Memorie vive (1)
“Alla fine della vita
ciò che conta è aver amato”
Questa è la frase con cui Doge, parafrasando San Giovanni della Croce, poneva fine anche alle questioni più intricate, riportando ogni ragionamento a ciò che conta veramente, all’amore. Una frase che quotidianamente ridona il senso alle mie giornate e rievoca lo sguardo e il sorriso con cui Doge la pronunciava. Doge è stato uno dei padri più significativi che ha accompagnato e guidato la mia vita, presenza viva anche oggi a distanza di 10 anni dalla sua partenza terrena.
Don Eugenio Del Bello, per tutti il Doge, è stato parroco agli Archi, un quartiere di Ancona, per mezzo secolo, presso la Chiesa del SS. Crocifisso, dove sono nata e vissuta.
Nato a Castelfidardo (AN) nel 1937 in una famiglia di operai, Doge scopre in giovane età la propria vocazione al sacerdozio. Così, dopo aver frequentato il Seminario minore di Ancona e il Seminario Regionale di Fano, viene ordinato sacerdote il 24 giugno 1962.
Da lì a poco viene nominato prima viceparroco poi parroco presso la Parrocchia degli Archi, dove rimane sino alla fine dei suoi giorni. Don Eugenio, dopo circa due anni di malattia, si spegne l’8 giugno del 2010.
Don Eugenio inizia la sua vita sacerdotale come tanti preti che arrivano in una zona difficile della città, dedicandosi all’insegnamento della religione cattolica nella scuola media del quartiere, promuovendo iniziative di aggregazione per i ragazzi, entrando nelle case inizia a conoscere sempre di più le persone, le famiglie, la realtà dove è chiamato a svolgere il suo servizio. I ragazzi più piccoli iniziano a chiamarlo in dialetto “Don Ugè” o “Don Gè” e ben presto don Eugenio del Bello diventa per tutti Doge.
La sua missione matura in breve tempo e quando diventa parroco inizia a esprimere tutta la sua energia dando spazio a scelte che in quel tempo erano davvero uniche e anticonformiste.
Sono anni in cui si assaporano i profondi cambiamenti del Concilio nella liturgia, negli studi biblici, nel dialogo con le altre Chiese. La nuova Messa, con l’abolizione del latino, il protagonismo dei fedeli nell’assemblea liturgica, l’adozione di mezzi e linguaggi musicali talvolta di rottura, trasformano in profondità la vita dei cattolici in tutto il mondo. Doge inizia per primo nella città a portare questo rinnovamento generando incomprensione e scandalo tra i parrocchiani.
Sono anche anni in cui alcuni studiosi di esegesi biblica vengono sanzionati per le loro letture diverse dalla dottrina ufficiale (come Ortensio da Spinetoli, grande amico di Don Eugenio del Bello). Doge si colloca in questo scenario, matura in quegli anni la sua identità di uomo di fede a servizio degli uomini, facendo scelte azzardate e rivoluzionarie sia in ambito liturgico che sociale che lo caratterizzeranno sempre di più nel corso della sua vita.
“Esci dalla tua terra, dalla tua famiglia, dalla tua dimora
e va nella terra che io ti mostrerò” (Gn 12,1)
Per meglio comprendere e avvicinare gran parte della gente del suo quartiere, dedita soprattutto alla pesca, decide di entrare con tutto se stesso nel mondo dei pescatori. Rinuncia alla congrua ed inizia la sua attività a bordo del motopeschereccio sul quale era regolarmente imbarcato. In seguito ad un infortunio viene poi assunto dalla locale Cooperativa Pescatori, scarica le casse di pesce al mercato ittico, svolge la funzione di astatore e dopo alcuni anni, si occupa del rifornimento di carburante dei pescherecci. Per non trascurare l’attività pastorale inizia a lavorare alle tre di notte e intorno alle 10 è di ritorno.
“Prima di arrivare agli Archi non conoscevo il mondo dei pescatori. Prima di fare l’esperienza del lavoro con loro in mare non sapevo praticamente niente del loro mondo, della loro vita dura e incerta. Oggi sento per me le parole che Dio disse ad Abramo: “Lascia il tuo paese, il tuo parentado, la casa di tuo padre e va nella terra che io ti mostrerò (Gn. 12,1). Cioè vieni fuori dalla tua sicurezza, dall’ambiente tranquillo, dalla situazione di privilegio e dalla vita pacifica in cui vivi: vieni in mezzo alle vicende umane, alle incertezze di ogni giorno e seguimi nella povertà e nella lotta di ogni giorno e di ogni uomo che soffre”.
…E’ necessario dunque entrare nella mischia, nelle vicende degli uomini e non predicare dal di fuori.
E’ un bisogno di incarnazione seria e autentica, che mi spinge pertanto a cercare un modo nuovo di fare il prete: vivere i problemi direttamente, sulla propria pelle. Per essere “apostolo” tra i pescatori, bisogna fare il pescatore, essere come loro, uno di loro. S. Paolo scrive ai Corinti: “Io infatti pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti, per guadagnarne il più gran numero. E mi sono fatto come Giudeo con i Giudei, per guadagnare i Giudei. Per quelli che erano sotto la legge di Mosè, (diventai) come uno che deve obbedire alla Legge, pur non essendo io stesso di fatto sotto la Legge (di Mosè) mi sono comportato come uno che era senza Legge, pur non essendo senza la legge di Dio, essendo sotto la legge di Cristo, per guadagnare quelli che sono senza Legge. Con i deboli mi sono fatto debole, per guadagnare i deboli, mi sono fatto tutto a tutti, allo scopo di salvarne a ogni costo alcuni. Faccio tutto (questo) per il Vangelo per diventarne io stesso partecipe con loro.”
E proprio in questo senso vorrei vivere e testimoniare la mia povertà, ricordando ciò che scrive S. Paolo ai cristiani di Tessalonica: “Voi ben sapete in quale modo dovete imitare noi, perché noi non siamo vissuti fra voi oziosamente, ne abbiamo mangiato gratis il pane di nessuno di voi. E ciò non perché non ne avessimo il diritto ma per darvi, in noi stessi, un modello da imitare” (II Tess. 3,7-10).
Dunque è necessario per me fare il pescatore con i pescatori per essere uno di loro per guadagnare qualcuno di loro a Cristo Gesù.
Così scriveva Don Eugenio del Bello in una delle pagine più toccanti del suo diario.
Una scelta sofferta ma determinata quella del lavoro che gli costa non pochi contrasti con la Curia; non dimentichiamo che negli anni subito prima del Concilio, il Sant’Uffizio vietava l’esperienza dei preti operai, quei sacerdoti che in Francia e in Italia avevano cominciato a lavorare in fabbrica per condividere la vita quotidiana e le fatiche degli operai, e questo clima era ben radicato anche negli anni a seguire.
Ancora in una lettera alla sua comunità, Doge nel 1975 scrive:
Fratelli,
sento doveroso comunicarvi i sentimenti ed i pensieri che mi hanno portato a prendere una decisione che cambia il mio modo di fare il prete in mezzo a voi. Siamo nell’anno del giubileo e si parla di riconciliazione e di conversione. Ognuno di noi deve realizzare una seria e profonda conversione per giungere alla riconciliazione. Tutta la chiesa deve convertirsi e poi riconciliarsi con gli uomini. Sento pertanto ogni giorno di più intensamente per me l’invito della parola di Dio che mi dice come ad Abramo: “Esci dalla tua terra, dalla tua famiglia, dalla tua dimora e vieni nella terra che io ti indicherò”
Vieni fuori dalla tua sicurezza, dall’ambiente tranquillo, dalla situazione di privilegio e di pacifica cordialità in cui vivi: vieni in un posto diverso, in un ambiente diverso di lotta quotidiana.
Tutto questo per me vuol dire scegliere di vivere da oggi in una baracca e guadagnarmi da vivere con il lavoro delle mie mani, andando in mare con i pescherecci. L’abitazione parrocchiale non risponde alle mie personali esigenze di povertà, è troppo borghese, troppo comoda. La baracca credo risponda di più al senso della provvisorietà della vita, come ci ricorda la parola di Dio “Non abbiamo quaggiù una dimora definitiva” (Ebrei 13, 14).
Questa la mia conversione e la mia riconciliazione con il mondo dei poveri e con il mondo del lavoro.
Fare il prete (e il parroco) in questo modo nuovo è per me essere più presente, anche se meno disponibile in alcune forme burocratiche e per certe liturgie ormai prive di significato e di forza vitale.
A tutti quelli che mi hanno seguito e amato e mi sono tutt’ora vicini, chiedo perdono se il mio gesto sarà motivo di sofferenza.
La bontà, l’amore del Padre comunicati a noi dal Figlio suo Gesù Cristo per mezzo dello Spirito Santo vivano sempre in noi e ci spingano a lottare per tutti i fratelli, soprattutto per gli oppressi e gli sfruttati. Amen
Doge è stato da molti chiamato il prete dei pescatori non solo per il fatto che ha realmente lavorato con loro e perché la gente della sua parrocchia era formata soprattutto da gente che vive in mare, ma perché con la sua scelta ha sfatato il luogo comune che giudicava anticlericale il quartiere, grazie a lui gli arcaroli hanno tirato fuori la loro natura di gente solidale ed è riuscito a coinvolgere il quartiere in tante iniziative.
Cosi lo descrive un pescatore suo collega: “El Doge, che fermo nun ce sapeva sta’, invece de spetà i fedeli drento la chiesa, ha preferito andà fori tra de loro: s’è meso a fadigà insieme ai pescatori e è diventato uno de no’.” (Il Doge che non sapeva star fermo, invece di aspettare i fedeli in chiesa, ha preferito andare fuori tra di loro: si è messo a lavorare insieme ai pescatori ed è diventato uno di noi).
Doge era una persona mite, pura di cuore, un rivoluzionario armato del sorriso e di una grande tenacia che riusciva a coinvolgere anche i più scettici. Riusciva ad imbarcarsi in progetti che i più consideravano utopistici, da “matti”. La sua capacità di affidarsi al Divino gli consentiva di affrontare ogni difficoltà con una serenità e una fiducia contagiosi. Un grande sognatore ma soprattutto un uomo di grande fede.
Per molti negli anni 70/80 le sue scelte furono scioccanti, qualcuno lo ritenne e lo chiamava “un prete comunista”. Criticato e chiacchierato, quando a lui, di una profonda sensibilità, arrivavano le voci, taceva e alzava le spalle.
La ricchezza della diversità
Tra gli ultimi della sua vita non c’erano solo i pescatori ma anche quei piccoli che venivano in quegli anni chiamati handicappati, quelle persone considerate meno fortunate che negli anni ‘70 rimanevano spesso in casa con diritti e dignità non riconosciuti. Doge inizia a collaborare con il Centro Volontari della Sofferenza (CVS) che organizzava esercizi spirituali per gli ammalati a Re (Domodossola).
La comunità giovanile che si crea intorno a Doge inizia a riflettere su alcuni aspetti importanti relativi alla sofferenza così intesa, i condizionamenti culturali che la disabilità portava con sé anche in ambito religioso in cui la sofferenza veniva addirittura esaltata. Si iniziano a cercare gli strumenti per valorizzare la persona indipendentemente dalla condizione fisica, mentale e sociale, e rifiutare la sofferenza come condizione quasi positiva addirittura da desiderare per ottenere la salvezza.
Nasce un evidente contrasto con le autorità ecclesiastiche locali e con i responsabili del CVS e si crea una spaccatura. Ben presto lo spirito libero e intraprendente di Doge lo spinge a lasciare il CVS. Fonda, con un gruppo considerevole di persone, nel il primo Convegno da dissidenti a San Marino nel giugno del ’75, la Libera Comunità in Cammino. Libera per essere liberi da compromessi; Comunità per condividere e dare valore di ogni persona: in cammino perché proiettata verso il futuro, in crescita personale e sociale. Nel gruppo erano presenti giovani, meno giovani, disabili e non, credenti e poco credenti, comunque uomini e donne disposte a favorire un cammino di liberazione di ognuno.
Iniziano una serie di iniziative incontri, visite a domicilio, celebrazioni eucaristiche in casa di disabili, convegni e poi vacanze, viaggi in nave, aereo, pullman, un fiorire di vita anche per chi pensava di non aver mai potuto visitare luoghi lontani. Doge spinge per creare la Cooperativa Tre Ci con l’intento di creare opportunità di inserimento lavorativo e il Centro H per la cura dell’informazione e Documentazione. Tutte realtà, a parte la cooperativa che non è mai riuscita a decollare, ancora oggi attive.
Il silenzio e la pazienza erano le sue virtù più grandi, insieme ad una tenerezza innata.
Durante la malattia spesso gli dicevo: “Quanta pazienza hai Doge?” E lui rispondeva “mi sono allenato molto”. Sin dall’esordio della malattia, che lo ha colpito progressivamente (encefalopatia verosimilmente Creutzfeldt-Jakob (MCJ), Doge mi ha chiesto (io sono fisioterapista) di aiutarlo a recuperare e mantenere la funzionalità delle gambe. E così, per diversi mesi i nostri incontri mettevano in luce la perdita progressiva di tutte le funzioni motorie.
Il padre che mi aveva insegnato a camminare spiritualmente, mi chiedeva di accompagnarlo in quella fase difficile del suo cammino. Quella condizione di disabilità che in altri aveva incontrato, sostenuto, incoraggiato, liberato interiormente, ora la incarnava completamente vivendola con semplicità e accoglienza.
Una condivisione piena, amorevole, come sempre nella sua vita ha saputo testimoniare.
Antonella Boni