino con molte boite, le piccole aziende dove spesso gli operai erano sfruttati.

Don Carlo voleva che nella Chiesa ci fosse un forte protagonismo dei laici, capaci di assumersi importanti responsabilità e incarichi di pastorale e animazione sociale e di ambiente. La vita del cristiano non è ascetica testimonianza solitaria, ma anelito a sporcarsi le mani, con i problemi e i disagi del mondo del lavoro, vivendo una dimensione di rete che superi le singole appartenenze. Per Carlevaris, il laico doveva essere in grado di testimoniare la propria fede nei luoghi della vita, per abitare con rinnovato protagonismo il mondo del lavoro, il sindacato, le imprese, le associazioni e le istituzioni pubbliche, con la logica di essere lievito e sale nella realtà. Essere credenti significa quindi impegnarsi con coscienza e conoscenza in ambiti che travalicano i muri della parrocchia: essere lavoratori, sindacalisti, imprenditori, cooperanti, formatori e politici è segno dell’amore di Dio nella storia e nella società umana. Si tratta di una di quelle forme di Chiesa in uscita di cui spesso papa Francesco parla.

Avendo conosciuto l’esperienza della “missione operaia” parigina e dei preti operai francesi, Carlevaris ha introdotto a Torino i fermenti di un’evangelizzazione che partiva dal basso, che anticipava la “Chiesa in uscita” di papa Francesco. Si trattava di agganciare il mondo operaio, che la Chiesa aveva spesso trattato da avversario per le sue posizioni politiche.

Con Carlo, ho fatto un lungo cammino, sperimentando nei posti di lavoro l’“esserci dentro”, nella condivisione e nel sostegno delle giuste rivendicazioni, in un crescendo di spiritualità: “Per loro, con loro, come loro”. La scelta dell’incarnazione, verso cui ci orientava Carlevars, era molto vicina a quella di Charles de Foucauld e diventava per noi un invito a scioglierci nel mondo senza però perdere la peculiarità della profezia evangelica.

Molte persone hanno trovato in don Carlo una figura di riferimento per la propria formazione cristiana e sono riuscite con il suo aiuto a coniugare fede e vita e a leggere le questioni sociali alla luce del Vangelo secondo il motto “vedere, giudicare, agire”, diffuso dalla Gioc e dal Mlac.

Carlo Carlevaris ha il merito di aver diffuso nella diocesi di Torino e in Italia la Gioventù operaia cristiana. Ha avviato il “Progetto comune” in continuità con l’idea di “missione operaia” e con la lettera pastorale Camminare insieme, ma anche i Cristiani nel mondo operaio, il Centro studi Bruno Longo e l’esperienza delle Equipes Notre Dame.

Nell’esperienza di Cardjin, che Carlevaris ha sempre avuto presente, era riconosciuta l’importanza dell’apostolato dei laici, giovani e adulti: egli voleva renderli più coscienti della loro dignità di figli di Dio, della loro specifica vocazione di battezzati, delle loro responsabilità nella Chiesa e nel mondo. In questo senso, egli è stato un precursore del Concilio vaticano II che così bene ha parlato del sacerdozio comune dei fedeli. La sua intuizione originale e coraggiosa consisteva nel volere che l’evangelizzazione della gioventù operaia fosse opera di giovani operai in totale solidarietà coi loro compagni di lavoro. Egli auspicava anche che i lavoratori possedessero proprie organizzazioni operaie, autonome e libere, per far sentire la propria voce ed esercitare un’influenza costruttiva sull’insieme della società.

Il mondo intero può essere riconoscente a Cardijn per la pedagogia che ha messo in atto, sotto forma della triade “vedere, giudicare, agire”, che è divenuta familiare a tanti militanti. Essa supponeva infatti un ascolto della Parola di Dio, un’attenzione ai gesti di Gesù, un’assimilazione del messaggio del Vangelo e della Chiesa. Successivamente, comportava uno sguardo concreto e metodico, si potrebbe dire, sul dipanarsi della vita, sull’esperienza dei lavoratori, coi suoi aspetti d’ombra e di luce, un giudizio sugli ostacoli alla realizzazione del disegno di Dio, che vuole per tutti la dignità di figli di Dio. Infine spingeva a mettere in atto un’azione solidale capace di porre rimedio nelle situazioni concrete.

Ricordo le lunghe chiacchierate fatte nei viaggi in Italia e in Francia quando Carlevaris era assistente e io ero presidente del Cmo, dove questi discorsi ritornavano spesso.

La testimonianza di vita di Carlevaris è di stimolo anche per la Chiesa di oggi, così come è sognata da papa Francesco. E questo, per almeno cinque motivi.

Con la scelta di incontrare le persone là dove vivono, lavorano e faticano, Carlo Carlevaris, sempre pronto a “sporcarsi le mani” nell’accogliere, includere e avvicinare tutti, ha contribuito a declericalizzare la figura del prete, liberandola dall’aura di sacralità e di potere che poco ha a che fare con il ministero ordinato.

Immergendosi pienamente nella condizione operaia, Carlo Carlevaris ci ricorda che, nella prospettiva cristiana, «essere santi non significa lustrarsi gli occhi in una presunta estasi» e contemplare il volto di Cristo significa saperlo scorgere soprattutto nel volto di coloro con i quali egli stesso ha voluto identificarsi, cioè nei poveri e in coloro che fanno fatica a vivere.

Impegnandosi concretamente per la tutela dei diritti degli operai e la dignità della povera gente, Carlo Carlevaris ci esorta a diffidare di quelle due «ideologie che mutilano il cuore del Vangelo»: l’ideologia che separa la preghiera, l’amore di Dio e la lettura del Vangelo dalla passione e dall’efficacia della dedizione al prossimo, e l’ideologia che considera l’impegno sociale come «qualcosa di superficiale, mondano, secolarizzato, immanentista, comunista, populista» o lo relativizza «come se ci fossero altre cose più importanti».

Nell’annuncio e nella testimonianza del Vangelo, Carlo Carlevaris ha saputo coinvolgere e rendere corresponsabili uomini e donne del popolo di Dio, profondamente convinto che «ciascun battezzato, qualunque sia la sua funzione nella Chiesa e il grado di istruzione della sua fede, è un soggetto attivo di evangelizzazione e sarebbe inadeguato pensare ad uno schema di evangelizzazione portato avanti da attori qualificati in cui il resto del popolo fedele fosse solamente recettivo delle loro azioni».

Alla “scuola” di Carlo Carlevaris abbiamo imparato che «ogni cristiano e ogni comunità sono chiamati ad essere strumenti di Dio per la liberazione e la promozione dei poveri, in modo che essi possano integrarsi pienamente nella società; questo suppone che siamo docili e attenti ad ascoltare il grido del povero e a soccorrerlo».

E poi abbiamo imparato che la mancanza di solidarietà nei confronti del povero «influisce direttamente sul nostro rapporto con Dio».

Le eucarestie che ogni settimana, al giovedì sera, presiedeva nella sua mansarda di via Belfiore 12 a Torino erano occasione per radunare persone di ogni estrazione sociale e di ogni nazionalità (“i miei parrocchiani”, le definiva) attorno alla Parola di Dio, letta, meditata, pregata e condivisa alla luce degli avvenimenti successi nel corso della settimana.

In un articolo pubblicato sul settimanale torinese «La voce del popolo» nel 2007, don Carlo tentava un bilancio dei suoi ottant’anni:

«Non ho consigli da dare. Cerco ancora di imparare a vivere questa stagione, l’ultima della vita, in fedeltà alla scelta iniziale: stare tra la gente, lottare con chi lotta, difendere e servire i poveri. A dirla tutta sono contento di vivere questi ultimi anni nella soffitta di San Salvario con i neri, i musulmani e le prostitute all’angolo che mi salutano con un sorriso. C’è ancora qualcosa da fare. Auguro a tutti la scoperta dei poveri, dei deboli, degli ultimi».

Cuore e sintesi di questa sua volontà di coinvolgimento mi sembra possa essere la preoccupazione di Carlevaris di formare un laicato adulto e responsabile. Formare laici responsabili della missione della Chiesa non era per lui uno slogan, ma il centro delle sue preoccupazioni e delle sue fatiche. Credeva che non ci sarebbe stato futuro per la missione della Chiesa senza un laicato responsabile: ha lavorato perché questo potesse realizzarsi. Per questo motivo, ha creduto al valore delle associazioni nella vita della Chiesa. Egli credeva che queste, ricche della loro esperienza e della loro storia, fossero il luogo privilegiato della formazione di un laicato adulto e maturo, e in questa direzione si è prodigato e speso fino alla fine.

Gaetano Quadrelli


 

Anno 2003: nel Minas Gerais (Brasile)


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